Egitto. Quando la violenza sulle donne diventa un atto politico

“Sono copta e donna: orgogliosa di entrambe le cose. Ma non mi sono mai sentita ‘chiusa’ dentro queste due categorie. Sin da piccola, mi hanno insegnato che l’unica cosa che dovevo essere è una cittadina sempre pronta a rivendicare i propri diritti”. Così si presenta Sally Toma*. Psichiatra, attivista e fondatrice della campagna Kazeboon.

 

Nel tuo lavoro di attivista hai fondato la campagna Kazeboon (‘bugiardi’).

La campagna è nata dal lavoro di quattro donne e due uomini e ha avuto molto successo. Si occupa di fare informazione attraverso media alternativi perché, secondo noi, la televisione in Egitto è un mezzo di comunicazione obsoleto, una fabbrica di bugie.

L’obiettivo era di mostrare quartiere per quartiere le violazioni commesse dal regime attraverso la proiezione di documentari.

All’inizio eravamo in solo sei, ma nel giro di un mese abbiamo realizzato 500 proiezioni e gli attivisti sono saliti a quota 60.000 in tutto il paese. Dopo che Morsi ha preso il potere, la campagna ha cambiato nome diventando ‘kazeboon nel nome della religione’.

Come nasce l’idea?

Forse ricorderete la storia della ragazza malmenata in piazza Tahrir e apparsa sulle copertine di mezzo mondo con indosso solo un reggiseno blu. Lei è la ragione per cui abbiamo dato il via al nostro progetto: la sua storia spiega bene come le donne vengono trattate durante gli scontri.

Io sono stata aggredita a pochi metri di distanza da lei, mi ha ‘salvata’ solo l’intervento di una guardia dell’ambasciata americana che non voleva problemi davanti al palazzo. Mi ha preso per i capelli e mi ha trascinata via. Invece quella ragazza non ha avuto la stessa fortuna.

Quando le sue foto sono state pubblicate, la gente in Egitto ha cominciato a chiedersi come mai si trovasse lì, perché sotto i vestiti portasse solo un reggiseno, e come mai fosse proprio blu. Un abbigliamento intimo di quel colore desta sospetti nel mio paese (ride).

In Egitto negli ultimi mesi la vita delle attiviste è stata molto dura e il fenomeno delle violenze di gruppo nelle piazze comincia a fare paura. Tu cosa ne pensi?

Le molestie sessuali sono, purtroppo, un fenomeno presente da molto tempo nelle strade del paese. Ma i casi di violenza e aggressione di gruppo in mezzo alla folla non possono essere assimilati alle molestie ordinarie con cui le donne egiziane hanno purtroppo a che fare ogni giorno.

Sono un atto politico, un modo per uccidere la rivoluzione eliminando la presenza femminile dalle piazze. I media hanno cominciato a parlarne nel 2005, e, da allora, abbiamo spinto per ottenere una legislazione in merito.

Alcune persone sono finite in prigione e hanno subito condanne lievi: non è molto, ma almeno è un inizio. Il fatto positivo è adesso in piazza Tahrir si sono costituiti gruppi di difesa delle manifestanti che lavorano perché le donne continuino a protestare sentendosi al sicuro.

La difesa dei diritti di genere passa anche attraverso la legislazione. A questo riguardo, la nuova Costituzione come tutela le cittadine egiziane?

In primo luogo, non ritengo che si tratti di una vera Costituzione. E’ il frutto del lavoro di un’assemblea formata al 90% da uomini, islamisti: non rappresenta nessuno se non i Fratelli Musulmani. Nel testo non c’è spazio per le donne, i copti, le popolazioni del Sinai e quelle del Nuba. L’articolo 36 – contro cui abbiamo protestato durante la sua stesura – è orribile. Impone la shari’a come fonte del diritto e limita i diritti di genere.

Ma, in fin dei conti, questa è una Costituzione che non durerà a lungo. Non fornisco molta importanza a questo testo, non sono neanche andata a votare al referendum perché quella egiziana, oggi, non è una democrazia reale. L’intero sistema deve essere abbattuto, poi potremo ricominciare a costruire qualcosa di nuovo dalle sue ceneri. Ma abbiamo bisogno di un periodo di transizione che ci lasci vedere i Fratelli in azione. Così il loro fallimento sarà chiaro a tutti gli egiziani.

L’Egitto ha avuto le quote di genere in passato, poi invece le ha abbandonate. Potrebbero essere uno strumento utile a promuovere gli interessi delle donne?

Bisogna fare attenzione. Il vero problema non sono le quote di genere ma come vengono ‘costruite’ le liste elettorali. Se la legge sulle quote impone di inserire una donna nella lista senza menzionare in quale posizione, i leader dei partiti politici la metteranno probabilmente in fondo e ad entrare in Parlamento saranno solo gli uomini, i quali non hanno interesse ad avere le donne nelle prime posizioni.

Questo è un problema non solo dei partiti islamisti, ma anche delle formazioni di sinistra e dei liberali. Un esempio di “quote rosa” molto riuscito – perché prevedeva la regola dell’alternanza di genere fra i candidati – è invece quello tunisino.

Credi che le quote bastino a promuovere una legislazione più rispettosa dei diritti delle donne?

Di solito sono contraria a misure di ‘discriminazione positiva’. Penso che le donne debbano candidarsi e competere con i colleghi maschi sulla base delle loro capacità. Ma in paesi come l’Egitto – dove non siamo prese sul serio – c’è bisogno di una spinta iniziale che può essere data dalle quote. Più tardi poi, quando le donne avranno consolidato la loro posizione all’interno delle istituzioni, potranno essere rimosse.

In generale, sono contraria alle divisioni di genere: credo che le donne non debbano essere isolate, ma partecipare alla vita sociale nel suo insieme. E gli uomini dovrebbero vederle: non protette, ma comunque sul campo di battaglia che lottano e che guidano l’azione.

Durante la rivoluzione Internet ha favorito la mobilitazione degli attivisti. Potrebbe avere un ruolo analogo in relazione ai diritti di genere?

Internet è uno strumento, proprio come il telefono. Certamente è molto utile quando c’è bisogno di ‘mappare’ la realtà e far sentire la propria voce, ma di per sé non è risolutivo. E’ un mezzo, non un fine.

Se sono in pericolo durante uno scontro con la polizia non sarà Internet a salvarmi: a fare la differenza sarà la strada e quello che c’è in strada. Sono le donne che scendono in piazza, che si aiutano reciprocamente e si danno forza l’un l’altra, consapevoli di appartenere alla strada proprio come gli uomini: il loro spazio personale deve essere rispettato.

Da psichiatra ed esperta di violenze, quali consigli ti senti di dare alle attiviste?

Quando scrivo le linee guida per ‘preparare’ le donne a scendere in piazza, tendo a dare molta importanza al comportamento. L’abbigliamento non è determinante: in realtà se evitano di coprirsi eccessivamente è meglio, perché in questo modo dimostrano sicurezza.

Il comportamento invece è fondamentale: guardare le persone negli occhi quando si cammina, specialmente gli uomini e dare l’impressione di  essere una di cui è difficile prendersi gioco. Sono accortezze che possono proteggere in parte dalle molestie ‘normali’. Quelle di gruppo, tra la folla, sono una storia completamente diversa perché sono dirette dal regime e il loro scopo dichiarato è porre fine alla tua presenza in piazza.

Credi che la crisi economica e il protagonismo femminile abbiano in qualche modo messo in crisi il concetto di mascolinità dell’uomo egiziano, portando a un aumento della violenza contro le donne?

In Egitto nel 65% delle famiglie più povere le sole persone a lavorare sono le donne, anche se ricevono una retribuzione inferiore rispetto agli uomini. Il forte tasso di disoccupazione della popolazione maschile ha fatto indubbiamente peggiorare i problemi legati alla violenza di genere.

A questo riguardo, c’è bisogno di un grande cambiamento culturale a partire dall’istruzione. La cultura del machismo è ovunque, non solo nei partiti islamisti.

I leader politici, in generale, preferiscono che le donne non occupino posizioni di rilievo né desiderano davvero dare loro potere. Sono ancora molto arretrati, anche quando sono convinti di essere progressisti. Possono arrivare a difendere i diritti dei gay, ma è molto difficile che difendano quelli delle donne.

 

* Lo scorso 7 marzo Sally Toma è stata relatrice della conferenza promossa dalla europarlamentare Silvia Costa (Pd) e dall’Institute of European Democrats (IED) a Roma.

 

This article has been originally published by: Osservatorio Iraq – Medioriente e Nordafrica

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