Monthly Archives: February 2013

Egitto. Non solo calcio: gli Ultras da tifoseria ad attore politico

egitto_ultras_0

La scorsa settimana Port Said è tornata ad essere l’epicentro di nuove proteste. Nonostante lo stato di emergenza imposto da Morsi, i cittadini sono scesi in piazza, sfidando il coprifuoco. Al centro della mobilitazione, gli ultras del club calcistico locale, il Masry.

 

I manifestanti contestano all’attuale governo non solo di aver marginalizzato la città ma anche di averne fatto un ‘capro espiatorio’. Dopo essersi uniti ai lavoratori, hanno bloccato le attività di molte fabbriche intorno al Canale di Suez, snodo economico di estrema importanza per l’economia egiziana.

 

GLI ULTRAS E L’IMPEGNO POLITICO

Circa un mese fa, gli ultras sono scesi in piazza in tutte le principali città egiziane per commemorare il secondo anniversario della caduta del regime. In questa occasione, la Fratellanza ha chiarito che il governo Morsi è molto preoccupato dalla ‘politicizzazione’ delle tifoserie e incoraggia i media e i partiti politici a non incitarli verso “comportamenti sovversivi e all’uso della violenza”.

Tuttavia la loro centralità nelle manifestazioni di piazza è un fatto noto. 

Sin dall’inizio della ‘Primavera araba’, gli ultras hanno giocato un ruolo fondamentale negli scontri come per esempio nella famosa ‘battaglia dei cammelli’. Anche dopo i fatidici diciotto giorni che hanno preceduto la caduta del regime, hanno continuato a stare a fianco dei manifestanti durante tutto l’interregno militare dello SCAF. Per esempio, si sono distinti in episodi piuttosto sanguinosi come la battaglia di Mohammed Mahmud Street.

Il 2 febbraio 2012, in seguito alla partita di calcio Ahly contro Masry, le due tifoserie si sono scontrate causando incidenti che hanno ucciso settantaquattro persone, per la maggior parte ultras dell’Ahly (detti anche Ahlawy). 

Secondo alcuni testimoni oculari, le forze dell’ordine non sono intervenute e, per di più, durante i tafferugli le luci dello stadio sono state ‘misteriosamente’ spente e le porte sbarrate.

In virtù del ruolo giocato dagli ultras dell’Ahly nelle proteste contro il regime di Mubarak, molti hanno ipotizzato che, dietro alla violenza, vi fosse la mano del governo e la volontà di punire chi era stato in prima linea durante le manifestazioni. La storia del movimento Ultras

Il movimento degli ‘ultras’ nasce on-line nel 2005 ed inizialmente, prende vita intorno ai due principali club calcistici cairoti: Ahly e Zamalek. I giovani egiziani delle periferie (molto spesso intorno ai vent’anni) ne sono protagonisti assoluti, con una partecipazione femminile praticamente inesistente.

All’interno di questo “movimento”, non ci sono correnti di stampo ideologico (sul modello degli ultras europei) ma a fare da collante è l’opposizione alla repressione delle forze dell’ordine ed alla corruzione del sistema giudiziario.

Assolutamente ‘indipendenti’ rispetto alla dirigenza dei club calcistici, gli ultras si identificano con una vera e propria sub-cultura che, a livello musicale, trova espressione in un genere ibrido, nato dalla contaminazione fra hip hop e melodie arabe.

Gli scontri fra ‘tifoseria’ e polizia egiziana hanno inizio nel 2009 con l’arresto di alcuni ultras per aver tentato di aprire uno striscione pro-Palestina che condannava l’invasione israeliana di Gaza.

Da allora le forze dell’ordine hanno cercato di mettere a tacere questo movimento in tutti i modi, spesso ricorrendo all’intimidazione e alla violenza. Non di rado decine di ultras sono stati arrestati alla vigilia di un’importante evento calcistico per poi essere rilasciati il giorno successivo al match.

L’esperienza maturata in anni di scontri con le forze dell’ordine è stata una delle ‘risorse’ che ha reso gli ultras protagonisti della ‘Primavera egiziana’, ponendoli sempre in prima linea durante le proteste con un gran numero di vittime e feriti gravi.

Secondo Carlo Rommel (dottorando alla SOAS), mentre alcuni attivisti li idealizzano per il ruolo avuto durante i 18 giorni precedenti alla caduta del regime, altri li guardano con diffidenza, giudicandoli privi di una coscienza politica.

Ciononostante è innegabile che siano una parte estremamente significativa del ‘fronte rivoluzionario’ nazionale.

Secondo il blogger James Dorsey, gli ultras sono stati la prima ‘organizzazione’ che ha osato sfidare la polizia egiziana sotto Mubarak e questo ha permesso ad un gran numero di giovani poveri, arrabbiati e senza troppa speranza nel futuro di aderire al loro progetto. Come il movimento dei lavoratori ha opposto resistenza al governo Mubarak nelle fabbriche, gli ultras lo hanno fatto negli stadi, entrambi nel tentativo di strappare lo spazio pubblico alla repressione e al controllo del regime.

Oggi, gli ultras sono presenti in tutte le principali piattaforme virtuali e le loro pagine Facebook e Twitter sono seguite da migliaia di fan.

“La nostra battaglia per ottenere giustizia è in atto e continuerà finché tutti i poliziotti e militari che hanno commesso degli abusi contro di noi saranno  processati”, ha dichiarato in un’intervista ad al-Ahram Said, uno dei capi degli ultras Ahlawy.

Per ora i ‘tifosi’ continuano a ‘difendere’ la rivoluzione sul campo a colpi di molotov, ma fare previsioni sull’esito della ‘transizione’ egiziana è difficile, così come è difficile immaginare il posto che gli ultras prenderanno nel futuro sistema politico del paese.

Inoltre, secondo Mohamed Gamal Basheer (autore di ‘gli ultras e la rivoluzione egiziana’), il fenomeno delle tifoserie politicizzate non è una prerogativa solo egiziana. In base alla sua ricostruzione, l’idea della tifoseria calcistica organizzata compare nel mondo arabo negli anni settanta.

All’inizio i gruppi erano molto legati alla dirigenza dei club ma gradualmente si sono resi indipendenti. Il primo ‘nucleo’ ultras del mondo arabo nasce in Libia nel 1989 ma viene sciolto da Gheddafi solo dopo due settimane.

Nel 1990 gli ultras fanno una breve apparizione in Tunisia, per poi prendere piede in Marocco (nel 2005) e in Algeria (nel 2007).

E come dimostra il caso egiziano, non di solo calcio si tratta. Gli ultras infatti, anche se privi di un programma dettagliato, sono ormai diventati a tutti gli effetti un attore politico di primo piano.

Piuttosto che incarnare un’ideologia definita, esprimono il ‘malessere diffuso’ di una generazione e hanno un ruolo importante nella transizione verso la democrazia.

 

This article was published originally in: Osservatorio Iraq – Medioriente e Nordafrica

Iraq. La storia di Zaid: da pacifista a partigiano della resistenza

In “Perché uccidi, Zaid?”, lo scrittore tedesco Jürgen Todenhöfer racconta la sua versione della storia della resistenza irachena all’occupazione americana, a partire dalla vita di un giovane studente pacifista. 

 

LA STORIA DI ZAID

Zaid ha ventidue anni e vive nella provincia di Ramadi quando gli Stati Uniti invadono il suo paese, nel 2003. Il ragazzo decide di non unirsi alle file della ‘resistenza’, preferendo continuare i suoi studi.

Tre anni dopo, gli americani uccidono il più piccolo dei suoi due fratelli, mentre gran parte degli amici d’infanzia impugnano le armi contro le forze di occupazione.

Poi quella bomba che nel 2007 rischia di distruggergli casa, e la sua famiglia che si rifugia terrorizzata nell’abitazione dello zio.

Ma il riscaldamento è rimasto acceso. E Karim, l’unico fratello di Zaid ancora vivo, corre a spegnerlo. Dopo neanche trenta metri viene freddato da un cecchino americano.

Per le strade la situazione è così pericolosa che il corpo senza vita di Karim resta sull’asfalto sino all’alba del giorno seguente: un dramma che si somma allo shock.

Sarà in seguito a questa seconda perdita che Zaid si unirà alla resistenza contro gli americani, per fermare quello che stava diventando un vero “massacro” di civili inermi.

Nel raccontare la storia di Zaid, l’autore confessa: “Non siamo mai stati grandi amici, anche perché io credo nella nonviolenza predicata da Martin Luther King e Gandhi. Ciononostante, è stato facile intuire le ragioni della sua scelta”.

 

L’AUTORE E IL SUO PENSIERO

Jürgen Todenhöfer è uno scrittore, ex-parlamentare e professore di diritto internazionale. Ma è soprattutto noto all’opinione pubblica tedesca come uno dei più autorevoli oppositori alla guerra in Afghanistan e Iraq.

Nel suo libro racconta “la vera storia della resistenza irachena che i media occidentali non hanno avuto il coraggio di narrare”.

Perché Jürgen ha visitato il paese più volte, e la sua opera è frutto di un lavoro ‘sul campo’. Durante il suo soggiorno nella provincia di Ramadi, lo scrittore si è confrontato con le difficoltà che le famiglie continuano a dover affrontare quotidianamente.

Dall’elettricità che va a singhiozzo ai bombardamenti, o ancora alla necessità di dormire all’aperto quando il caldo diventa insopportabile.

Parlando del tempo trascorso in Iraq, Jürgen fa un lungo elenco delle cose che non riuscirà mai a dimenticare: “le case distrutte, le ispezioni continue della polizia, i checkpoint, la miseria in cui vivono le persone e il dramma delle madri che hanno perso i propri figli durante il conflitto”.

Lui è uno dei pochi che ‘sul campo’ c’è stato davvero, e ha vissuto in prima persona l’insicurezza e la violenza degli anni dell’occupazione: “La gran parte delle persone che parlano di Iraq e Afghanistan non ci hanno mai vissuto” ribadisce l’autore, che sottolinea: “Non c’è un solo politico occidentale che abbia trascorso almeno una settimana a casa di una famiglia del posto. I nostri ‘rappresentanti’ volano in questi paesi, fanno conferenze stampa e tornano indietro”.

Jürgen critica fermamente i media occidentali, “colpevoli – a suo dire – di dipingere il mondo arabo-musulmano in maniera distorta”.

“Quando ne parlano – afferma – è per metterne in risalto la presunta ‘violenza’ senza prendere in considerazione i crimini commessi dall’Occidente”. “Al-Qaeda – aggiunge – è senza dubbio un’organizzazione terroristica che in venti anni si è resa responsabile della morte di 5000 civili, ma il governo americano ha ucciso centinaia di migliaia di cittadini iracheni”.

Il problema principale, dunque, “non è la violenza di matrice islamica, ma l’aggressione dei paesi occidentali contro Stati come l’Afghanistan e l’Iraq”.

Secondo Jürgen l’islamofobia è ormai parte integrante non solo della politica tedesca ma anche di quella olandese e americana.

In “Perché uccidi, Zaid?”, l’autore racconta come durante l’occupazione la resistenza non abbia combattuto solo gli americani e i loro alleati, ma anche le milizie dei potenti politici locali: “Nel 2008 c’erano circa 100 mila combattenti che lottavano per la libertà e non uccidevano civili”.

Una resistenza che “va distinta da al-Qaeda, che invece resta un’organizzazione di ‘assassini’ composta da non più di 1000 membri, per la maggior parte non iracheni”, sulla quale conviene “tenere i riflettori puntati per giustificare l’occupazione”.
 

Il ricavato dai diritti del libro è stato devoluto per acquistare medicinali destinati ai tanti rifugiati e sfollati iracheni, e per finanziare un progetto di riconciliazione israelo-palestinese.

 

This article was originally published by: Osservatorio Iraq – Medioriente e Nordafrica

L’Iraq è il futuro del mercato petrolifero?

A 10 anni da quella che molti considerano la ‘guerra del petrolio’, gli Stati Uniti non sono ancora riusciti a imporre né una nuova legge né dei contratti più vantaggiosi per le loro compagnie, tranne che nella regione semi-autonoma del Kurdistan.

 

Nel 2009, quando le compagnie straniere sono rientrate in Iraq, la produzione di greggio è tornata a crescere e il paese è diventato il secondo produttore dell’Opec.

Secondo il blogger Joel Wing, le multinazionali che attualmente operano sul suolo iracheno sono sessanta: 17 hanno firmato contratti col governo di Baghdad, 40 con quello autonomo del Kurdistan e tre (Total, Exxon e Gazprom) con entrambi.

Inoltre, le nazionalità di queste compagnie sono molto variegate. Le ‘asiatiche’ sono le più numerose, e rappresentano il 43% del totale, seguite dalle americane col 28% e dalle europee col 25%.

Ma i contratti siglati dal governo federale iracheno sono formalmente “illegali” in quanto privi dell’approvazione del Parlamento, che è invece necessaria ai sensi della legge sul petrolio del 1967, attualmente ancora in vigore.

 

LA LEGGE SUL PETROLIO

 Dopo l’invasione del 2003, gli Stati Uniti hanno cercato (invano) di far approvare una nuova legge sul petrolio, esercitando enormi pressioni sulle istituzioni politiche irachene, con l’obiettivo di agevolare il ritorno delle multinazionali straniere nel paese.

Nel 2006, il Consiglio dei ministri di Baghdad ha preparato una proposta di legge e la Casa Bianca ha fatto di tutto per caldeggiarne l’approvazione, minacciando sia di tagliare i fondi per la ricostruzione sia di ritirare il proprio sostegno politico al premier Nouri al Maliki.

E per esercitare ancora più pressioni, gli Stati Uniti hanno imposto un ultimatum: settembre 2007.

Ma nel dicembre del 2006, i leader dei sindacati iracheni hanno cominciato ad organizzarsi contro l’approvazione di questo testo che spogliava il Parlamento nazionale dei suoi poteri di controllo sui contratti.

La loro lotta è stata abbracciata da ampi strati della società civile, convinti che le riserve petrolifere debbano essere un bene pubblico destinate alla popolazione locale.

Ben presto, anche molti politici iracheni hanno iniziato a schierarsi con i lavoratori, e al momento del voto in Parlamento la proposta di legge non è passata.

Nel 2009, però, il governo guidato da Maliki ha cominciato a concludere contratti con le multinazionali senza l’approvazione dei deputati, quindi in aperta violazione della legislazione in vigore.

Secondo Greg Muttitt, la mossa del premier va però letta come una ‘falsa’ vittoria per le compagnie petrolifere straniere, dal momento che i contratti sono formalmente illegali e resteranno in piedi solo finché a Baghdad ci sarà un governo ‘amico’.

 

I CONTRATTI PETROLIFERI

 Gli Stati Uniti e le compagnie petrolifere hanno inoltre perso anche sul fronte della tipologia dei contratti perché non hanno ottenuto la cosiddetta ‘produzione condivisa’, e si sono dovuti accontentare di ‘contratti di servizio’, fatta eccezione per il Kurdistan.

In base ai contratti di produzione condivisa, lo Stato rimane proprietario del petrolio mentre la compagnia straniera (o un gruppo) provvede a sborsare tutto il capitale necessario all’esplorazione, la trivellazione e lo sfruttamento del giacimento. I profitti – che per i primi anni servono a recuperare i costi dell’investimento – vengono poi divisi fra le due parti. 

In Iraq le multinazionali devono invece accontentarsi dei ‘contratti di servizio’, in cambio dei quali ricevono una tariffa fissa per ogni barile di greggio, senza alcun tipo di partecipazione alla divisione dei profitti.

Tanto che il New York Times li considera tra gli accordi più svantaggiosi al mondo, sia dal punto di vista dei guadagni sia per l’insicurezza endemica e il pessimo stato delle infrastrutture del paese.

Ed è proprio per questo che molte compagnie straniere si sono rivolte direttamente al più ‘clemente’ governo del Kurdistan.

 

OTTIME PROSPETTIVE?

 La corsa all’oro nero iracheno è incoraggiata dalle previsioni rispetto alla scoperta di nuovi giacimenti. Secondo il ministero del Petrolio, nel 2014 la produzione dovrebbe salire a quota 6,5 milioni di barili al giorno, più che raddopiando la cifra attuale di 2,7 milioni.

Il governo ha addirittura parlato dell’obiettivo di toccare quota 10 milioni entro il 2017, anche se alcuni analisti indipendenti sostengano che sia impossibile.

“Nessun paese è riuscito ad aumentare la produzione tanto quanto l’Iraq sta progettando di fare”, ha tuonato Michael Townshend, presidente della British Petroleum (BP) nell’ufficio di Baghdad.

Ma da quando le multinazionali petrolifere hanno fatto ritorno nel paese (tra cui l’italiana Eni), la corruzione è salita alle stelle: “Due compagnie occidentali sono attualmente sotto inchiesta per aver dato o ricevuto tangenti, il governo iracheno sta pagando una tariffa al barile calcolata in base ad obiettivi di produzione altamente irrealistici […] e i contractor stanno calcando la mano sui costi di trivellazione”, scrive Greg Muttitt.

“Le compagnie straniere che fanno affari senza mazzette sono l’eccezione, non la regola. Nessuno corre il rischio […], perchè all’improvviso il loro progetto potrebbe essere bloccato per questioni burocratiche, minacce o veri e propri atti di violenza”, spiega Hameed Abdullah su al-Mashraq.

Ma nonostante i bassi livelli di trasparenza, l’insicurezza e lo stato deplorevole delle infrastrutture, le grandi multinazionali non sembrano intenzionate a volersene andare. Perchè, come si legge in un documento della BP (riportato da Greg Muttitt), in molti sono convinti che “l’Iraq sia il futuro del mercato petrolifero”.

 

This article has originally been published in: Osservatorio Iraq – Medioriente e Nordafrica

L’Iraq 10 anni dopo: una ricostruzione fallita?

Secondo Dan Morse, quando gli Stati Uniti invasero l’Iraq pensavano di poter trasformare il paese in un “centro per lo sviluppo economico” basato sulle riserve di petrolio. Nel 2003 Paul Bremer ha dichiarato: “L’Iraq è pronto a fare affari”. Ma a dieci anni di distanza dall’invasione anglo-americana, disoccupazione e povertà dilagano e i servizi  essenziali non soddisfano i bisogni della popolazione. Ecco l’Iraq, 10 anni dopo l’invasione.

 

LE VERITÀ NEGATE DAL MIRAGGIO DELLA CRESCITA ECONOMICA

In base ai dati della Banca Mondiale, nel 2011 il prodotto interno lordo pro capite è tornato ai livelli del 1980, crescendo rispetto al periodo precedente l’invasione. Infatti, dai 759 dollari del 2001 si è passati ai 3.501.

“Pur nel bel mezzo di una situazione politica difficile, l’Iraq ha fatto grandi passi in avanti sul versante macroeconomico (…) la crescita è stata ripristinata, l’inflazione e il deficit decurtati”, si legge sul sito della Banca Mondiale.

Di un altro Iraq parlano invece i dati su disoccupazione e povertà, con il paese che sprofonda negli inferi della classifica mediorientale. 

Solo il 38% dei cittadini iracheni in età adulta ha un’occupazione lavorativa e le donne incontrano maggiori difficoltà degli uomini a trovare un impiego. Fra i paesi arabi, solo Libia e Yemen vantano risultati peggiori.

Ma soprattutto, nel 2012 circa il 22,5% della popolazione è sopravvissuto con appena 2 dollari al giorno, che convenzionalmente rappresentano la soglia della povertà. 

Di contro, il sottosuolo iracheno ospita le quarte riserve di petrolio al mondo e il paese si candida a diventare il secondo produttore di greggio su scala globale. L’oro nero è stato il motore della ‘crescita’ economica post-invasione e attualmente rappresenta il 90% delle esportazioni, il 95% delle entrate pubbliche e il 60% del Pil.

Tuttavia, questo settore fornisce occupazione solo all’1% della popolazione e, come nota il Washington Post, il governo non è stato in grado di investire i proventi del petrolio né per diversificare l’economia nazionale né per rimettere in sesto i servizi essenziali alla comunità come scuole, ospedali e infrastrutture.

Secondo Haifa Zangana, il problema principe dell’economia irachena risiede nella corruzionedilagante del sistema politico che avrebbe “bruciato” ben 600 miliardi di dollari di rendite petrolifere piuttosto che re-investirle in modo utile al paese. 

In base al Corruption Perceptions Index di Transparency International, l’Iraq è in fondo alla classifica mondiale, con livelli di corruzione così alti da farlo finire 169esimo su 176 paesi.

Inoltre, sin dal 2004 la terra tra i due fiumi  è stata inondata da ingenti quantità di denaro stanziate da ‘attori internazionali’ allo scopo di finanziare la ricostruzione post-conflitto: la Banca Mondiale, in collaborazione con le Nazioni Unite, ha stanziato circa 1,8 miliardi di dollari  attraverso due fondi fiduciari a cui hanno partecipato venticinque paesi.

Parte di queste risorse sono state usate per diversi progetti, dalla riedificazione di scuole e ospedali al rafforzamento del settore privato.

Anche gli Stati Uniti hanno partecipato direttamente alla ricostruzione, con uno sforzo finanziario molto consistente: il New York Times e al-Jazeera parlano di almeno 125 miliardi di dollari, l’investimento “più ambizioso dai tempi del Piano Marshall”.

 

NONOSTANTE LA PIOGGIA DI DOLLARI, “LA RICOSTRUZIONE È FALLITA”  

Nonostante questo ‘fiume di denaro’ abbia inondato le casse dello Stato iracheno, le condizioni in cui attualmente versano servizi e infrastrutture sono deplorevoli.

Secondo  Peter Van Buren, funzionario del Dipartimento di Stato: “La ricostruzione è fallita miseramente. Gli Stati Uniti non sono stati in grado di rimettere in funzione la rete elettrica nazionale né di fornire acqua potabile alla maggior parte della popolazione”.

In base ai dati dell’ Ngo coordination commitee for Iraq (NCCI), gran parte degli iracheni vive con sei ore di elettricità intermittente al giorno. La rete elettrica nazionale non riesce a soddisfare le necessità di una popolazione in continua crescita e condividere un generatore autonomo con i vicini di casa costa troppo per la maggior parte dei cittadini.

Inoltre, la carenza di energia elettrica ha avuto un impatto negativo sulla qualità dell’acqua, rendendo gli impianti di purificazione e fognari operativi solo periodicamente e mettendo così a rischio la salute della popolazione.

Di conseguenza, un iracheno su quattro non ha accesso all’acqua potabile. 

Dal 2003, il livello dei fiumi Tigri ed Eufrate è sceso notevolmente e il collasso del “qanat/karez” (un sistema di acquedotti collegato al nord e est del paese) ha messo in seria difficoltà queste aree.

La dipendenza dalle falde acquifere sotterranee è aumentata, ma senza una rigida regolamentazione la corsa per accaparrarsi queste risorse rischia di portarle ad esaurimento in tempi molto brevi.

Sempre secondo la NCCI, nel 2003 all’Iraq servivano 5 mila nuove scuole e 7 mila avrebbero dovuto essere messe in sicurezza. Attualmente, un quinto della popolazione fra i 10 e i 49 anni è analfabeta, mentre negli anni Ottanta l’Iraq vantava una posizione di primato nella regione per l’alto livello di istruzione dei suoi cittadini. 

Inoltre, scomponendo questo dato per genere, si nota come il problema riguardi soprattutto le donne (il 24% non sa né leggere né scrivere contro l’11% degli uomini).

A dieci anni di distanza dall’invasione americana, le scuole irachene devono affrontare molte difficoltà come per esempio l’assenza di attrezzature e la mancanza di personale qualificato.

Per quanto riguarda la sanità, il tasso di mortalità infantile e materna ha subìto un netto declino, anche se il paese si trova ancora in fondo alla classifica regionale.

Destano allarme la percentuale crescente di bambini che nascono affetti da malformazionicongenite e il notevole aumento dei casi di cancro e leucemia, soprattutto fra i più piccoli, nonché la comparsa di malattie “nuove” per il paese.

Secondo gli esperti, entrambi i fenomeni sono collegati alla contaminazione da uranio impoverito e altri tipi di inquinamento dovuti all’attività militare.

Molti di quei dottori e scienziati iracheni che hanno tentato di indagare su questa possibile correlazione sono stati vittime di censura, minacce e addirittura aggressioni.

 

NESSUN PROGRESSO SUL FRONTE DEI DIRITTI UMANI

A dieci anni dall’inizio dell’occupazione, le violazioni dei diritti umani continuano, soprattutto contro detenuti, giornalisti, attivisti e donne.

Secondo Human Rights Watch, gli arresti extra-giudiziali e la tortura sono pratiche ancora in voga e le forze di sicurezza irachene persistono nel reprimere con estrema violenza ogni forma di dissenso. 

La Ong ha inoltre denunciato l’esistenza di prigioni segrete e il sovraffollamento di quelle ordinarie in cui i prigionieri vivono in condizioni allarmanti, con un accesso molto limitato a cibo e servizi igienici.

Secondo Haifa Zangana, gli abusi sessuali e le minacce di stupro sono ormai pratiche comuni nei centri di detenzione. Su questo fronte anche Amnesty International ha documentato casi in cui i prigionieri sono stati costretti a praticare sesso orale durante gli interrogatori o hanno confessato per paura di ritorsioni sessuali nei confronti dei loro familiari.

In aggiunta, rimane critica anche la situazione dei rifugiati e il governo non ha messo a punto alcun piano per il loro rientro. Dal 2003, un iracheno su cinque ha lasciato la propria abitazione e ha cercato riparo altrove, a volte all’estero, altre all’interno dei confini nazionali.

Secondo l’Organizzazione internazionale per le migrazioni sono meno del 10% quelli che hanno deciso di rientrare, e spesso coloro che lo hanno fatto non hanno ritrovato la propria casa. Gli sfollati interni sono costretti a vivere in sistemazioni abusive senza accesso all’acqua pulita e ai servizi igienici.

Stando alle stime del ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, negli ultimi dieci anni quattro milioni e mezzo di bambini sono rimasti orfani. 

Attualmente sono 600 mila i minori che vivono in strada senza accesso ai servizi essenziali come il cibo e la casa, e 700 sono invece ospitati nei pochi orfanatrofi del paese.

L’Associazione degli psicologi iracheni ha denunciato gli effetti devastanti che l’occupazione ha prodotto sulla salute mentale dei più piccoli, creando notevoli problemi di apprendimento. Fuad Azziz, psicologo, sostiene che “i bambini hanno bisogno di muoversi, leggere, apprendere e giocare ma oggi in Iraq fare cose di questo tipo significa rischiare la vita”.

Inoltre, l’esposizione alla violenza sin dalla più tenera età ha reso molti adolescenti delle ‘reclute modello’ per le milizie armate, come ad esempio quelle affiliate ad al-Qaeda.

Infine, le donne sono un’altra categoria fortemente a rischio. Negli ultimi dieci anni, molte sono rimaste vedove, dopo aver perso i mariti in esplosioni, sparatorie o atti di violenza. Donne estremamente vulnerabili e spesso costrette a prostituirsi per guadagnarsi da vivere. 

Lo scorso aprile il governo iracheno ha varato una legge contro il traffico degli esseri umani, ma le autorità hanno fatto ben poco per metterla in pratica, così come nel caso della legge sulla violenza domestica (entrata in vigore due mesi dopo) che, fra le altre cose, rende illegale le mutilazioni genitali femminili e i matrimoni forzati e fra bambini.

 

L’IRAQ DELLE DONNE 

Sotto Saddam Hussein, la presenza delle donne in politica e all’interno del mondo del lavoro era incoraggiata, ma gli standard di vita della popolazione femminile si sono notevolmente deteriorati a partire dagli anni Novanta e soprattutto in seguito all’occupazione.

Secondo Al-Ali, ricercatrice presso la SOAS, i diritti sociali ed economici della donna e la sua posizione all’interno della società hanno cominciato a peggiorare durante il periodo delle sanzioni (1990-2003), per poi precipitare definitivamente. 

Attualmente la partecipazione delle donne nella sfera pubblica è ostacolata dal clima di insicurezza e dalla precarietà economica in cui vivono per la maggior parte.

E’ soprattutto la violenza a giocare un ruolo fondamentale: gli stupri, i rapimenti e il traffico di esseri umani sono cresciuti esponenzialmente in seguito alla caduta del regime.

Senza contare che durante gli anni Settanta e Ottanta l’Iraq era uno dei paesi arabi più all’avanguardia in materia di diritti femminili (si veda lo Statuto Personale del 1958) mentre con la nuova Costituzione, la religione è tornata ad avere un ruolo di primo piano e l’Islam si è affermato come fondamento della legislazione statale.

Secondo Haifa Zangana, sono tornate in auge pratiche che erano popolari un secolo fa come la Muta’a e la poligamia. La prima come forma di prostituzione socialmente accettata per le donne dei ceti sociali più bassi, la seconda come soluzione al grande numero di vedove.

“La condizione femminile è legata al contesto di insicurezza generale (…), le violazioni dei diritti delle donne fanno parte di tutta quella serie di abusi che ha subìto l’intera popolazione irachena (…), ma le donne devono sopportare un doppio fardello perché sotto l’occupazione hanno perso gran parte della loro libertà”, ha dichiarato Maha Sabria, professoressa di Scienza politica all’Università Al-Nahrain di Baghdad.

Uno dei pochi segnali positivi nell’Iraq post-invasione è rappresentato dalla netta crescita del numero di organizzazioni e campagne per i diritti delle donne all’interno della società civile.

Una delle battaglie più importanti è stata quella per l’introduzione delle quote di genere in Parlamento. Dapprima osteggiate dagli Stati Uniti e da molti leader religiosi iracheni, sono state infine introdotte nella Costituzione provvisoria del 2004.

In seguito alle elezioni del 2005, i seggi occupati dalle parlamentari donne erano il 31,5% del totale, mentre nel 2010 questa percentuale si è leggermente contratta arrivando al 25%.

Tuttavia, la considerevole presenza numerica femminile non si traduce in uno sforzo comune per articolare un’agenda ‘femminista’ o per agire almeno come un gruppo unitario: al contrario, molto spesso i dibattiti più aspri si accendono proprio sulle questioni r lative ai diritti delle donne.

Ciò si spiega in due modi. Primo, con il divario ideologico che separa le parlamentari ‘secolarizzate’ da quelle appartenenti a fazioni politiche d’ispirazione religiosa. Secondo, con la sottomissione delle parlamentari ai leader (che sono tutti uomini e a volte addirittura loro parenti).

Anche se l’introduzione delle quote di genere sta avendo un impatto positivo sulla percezione delle donne nella sfera pubblica, gli ostacoli da affrontare per intraprendere una carriera politica sono ancora numerosi. 

Ad esempio, molte delle candidate alle elezioni politiche del 2005 e 2010 hanno ricevuto minacce di morte, soprattutto dalle milizie islamiste.

 

QUESTIONI DI (IN)SICUREZZA

Nell’Iraq post-invasione, il clima di insicurezza è diventato ‘normalità’ e la violenza, oltre a colpire l’esistenza femminile in modo profondo, continua a scandire la vita di un’intera popolazione.

Secondo l’Iraq Body Count, l’apice è stato raggiunto nel 2006. Tuttavia, per tutto il 2008, l’intensità di incidenti, aggressioni ed esplosioni è stata notevole.

Durante il 2012, l’Iraq Body Count ha registrato 4,568 morti. Questa cifra ha portato il numero totale di decessi (da marzo 2003) fra i 111.047 e i 121.345. Tuttavia, fare stime precise è molto difficile e alcuni osservatori ritengono che i calcoli di questa organizzazione minimizzino la gravità della situazione, suggerendo addirittura che a perdere la vita siano stati un milione di persone.

Il 2012 ha segnato un triste primato: è il primo anno, dal 2009, in cui il numero delle vittime è cresciuto, anche se gli ultimi mesi sono stati relativamente tranquilli.

“Il paese rimane in uno stato di guerra a bassa intensità (…) dove la violenza quotidiana è intervallata da attacchi occasionali su vasta scala mirati a uccidere molte persone in un colpo solo”, si legge nel rapporto.

 

This article has been originally published by: Osservatorio Iraq – Medioriente e Nordafrica

Yemen. Sempre più minori nel braccio della morte

Dopo la deposizione dell’ex-dittatore, nel paese continuano le violazioni dei diritti umani. Da domenica 27 gennaio, 77 detenuti sono in sciopero della fame nella prigione centrale di Sana’a.

 

La protesta è iniziata dopo che un giudice ha condannato a morte Nadim Al-‘Azaazi, per un crimine commesso all’età di quindici anni.

I prigionieri hanno anche compilato una lista di richieste indirizzate al governo. Una lista scritta a mano e firmata da 66 detenuti e resa poi pubblica da Amnesty International: “L’applicazione della pena di morte ai minorenni è vietata sia dal codice penale yemenita sia dal diritto internazionale. Le autorità devono farsi carico delle loro responsabilità giuridiche e annullare immediatamente la sentenza”, ha dichiarato Philip Luther, direttore per il Medio Oriente e il Nord Africa.

Tra i trattati firmati dallo Yemen, la Convenzione dell’Onu sui diritti del fanciullo e il Patto internazionale sui diritti civili e politici: due documenti cruciali che vietano l’esecuzione capitale per i reati commessi dai minorenni.

 

LE RICHIESTE DEI DETENUTI

I detenuti del carcere minorile sospenderanno lo sciopero della fame solo quando tutte le condanne a morte a carico di minorenni verranno annullate, compresa quella di Nadim.

Nella lista indirizzata al governo, oltre alle rivendicazioni di una serie di diritti e tutele, i detenuti puntano il dito sulla corruzione dilagante all’interno delle strutture carcerarie del paese.

Così come lanciano un appello affinché i processi diventino rapidi ed efficienti, onde evitare i molti i casi in cui i ragazzi rimangono in cella anche per più di tre anni in attesa di un processo, che spesso si concluderà con il loro rilascio.

I detenuti propongono inoltre la revisione delle condanne inflitte per reati non gravi e il diritto dell’imputato a scegliere liberamente il proprio legale.

Chiedono infine che i tribunali diano mandato ai medici di accertare la reale età delle persone sottoposte a processo attraverso i nuovi metodi che la tecnologia mette a disposizione. Anche perché nello Yemen non vengono registrate quasi l’80% delle nascite, in parte a causa dell’alto costo dell’operazione.

Ciò significa che la maggioranza dei giovani che finiscono in carcere non è in possesso di documenti ufficiali che ne certifichino l’identità.

La protesta è finalizzata a fare luce sulle condizioni disumane in cui vivono i minori nei centri di detenzione: nel documento si fa infatti riferimento all’assenza di spazio e allo stato deplorevole delle celle, dove spesso mancano le finestre e a volte persino i letti. E alla possibilità di vedere i propri cari, con il trasferimento in un carcere più vicino alla propria casa.

Secondo Amnesty International, i detenuti che si trovano nei carceri minorili del paese sono spesso costretti a rimanere in prigione anche oltre i termini della loro condanna. Ciò avviene, per esempio, perché non riescono a pagare le “sanzioni pecuniarie” decise dai tribunali.

Intanto le esecuzioni capitali continuano, e lo scorso 3 dicembre è stata la volta di una quindicenne, Hind el-Barti, accusata dell’omicidio di una coetanea e giustiziata da un plotone di esecuzione.

Secondo alcune ricerche commissionate dall’Onu, tra il 2006 e il 2010 sono state 14 le condanne a morte a carico di minorenni: “Non siamo solo indignati perché continuano ad essere giustiziati in violazione del diritto internazionale, ma siamo anche profondamente preoccupati perché il numero di condanne contro i ragazzi è in deciso aumento”, osserva Zermatten, presidente del comitato delle Nazioni Unite per i diritti del fanciullo.

Anche l’Unione Europea si è unita al coro delle proteste, con un appello del febbraio 2010 contro l’esecuzione di Muhammed Taher Tabhet Samoum e di Fuad Ahmed Ali Abdulla, due giovani condannati a morte per crimini commessi quando avevano meno di 18 anni.

L’Ue ha chiesto alle autorità yemenite una moratoria della pena di morte per i minorenni e la garanzia di un sistema affidabile di certificati di nascita e di servizi atti ad accertare l’età del detenuto nel caso in cui i documenti non siano disponibili.

 

LA TRANSIZIONE E I DIRITTI UMANI

Secondo Human Rights Watch, in questa fase di transizione, il governo di Abdu Rabu Mansur Hadi dovrebbe impegnarsi a trovare delle soluzioni per le numerose violazioni dei diritti umani praticate nel paese, soprattutto quelle sui più piccoli.

Fra le questioni spinose che l’esecutivo è chiamato affrontare, le detenzioni arbitrarie, l’impiego di soldati-bambini, gli attacchi alla libertà d’espressione e la verità sulle vittime delle proteste del 2011.

“I minorenni hanno avuto un ruolo centrale nelle proteste del 2011, ma hanno anche sofferto molto durante il conflitto”, spiega Priyanka Motaparthy, ricercatrice di HRW.

In base alle stime dell’Unicef, 94 tra bambini e adolescenti sono rimasti uccisi e 240 feriti durante gli scontri.

Molte organizzazioni internazionali e Ong locali hanno infatti accusato le varie fazioni politiche di ‘strumentalizzare’ la presenza dei minori durante le manifestazioni, esponendoli – senza la loro piena consapevolezza – a dei rischi enormi.

Inoltre, sia le forze governative che i movimenti di opposizione hanno occupato diverse scuole, trasformandole in obiettivi militari e mettendo a rischio la vita di migliaia di giovani studenti.

Durante i mesi che hanno preceduto la “cacciata” dell’ex-dittatore, molti istituti scolastici sono stati usati come basi e postazioni da cui aprire il fuoco, e hanno addirittura ospitato dei prigionieri.

Se lo Yemen era già in fondo alla classifica “mediorientale” nei livelli d’istruzione, dopo il 2011 il tasso di abbandono scolastico ha subìto un’impennata, soprattutto tra le ragazze.

 

This article has been originally published by: Osservatorio Iraq – Medioriente e Nordafrica

Egitto. Per la pena di morte nessuna rivoluzione all’orizzonte

A due anni dalla rivoluzione i Tribunali egiziani continuano a condannare a morte: il dibattito nella società civile è vivo, ma non sembra esserci una posizione condivisa che ne condanni l’applicazione.

 

Esattamente un anno fa, al-Ahly e al-Masry – due club calcistici egiziani – hanno giocato una delle partite più sanguinose della loro storia.

A Port Said, l’incontro fra le due squadre si è concluso con un risultato inaspettato, la sconfitta dell’al-Ahly, prima in classifica e “orgoglio di tutta la nazione”.

Dopo la partita, lo stadio si è trasformato in un campo di battaglia in cui i supporter dell’al-Masry hanno attaccato violentemente non solo i loro avversari ma anche le forze dell’ordine: 74 persone hanno perso la vita.

Sabato scorso una Corte civile ha condannato a morte 21 dei 70 indagati con l’accusa di aver attaccato, ucciso e creato il caos nello stadio.

La sentenza ha scatenato le proteste dei familiari dei detenuti che, per ritorsione, hanno attaccato la prigione della città. Le forze dell’ordine hanno risposto con lacrimogeni e proiettili di gomma.

Il resto degli imputati verrà processato il 9 marzo e fra di loro vi sono 9 ufficiali di polizia. “E’ una sentenza molto dura, ma i responsabili di questa tragedia non si meritano che questo. A nessuno piace vedere morire la gente, ma chi commette un omicidio deve essere condannato a morte”, ha dichiarato un ultras di al-Ahly.

 

LA PENA DI MORTE NELL’EGITTO POST-RIVOLUZIONARIO

Negli ultimi due anni il dibattito sull’uso della pena di morte si è riacceso in più occasioni e ha trovato spazio sia sulla stampa nazionale che internazionale.

Lo scorso novembre, il Tribunale penale del Cairo ha condannato a morte 6 copti – originari dell’Egitto ma residenti all’estero – e il pastore americano Terry Jones, accusati di aver preso parte alla realizzazione e distribuzione del controverso film “L’Innocenza dei Musulmani”. I sette imputati sono stati processati in contumacia.

Pochi mesi prima, nell’agosto 2012, un Tribunale di Ismailiyya aveva deciso che quattordici attivisti islamici – accusati di aver ucciso 7 persone in Sinai nel 2011 (di cui 6 pubblici ufficiali e un civile) – dovessero essere impiccati. Gli imputati erano sospettati di appartenere a un gruppo estremista e di aver preso di mira sia militari che forze dell’ordine.

Il dibattito sulla pena di morte ha interessato anche il processo all’ex presidente Mubarak. La Procura aveva infatti richiesto la condanna a morte sia per l’ex dittatore che per altri 6 dei suoi fedelissimi, tra cui il suo ex ministro degli interni, Habib el Adly.

L’accusa in questo caso era di “omicidio premeditato” nei confronti di più di 800 manifestanti morti durante i 18 giorni di proteste. Alla fine tuttavia la Corte ha abbandonato l’idea della pena capitale optando per l’ergastolo.

Secondo Amnesty International, i partiti politici dell’Egitto post-Mubarak non hanno dimostrato alcun interesse ad impegnarsi sulla questione dell’abolizione della pena di morte.

Soprattutto i partiti islamisti – che dominano l’attuale scenario politico – si sono mostrati irremovibili rispetto alla possibilità di cambiare la legislazione.

 

L’ORDINAMENTO GIURIDICO EGIZIANO

Attraverso una serie di trattati e risoluzioni, l’Onu ha cercato di promuovere l’abolizione della pena di morte su scala globale.

Nei casi in cui è stato impossibile, ha invitato gli Stati membri a limitare l’uso di questa misura e a fornire al condannato una serie di “garanzie”, come ad esempio la possibilità di fare appello a una Corte di grado superiore. Uno degli obiettivi delle Nazioni Unite era la riduzione dei crimini per cui la pena di morte è prevista all’interno degli ordinamenti giuridici.

Nel 2007, con la risoluzione 62/149, è stata avviata una moratoria sull’uso della pena capitale. 104 paesi hanno votato a favore, 54 contro e 29 si sono astenuti. 

L’Egitto è fra quelli che non hanno aderito e le autorità si sono giustificate definendo la risoluzione “incompatibile con la religione e gli standard legali dell’ordinamento giuridico interno”.

Inoltre hanno aggiunto che “la pena di morte viene usata solo in armonia con le procedure legali e le misure del diritto islamico, di modo che questa pena sia compatibile sia con gli obblighi giuridici che religiosi”.

Secondo un report della Ong Arab Center for the Indipendence of the Judiciary and Legal Profession (ACIJLP), l’ordinamento giuridico egiziano prevede la pena di morte per ben 105 crimini.

In molti casi, la fattispecie del reato è descritta nella legislazione in modo vago e, perciò, la sua interpretazione si presta all’arbitrarietà del giudizio della Corte. Ad esempio, l’articolo 77 del Codice penale prevede che “chiunque compia un atto premeditato contro l’indipendenza, l’unità e l’integrità del paese” può essere punito con la morte.

In Egitto la pena di morte è comunemente utilizzata nei casi di omicidio premeditato, stupro, reati legati al terrorismo e al traffico e consumo di droga. Si esegue con l’impiccagione del condannato.

Sia i Tribunali civili che le Corti militari possono emanare questo tipo di sentenza, ma la procedura giuridica è leggermente differente.

Nel primo caso, il condannato a morte può fare appello alla Corte di cassazione (una corte di grado superiore). Tuttavia l’appello può essere presentato solo con riferimento a questioni procedurali e non sostanziali. Inoltre, anche nel caso l’imputato non faccia appello, il procuratore ha l’obbligo di inviare un memorandum alla Cassazione, che può decidere se modificare la sentenza, adottando una pena meno grave.

Nel caso delle Corti militari invece, l’imputato non ha il diritto di fare appello a nessun altro organo giudiziario: può solo adire un ufficio militare superiore.

In entrambi i “circuiti giuridici” – sia militare che civile – il presidente della Repubblica ha il potere di concedere la grazia ai condannati a morte o di commutarne la pena. Ogni sentenza deve essergli sottoposta dal ministro della Giustizia.

Nel caso delle Corti civili la sentenza di morte deve essere emessa dalla Corte con decisione unanime dei giudici che la compongono. Nel caso delle Corti militari invece vale la regola della maggioranza.

I Tribunali civili inoltre, una volta concordata la pena, devono richiedere l’opinione del Gran Mufti. Tuttavia quest’opinione non è vincolante e, se non viene ricevuta entro 10 giorni, il procedimento giuridico a carico degli imputati procede normalmente.

 

LA PENA DI MORTE SOTTO MUBARAK

Mentre nel resto del mondo questa misura veniva abolita da molti governi, secondo Amnesty International dal 1990 al 2000 il ricorso alla pena di morte in Egitto è aumentato.

Nell’arco di dieci anni, i Tribunali hanno emesso 530 condanne e sono state portate a termine 213 esecuzioni.

Sotto Mubarak la legislazione anti-terrorismo (con annessa pena di morte) era concepita come l’arma con cui combattere la violenza politica dei gruppi d’opposizione al regime, soprattutto di matrice islamica.

Il 2009 è stato un anno di “massacri”. Ben 136 persone sono state condannate a morte: 68 solo nel mese di giugno, con una media di esecuzioni annuali di circa 80 detenuti.

Dal 2009 al 2011, il numero di condanne è leggermente diminuito (si è scesi a 115). Inoltre bisogna considerare che il numero delle condanne supera di molto quello delle esecuzioni: fatta eccezione per le Corti militari, la sentenza viene resa effettiva solo se ad accettarla è la Corte di Cassazione, che spesso la commuta in una pena meno grave.

Il dibattito pubblico sull’efficacia della pena di morte è molto vivo. La società egiziana sembra però spaccata su questo punto, e anche fra gli esponenti delle fasce più acculturate delle società non sembra esserci una visione condivisa.

In generale, le autorità religiose tendono a sostenere l’utilizzo di questa misura in quanto prevista dal Corano. I pensatori religiosi più ortodossi vorrebbero addirittura che fosse estesa a un numero maggiore di crimini come l’adulterio e l’apostasia.

Di opposto segno l’umore di gran parte della società civile che sembra essere a favore di una limitazione del suo uso, soprattutto attraverso una diminuzione dei reati per cui è prevista, a dimostrazione che in Egitto non è ancora presente un vasto consenso che permetta al sistema giuridico del paese di abbandonare il ricorso a questa pratica

 

This article has been originally published by: Osservatorio Iraq – Medioriente e Nordafrica