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Conversazione con Hadeel Azeez: il nudo femminile come luogo di sincerità

Hadeel Azeez è un’artista irachena che vive ad Alberobello, in Puglia. E’ nata nel 1981 a Baghdad e si è trasferita in Italia nel 2003. Si occupa di pittura ma anche di scultura e disegno. E con le sue opere intimiste e raffinate è in grado di emozionare e far riflettere. Osservatorio Iraq l’ha intervistata.

Come ti sei avvicinata all’arte?

In maniera graduale, sin dalla tenera età. Dopo il liceo classico ho preso la decisione di iscrivermi all’Accademia delle belle arti a Baghdad, dove ho cominciato il mio percorso artistico vero e proprio.

 

Nei tuoi quadri il corpo femminile è un soggetto ricorrente, a volte nella sua interezza, altre invece solo attraverso un dettaglio. Perché questa scelta?

Non si tratta di una scelta, ma di un modo di guardare le cose. All’inizio preferivo i corpi interi, poi ho cominciato a spingermi sempre più verso i dettagli, guardando il corpo umano da un punto di vista diverso.

Quando si è un giovane artista, si tende sempre ad arricchire le proprie opere con elementi visivi, figure e concetti per paura di non essere capiti. Con l’esperienza si impara a liberarsi delle cose superflue e concentrarsi sempre di più sull’essenza.

 

Che rapporto c’è fra le tue opere e il tuo vissuto interiore?

Per me arte e psicologia sono interconnesse. Non esiste un altro modo di creare se non partendo da se stessi, dal lato più profondo dei propri sentimenti e delle proprie sensazioni. Il percorso di vita, la memoria, l’esperienza, gli interessi e la consapevolezza di sé sono parte del processo creativo che dà vita alle mie opere.

 

Come nasce l’idea di usare la calligrafia araba nei tuoi dipinti? 

L’idea è nata dopo una discussione durante una delle mie prime mostre in Italia: un uomo era rimasto molto offeso dalle immagini del nudo femminile presenti nelle mie opere.

Poi un giorno, per caso, mi sono ritrovata a leggere una poesia di Nizar Quabbani (illustre poeta siriano del ‘900 ndr) e a riflettere su quanta libertà avesse nel descrivere il corpo femminile senza barriere o limiti.

Così ho avuto l’idea di inserire i suoi versi nei miei dipinti perché volevo contestare – con il suo approccio femminista – il modo di vedere la donna solo come un corpo o un oggetto sessuale, anche se, al contrario dei versi di Quabbani, i temi delle mie opere sono lontani da qualsiasi riferimento sessuale o erotico.

Per me la scelta del nudo femminile nasceva dall’esigenza di indagare la psicologia umana con assoluta sincerità.

 

Le frasi che inserisci nelle tue opere sono tratte da opere letterarie?

Sì, in genere si tratta di poesie d’amore o che narrano esperienze di vita. Uso versi di vari autori di quasi tutte le epoche, ma soprattutto esponenti della letteratura araba moderna.

Il senso delle poesie che scelgo è inevitabilmente connesso con quello delle opere in cui sono inserite, e queste ultime prendono il titolo dalle prime. Come accade per esempio con quella intitolata “Per Dove Scappo”, da una poesia di Nazik al-Mala’ika.

 

Come vivi le critiche che ti sono state mosse per il fatto di utilizzare il corpo – nudo – delle donne? 

Le critiche sono lecite, basta che vengano fatte con rispetto. Sarebbe assurdo pensare che tutti possano apprezzare il contenuto delle mie opere, anche perché il giudizio delle persone è sempre condizionato da molti fattori. Come il backgroun sociale, ad esempio, o la religione.

 

Ti senti parte del panorama artistico femminile iracheno? In che rapporto ti poni rispetto  a figure di spicco come Layla Al Attar? 

Il mio percorso artistico si è sviluppato in Italia perché prima di lasciare Baghdad ero ancora una studentessa all’Accademia. Di certo mi sento irachena in tutto, come persona e come artista, ma non ho idea di cosa significhi fare parte del panorama artistico femminile iracheno.

Un artista non vorrebbe mai mettersi in una scatola che delimiti i suoi orizzonti. Mi vedo solo come una persona che proviene da una cultura ricca di storia e che vuole far conoscere al mondo la proprie arte.

Quanto a Layla Al Attar, la ammiro moltissimo per il suo coraggio. Credo che sia un idolo per tutti gli artisti iracheni e non, per il suo contributo all’arte e il valore artistico ed espressivo delle sue opere.

 

Perché hai deciso di lasciare l’Iraq e trasferirti in Italia?

Questioni di cuore! A Baghdad nell’aprile del 2002 ho incontrato Michele Stallo, l’uomo che poi è diventato mio marito. Era stato invitato a partecipare al padiglione italiano all’Esposizione Internazionale di Arte del Museo nazionale di Arte moderna a Baghdad.

Nei mesi successivi Michele è tornato molte volte in Iraq, creando anche l’associazione Salaam Baghdad – Artisti contro la guerra. Abbiamo deciso di andare a vivere insieme e da allora non ci siamo più separati.

 

Che ricordo hai delle guerre nel tuo paese? 

Le guerre, senza soluzione di continuità, sono iniziate quando ero piccolissima, divenendo per me una “normalità” relativamente traumatizzante. Sicuramente mi hanno lasciato tanti ricordi che mi hanno segnata.

Ma il mio paese non è solo guerra, l’Iraq ha una lunga storia. I siti archeologici della Mesopotamia sono presenti lungo l’intero tratto dei due fiumi, Tigri ed Eufrate.

L’impero islamico ha lasciato un segno forte fino ai nostri giorni. Mi sento molto più vicina a ricordi di questo genere, piuttosto che alle guerre.

 

A dieci anni dall’invasione americana dell’Iraq, cosa pensi della situazione delle donne nel tuo paese?

Devo premettere che non sono più tornata in Iraq dal 2003, quindi non posso rispondere a questa domanda in maniera troppo precisa. La popolazione irachena ha subìto tante violenze, sia a causa delle numerose guerre sia per la situazione politica interna.

La condizione delle donne irachene non è mai stata facile.

Anche se non sono mai state emarginate a livello legale, sono state la società e spesso le famiglie stesse ad imporre regole molto rigide sulle loro vite. In alcune zone del paese, le donne non vanno oltre la scuola dell’obbligo, non lavorano e difficilmente vengono assunte. Quando gli uomini vengono a mancare all’interno del nucleo familiare, le donne diventano molto vulnerabili: questa è la condizione che tocca a chi è senza un marito, un padre o un fratello.

E una donna senza sostegno e protezione è costretta ad affrontare un destino molto duro. Le vedove poi (il cui numero è cresciuto esponenzialmente durante l’occupazione straniera, ndr) vivono la peggiore delle situazioni, e sono spesso costrette in uno stato di povertà assoluta, tanto da spingere anche i figli piccoli a lavorare o chiedere l’elemosina.

 

This article was originally published by: Osservatorio Iraq – Medioriente e Nordafrica

Egitto. Fotografia di una transizione

La transizione egiziana in diciannove ‘ritratti’: “All’inizio è tutto cominciato per gioco”, poi si è trasformato in “Voices of a transition”.

 

Arrivata al Cairo nell’ottobre del 2011, Lavinia Parlamenti è rimasta nel paese per tre mesi. I ‘protagonisti’ del suo progetto fotografico incarnano i tanti volti della transizione politica: donne e uomini, giovani e anziani, musulmani e copti, personaggi famosi e gente della strada. Ognuno con una storia diversa da raccontare, ma tutti con lo sguardo puntato verso lo stesso futuro dai contorni incerti.

 

Come nasce l’idea di realizzare ‘voices of a transition’?

Appena arrivata al Cairo, ho cominciato a scattare delle fotografie più ‘tradizionali’ ma presto mi sono resa conto di voler fare qualcosa di diverso. Volevo raccontare il momento di transizione politica che il paese stava attraversando, rappresentando esteticamente questo sentimento di passaggio. Perciò, ho deciso di utilizzare una tecnica che, contemporaneamente, comunicasse sia un’idea di dissolvenza che di presenza.

All’inizio è tutto cominciato per gioco. La prima ragazza che ha posato per me è stata Hadeer, una studentessa delle superiori. L’avevo conosciuta attraverso un amico del posto e volevo usare questo primo scatto come un ‘test’ per i successivi. Alla fine però la foto mi è piaciuta talmente tanto che l’ho tenuta e, dopo questo primo tentativo, è stato tutto più facile. Mi è bastato far vedere la foto di Hadeer agli altri ‘soggetti’ per fargli capire che tipo di lavoro avevo in mente.

E la scelta dei personaggi? 

Il dipanarsi degli eventi politici mi ha un po’ guidato nella scelta dei personaggi. Mentre vivevo questa mia prima esperienza da turista-lavoratrice nella capitale egiziana, le notizie che mi incuriosivano di più erano il punto di partenza per andare a caccia di volti da ritrarre. 

Per esempio, durante le manifestazioni dei Fratelli Musulmani, sono andata a cercare un membro di questo movimento politico. Spesso non è stato possibile ottenere quello che volevo perchè non tutti erano disponibili a farsi immortalare. Infatti molti ritenevano che questo tipo di fotografia fosse un po’ eccentrico.

Hai mai avuto problemi durante la realizzazione del progetto?

Sì, lo racconto anche nel mio sito web. Proprio quando avevo iniziato, la mia attrezzatura è stata rubata e distrutta. Forse per inesperienza o forse per troppa audacia, durante i primi giorni di scontri, io e una collega ci siamo addentrate in una ‘zona militare’ in cui ci avevano detto che si sarebbe tenuta una conferenza per i giornalisti.

Ma quando ormai era troppo tardi, ci siamo accorte che si trattava di un’informazione falsa e in men che non si dica ci siamo ritrovate in mezzo ad una ‘sassaiola’.

Anche se stavamo insieme a molti colleghi uomini, i poliziotti son venuti dritti contro noi due. Ci siamo prese qualche bastonata in testa, le solite mano addosso e l’attrezzatura è stata confiscata. Inoltre, ci hanno portato in un commissariato dove siamo rimaste per quattro ore.

Da giovane fotografa occidentale, come hai vissuto Tahrir?

Tahrir è un luogo talmente emoziante che è normale rimanerne rapiti. A fine novembre 2011, in piazza c’erano tre ‘attori’: i manifestanti, i poliziotti e un esercito di fotografi e giornalisti.

Trattandosi della mia prima esperienza, sicuramente ho imparato tanto a livello professionale su come ci si muove in ‘ambienti’ come questi. Tenere sempre gli occhi aperti è fondamentale perchè la situazione è molto delicata.

Il fatto di fare delle fotografie – avere un mezzo fotografico fra te e le persone – amplifica le difficoltà, perchè ti obbliga a guardare, a cercare un contatto anche con gli uomini e, per molti, è una cosa un po’ sopra le righe.

Durante la mia permanenza nel paese, il problema delle aggressioni fisiche contro le manifestanti donne ha cominciato a farsi sentire. Io stessa sono stata aggredita con una collega. Dopo di noi c’è stato il caso di un’altra giornalista e di una violenza sessuale contro una manifestante. La presenza femminile in piazza è considerevole, ma la battaglia per i diritti di genere è una rivoluzione nella rivoluzione.

Ancora Egitto nel futuro?

Sicuramente ho in mente di tornare in Egitto e seguo anche da qua l’evolversi della situazione. Mi piacerebbe  ampliare il mio progetto con un ritratto ad un ultras dell’Ahly.

Ad un fotografo che oggi si mette in viaggio per documentare la transizione egiziana, consiglierei  però di puntare su città ‘secondarie’ come per esempio Mansura e Port Said. Sono ancora tantissime le storie da raccontare e, in fin dei conti, la rivoluzione riguada l’intero paese non solo la sua capitale.

 

This article was originally published by: Osservatorio Iraq – Medioriente e Nordafrica

Egitto. Quando la violenza sulle donne diventa un atto politico

“Sono copta e donna: orgogliosa di entrambe le cose. Ma non mi sono mai sentita ‘chiusa’ dentro queste due categorie. Sin da piccola, mi hanno insegnato che l’unica cosa che dovevo essere è una cittadina sempre pronta a rivendicare i propri diritti”. Così si presenta Sally Toma*. Psichiatra, attivista e fondatrice della campagna Kazeboon.

 

Nel tuo lavoro di attivista hai fondato la campagna Kazeboon (‘bugiardi’).

La campagna è nata dal lavoro di quattro donne e due uomini e ha avuto molto successo. Si occupa di fare informazione attraverso media alternativi perché, secondo noi, la televisione in Egitto è un mezzo di comunicazione obsoleto, una fabbrica di bugie.

L’obiettivo era di mostrare quartiere per quartiere le violazioni commesse dal regime attraverso la proiezione di documentari.

All’inizio eravamo in solo sei, ma nel giro di un mese abbiamo realizzato 500 proiezioni e gli attivisti sono saliti a quota 60.000 in tutto il paese. Dopo che Morsi ha preso il potere, la campagna ha cambiato nome diventando ‘kazeboon nel nome della religione’.

Come nasce l’idea?

Forse ricorderete la storia della ragazza malmenata in piazza Tahrir e apparsa sulle copertine di mezzo mondo con indosso solo un reggiseno blu. Lei è la ragione per cui abbiamo dato il via al nostro progetto: la sua storia spiega bene come le donne vengono trattate durante gli scontri.

Io sono stata aggredita a pochi metri di distanza da lei, mi ha ‘salvata’ solo l’intervento di una guardia dell’ambasciata americana che non voleva problemi davanti al palazzo. Mi ha preso per i capelli e mi ha trascinata via. Invece quella ragazza non ha avuto la stessa fortuna.

Quando le sue foto sono state pubblicate, la gente in Egitto ha cominciato a chiedersi come mai si trovasse lì, perché sotto i vestiti portasse solo un reggiseno, e come mai fosse proprio blu. Un abbigliamento intimo di quel colore desta sospetti nel mio paese (ride).

In Egitto negli ultimi mesi la vita delle attiviste è stata molto dura e il fenomeno delle violenze di gruppo nelle piazze comincia a fare paura. Tu cosa ne pensi?

Le molestie sessuali sono, purtroppo, un fenomeno presente da molto tempo nelle strade del paese. Ma i casi di violenza e aggressione di gruppo in mezzo alla folla non possono essere assimilati alle molestie ordinarie con cui le donne egiziane hanno purtroppo a che fare ogni giorno.

Sono un atto politico, un modo per uccidere la rivoluzione eliminando la presenza femminile dalle piazze. I media hanno cominciato a parlarne nel 2005, e, da allora, abbiamo spinto per ottenere una legislazione in merito.

Alcune persone sono finite in prigione e hanno subito condanne lievi: non è molto, ma almeno è un inizio. Il fatto positivo è adesso in piazza Tahrir si sono costituiti gruppi di difesa delle manifestanti che lavorano perché le donne continuino a protestare sentendosi al sicuro.

La difesa dei diritti di genere passa anche attraverso la legislazione. A questo riguardo, la nuova Costituzione come tutela le cittadine egiziane?

In primo luogo, non ritengo che si tratti di una vera Costituzione. E’ il frutto del lavoro di un’assemblea formata al 90% da uomini, islamisti: non rappresenta nessuno se non i Fratelli Musulmani. Nel testo non c’è spazio per le donne, i copti, le popolazioni del Sinai e quelle del Nuba. L’articolo 36 – contro cui abbiamo protestato durante la sua stesura – è orribile. Impone la shari’a come fonte del diritto e limita i diritti di genere.

Ma, in fin dei conti, questa è una Costituzione che non durerà a lungo. Non fornisco molta importanza a questo testo, non sono neanche andata a votare al referendum perché quella egiziana, oggi, non è una democrazia reale. L’intero sistema deve essere abbattuto, poi potremo ricominciare a costruire qualcosa di nuovo dalle sue ceneri. Ma abbiamo bisogno di un periodo di transizione che ci lasci vedere i Fratelli in azione. Così il loro fallimento sarà chiaro a tutti gli egiziani.

L’Egitto ha avuto le quote di genere in passato, poi invece le ha abbandonate. Potrebbero essere uno strumento utile a promuovere gli interessi delle donne?

Bisogna fare attenzione. Il vero problema non sono le quote di genere ma come vengono ‘costruite’ le liste elettorali. Se la legge sulle quote impone di inserire una donna nella lista senza menzionare in quale posizione, i leader dei partiti politici la metteranno probabilmente in fondo e ad entrare in Parlamento saranno solo gli uomini, i quali non hanno interesse ad avere le donne nelle prime posizioni.

Questo è un problema non solo dei partiti islamisti, ma anche delle formazioni di sinistra e dei liberali. Un esempio di “quote rosa” molto riuscito – perché prevedeva la regola dell’alternanza di genere fra i candidati – è invece quello tunisino.

Credi che le quote bastino a promuovere una legislazione più rispettosa dei diritti delle donne?

Di solito sono contraria a misure di ‘discriminazione positiva’. Penso che le donne debbano candidarsi e competere con i colleghi maschi sulla base delle loro capacità. Ma in paesi come l’Egitto – dove non siamo prese sul serio – c’è bisogno di una spinta iniziale che può essere data dalle quote. Più tardi poi, quando le donne avranno consolidato la loro posizione all’interno delle istituzioni, potranno essere rimosse.

In generale, sono contraria alle divisioni di genere: credo che le donne non debbano essere isolate, ma partecipare alla vita sociale nel suo insieme. E gli uomini dovrebbero vederle: non protette, ma comunque sul campo di battaglia che lottano e che guidano l’azione.

Durante la rivoluzione Internet ha favorito la mobilitazione degli attivisti. Potrebbe avere un ruolo analogo in relazione ai diritti di genere?

Internet è uno strumento, proprio come il telefono. Certamente è molto utile quando c’è bisogno di ‘mappare’ la realtà e far sentire la propria voce, ma di per sé non è risolutivo. E’ un mezzo, non un fine.

Se sono in pericolo durante uno scontro con la polizia non sarà Internet a salvarmi: a fare la differenza sarà la strada e quello che c’è in strada. Sono le donne che scendono in piazza, che si aiutano reciprocamente e si danno forza l’un l’altra, consapevoli di appartenere alla strada proprio come gli uomini: il loro spazio personale deve essere rispettato.

Da psichiatra ed esperta di violenze, quali consigli ti senti di dare alle attiviste?

Quando scrivo le linee guida per ‘preparare’ le donne a scendere in piazza, tendo a dare molta importanza al comportamento. L’abbigliamento non è determinante: in realtà se evitano di coprirsi eccessivamente è meglio, perché in questo modo dimostrano sicurezza.

Il comportamento invece è fondamentale: guardare le persone negli occhi quando si cammina, specialmente gli uomini e dare l’impressione di  essere una di cui è difficile prendersi gioco. Sono accortezze che possono proteggere in parte dalle molestie ‘normali’. Quelle di gruppo, tra la folla, sono una storia completamente diversa perché sono dirette dal regime e il loro scopo dichiarato è porre fine alla tua presenza in piazza.

Credi che la crisi economica e il protagonismo femminile abbiano in qualche modo messo in crisi il concetto di mascolinità dell’uomo egiziano, portando a un aumento della violenza contro le donne?

In Egitto nel 65% delle famiglie più povere le sole persone a lavorare sono le donne, anche se ricevono una retribuzione inferiore rispetto agli uomini. Il forte tasso di disoccupazione della popolazione maschile ha fatto indubbiamente peggiorare i problemi legati alla violenza di genere.

A questo riguardo, c’è bisogno di un grande cambiamento culturale a partire dall’istruzione. La cultura del machismo è ovunque, non solo nei partiti islamisti.

I leader politici, in generale, preferiscono che le donne non occupino posizioni di rilievo né desiderano davvero dare loro potere. Sono ancora molto arretrati, anche quando sono convinti di essere progressisti. Possono arrivare a difendere i diritti dei gay, ma è molto difficile che difendano quelli delle donne.

 

* Lo scorso 7 marzo Sally Toma è stata relatrice della conferenza promossa dalla europarlamentare Silvia Costa (Pd) e dall’Institute of European Democrats (IED) a Roma.

 

This article has been originally published by: Osservatorio Iraq – Medioriente e Nordafrica