Monthly Archives: May 2013

La crisi del Sinai: di ostaggi, armi e (presunti) terroristi

L’ultimo capitolo della “saga del Sinai” si è concluso il 22 maggio scorso con il rilascio di sette ufficiali delle forze di sicurezza egiziane. La “crisi degli ostaggi” è dunque rientrata dopo una settimana di intenso braccio di ferro fra il governo centrale e un gruppo ribelle attivo nella penisola.

 

Il 16 maggio scorso sei poliziotti e un soldato sono stati rapiti nei pressi di al-Arish, città nel nord del Sinai, da un gruppo armato jihadista che, in cambio del loro rilascio, ha richiesto la liberazione di sei prigionieri – membri di Tawhid wa al-Jihad – condannati a morte per un attacco contro la polizia del 2011.

Secondo la ricostruzione ufficiale, alcuni leader tribali avrebbero partecipato alle operazioni di mediazione con i rapitori, che mercoledì scorso hanno liberato gli ostaggi a sud di Rafah (al confine con la Striscia di Gaza), senza che le loro richieste fossero accolte e sotto la minaccia di un attacco da parte dell’esercito egiziano.

La “crisi” si è dunque conclusa nel giro di poco meno di una settimana in cui Morsi è stato sottoposto a forti pressioni da parte delle forze armate e dell’opinione pubblica nazionale.

Durante la conferenza stampa che ha seguito la cerimonia di ricevimento degli ostaggi liberati, il presidente ha tessuto le lodi delle forze di sicurezza, sottolineando l’importanza della cooperazione fra militari, polizia e civili.

Inoltre, nel tentativo di “inquadrare” la crisi in un contesto più ampio ha dichiarato: “Questa operazione rappresenta un importante punto di partenza per garantire alla popolazione del Sinai i diritti politici, economici e sociali che gli spettano, e mettere a punto un piano di sviluppo organico per questa regione”, invitando gli abitanti della penisola a deporre le armi.

 

VOCI FUORI DAL CORO

 

Ma l’operato del governo è stato criticato su più fronti, e sulla stampa si è accesa la polemica sull’identità dei rapitori. 

Secondo al-Arabiya, gruppi salafiti jihadisti avrebbero dichiarato a sorpresa (in un comunicato del 21 maggio scorso) la loro estraneità al rapimento, accusando a loro volta la presidenza, il ministero dell’Interno e le forze armate di “inventare accuse” nel tentativo di screditare l’immagine dei ribelli attivi nella penisola.

Inoltre, nello stesso comunicato, hanno messo in guardia l’esercito dall’avviare una “battaglia” contro di loro, precisando che il loro unico bersaglio è Israele, non i soldati egiziani, e sottolineando l’esigenza di fare giustizia per gli abitanti del Sinai finiti in carcere. 

Anche il Fronte di Salvezza Nazionale ha fatto sentire la propria voce sulla questione accusando Morsi e il suo governo di inefficienza in relazione all’amministrazione del Sinai e dichiarando il proprio sostegno a una campagna contro i “terroristi” presenti nella penisola. 

“Il presidente deve considerare con estrema serietà il diritto dell’opinione pubblica a conoscere dettagliatamente la situazione sul campo e lo stato delle cellule terroristiche e criminali attive all’interno dei confini egiziani”, hanno dichiarato i partiti di opposizione.

Infine, su al-Fagr, il maggiore generale Abdul Rafaa Darwish (fra i fondatori del  partito Volontà e Costruzione) ha puntato il dito contro Hamas, evidenziando le responsabilità dell’organizzazione palestinese in relazione al rapimento dei sette ufficiali egiziani, attraverso i suoi “tentacoli” nella penisola. 

In questo clima di confusione e incertezza, un dato sembra però emergere piuttosto chiaramente: la crisi degli ostaggi della scorsa settimana rappresenta solo la punta dell’iceberg. 

La presenza di numerosi gruppi armati nella penisola, il continuo traffico illegale di armi da Libia e Sudan, e l’odio radicato della popolazione locale per il governo centrale: sono questi i veri nodi che il presidente Morsi dovrà sciogliere, per “prevenire” la riapertura di nuovi fronti di crisi nazionale.

This article was originally published by: Osservatorio Iraq – Medioriente e Nordafrica

Egitto. Il ritorno dei militari?

A due anni dalla rivoluzione del 25 gennaio 2011, un gruppo di veterani dell’esercito ha fondato “volontà e costruzione”, un nuovo partito politico. Deliberatamente schierato contro Morsi, si propone di risanare radicalmente il paese strizzando l’occhio ad un potenziale intervento dei militari.

 

‘Siamo scesi in campo per cercare di arrestare il declino a cui l’Egitto sta andando incontro […] perché abbiamo capito che le manifestazioni, le apparizioni televisive e le dichiarazioni sui giornali non sono sufficienti a salvare il paese’, ha dichiarato il generale Muhammed Okasha.

Il partito è nato ufficialmente lo scorso marzo dall’idea di cinque ufficiali dell’esercito in pensione, stanchi – a loro dire – di assistere al continuo deterioramento della situazione politica ed economica.
Già eroi della guerra dello Yom Kippur e supporter attivi delle manifestazioni contro Mubarak, hanno deciso da più di un anno di dare vita a una loro formazione politica con l’obiettivo di farla diventare la prima del paese.
Infatti, ‘dopo la rivoluzione non è cambiato nulla: i poveri continuano a mangiare spazzatura e il ceto medio è privo di diritti. Da quando i Fratelli Musulmani sono saliti al potere, la situazione è peggiorata in modo pericoloso’, ha dichiarato uno dei fondatori, il generale Abdul Rafa’a Darwish, ai microfoni di al-masry al-youm.
Sul piano teorico, i membri di ‘volontà e costruzione’ si propongono di creare un partito fortemente inclusivo che lotti per i diritti delle fasce più deboli della società, come i giovani, le donne e i copti.
Su quello pratico invece hanno un piano piuttosto elaborato che prevede la rimozione di Morsi attraverso l’intervento dell’esercito e la temporanea consegna del potere dapprima (per sessanta giorni) al vertice dell’Alta corte costituzionale e in seguito a un comitato presidenziale composto da cinque membri (due economisti, un rappresentate dell’università islamica al-Azhar, uno della chiesa copta e un militare).
Secondo il loro ‘progetto di salvataggio del paese’, la Costituzione andrebbe riscritta sulla base dei principi della carta del 1971 e della dichiarazione costituzionale del marzo 2011, mentre la transizione servirebbe ad organizzare nuove elezioni presidenziali e parlamentari.
“Daremo il nostro supporto a un’iniziativa militare (per rimuovere Morsi) […] esclusivamente volta a proteggere il paese, non a governarlo di nuovo”, ha messo in chiaro il generale Muhammad Okasha.
Ma non tutti i membri sembrano completamente d’accordo su questo punto, e alcuni sottolineano che nella fase attuale un ‘colpo di Stato’ dei generali sarebbe percepito in maniera negativa dalla comunità internazionale e potrebbe addirittura aprire la porta all’intervento occidentale nel paese.
“Nessuno rimuoverà nessuno” ha dichiarato il capo delle forze armate Abdul Fatah Al-Sisi sabato scorso, sottolineando che la risposta all’attuale crisi politica non sta nelle armi ma nelle urne.
Secondo al-Monitor, lo scarso consenso di cui gode attualmente la presidenza Morsi rappresenterebbe un’occasione imperdibile per ‘volontà e costruzione’ a livello elettorale, soprattutto se il partito sarà in grado di ‘capitalizzare’ sulla popolarità e la fama delle forze armate con cui il legame è molto forte.
“La nostra relazione con l’esercito è cristallina, noi siamo ‘figli’ di questa istituzione che è fra le più importanti del paese. Ma questo non significa che i militari ci supportino direttamente perché noi siamo un partito politico ‘civile’ al servizio della società, anche se rispettiamo in pieno il ruolo e la storia delle forze armate”, ha dichiarato uno dei fondatori.
MORSI E L’ESERCITO
In un paese dove il primo presidente civile è stato eletto dopo più di mezzo secolo di storia repubblicana, l’esercito conserva un peso enorme nella vita economica e politica.
Per chiunque si appresti a guidare la transizione (e a fare delle riforme), lo scontro con quest’istituzione è inevitabile.  
Dopo la salita al potere, Morsi ha cercato in ogni modo di ‘accontentare’ le forze armate,  promuovendo una nuova costituzione che ne garantisse l’autonomia e i privilegi.
Per esempio, ha assegnato la carica di ministro della difesa a un militare, stabilendo che il budget dell’esercito non passi più per il parlamento ma venga approvato direttamente dal Consiglio nazionale della difesa (supervisore, tra l’altro, di tutti i rapporti finanziari fra forze armate e gli Stati Uniti).
Ma nonostante questa politica di compensazione e compromesso, non tutti nell’esercito sembrano ‘soddisfatti’ dalle politiche del nuovo presidente.
E la nascita di un partito come “volontà e costruzione” potrebbe essere un segnale del malcontento che serpeggia in questi ambienti.

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Egitto. Per il rilascio di un’insegnante accusata di blasfemia

“L’insegnante copta accusata di ‘blasfemia’ deve essere immediatamente rilasciata e il procedimento a suo carico interrotto, prima che l’imputata si presenti davanti alla corte sabato prossimo”. Parola di Amnesty International.

di Amnesty International – traduzione a cura di Valentina Marconi

 

La 24enne Dimyana Obeid Al Nour è in prigione dall’8 maggio, quando si è recata nell’ufficio del procuratore di Luxor, per ‘blasfemia’.

 

La procedura giudiziaria a suo carico è stata avviata sulla base di un reclamo presentato dai genitori di tre dei suoi studenti, che l’accusano di aver insultato l’Islam e il profeta Muhammed durante una lezione.

 

Secondo la loro ricostruzione, l’incidente sarebbe avvenuto nella scuola primaria di Sheikh Sultan a Tout, nel governorato di Luxor, il giorno 8 aprile, durante l’ora di religione. Dimyana Obeid Al Nour ha insegnato in tre scuole a Luxor dall’inizio dell’anno.

 

“E’ vergognoso che un insegnante sia finita in prigione per il contenuto di una sua lezione. Se avesse commesso degli errori di natura professionale o si fosse ‘allontanata’ dal curriculum scolastico stabilito, sarebbe bastato un procedimento interno”, dichiara Hassiba Hadj Sahraoui, vice direttore del programma di Amnesty per il Medio Oriente e il Nord Africa.

 

“Le autorità devono immediatamente rilasciare Dimyana Obeid Al Nour e far decadere le accuse false sollevate contro di lei”.

 

Secondo le informazioni in possesso di Amnesty International, alcuni studenti hanno dichiarato che Dimyana Obeid Al Nour avrebbe affermato di ‘amare padre Shenouda’, il defunto patriarca della Chiesa ortodossa egiziana, e si sarebbe toccata il ginocchio o lo stomaco mentre parlava del profeta Muhammed in classe.

 

La donna ha negato le accuse, asserendo che si è attenuta al curriculum scolastico.

 

In seguito alle presunte lamentele di alcuni genitori, sembra che la scuola e il dipartimento dell’Istruzione abbiano aperto delle inchieste interne e a Dimyana Obeid Abd Al Nour è stato detto di astenersi dall’insegnare nelle scuole, fino alla conclusione delle indagini a suo carico.

 

Sino al suo arresto, ha continuato ad andare al dipartimento e a ricevere uno stipendio.

 

Negli ultimi mesi, Amnesty International ha ricevuto molte denunce da parte di persone accusate e condannate per blasfemia in Egitto. In alcuni casi, ad essere incriminati sono stati blogger e operatori del settore dell’informazione le cui idee sono state ritenute offensive.

 

Il 25 gennaio, un tribunale del Cairo ha confermato la sentenza di una corte di grado inferiore a carico di un altro copto, Alber Saber Ayad, condannandolo a 3 anni di prigione per blasfemia, per alcuni video e altro materiale postato in rete che la corte ha giudicato ‘oltraggiosi’.

 

In altri casi, soprattutto nell’Alto Egitto, le accuse di blasfemia sono state sollevate contro cittadini copti, fra cui molti insegnanti.

 

L’11 maggio, un altro copto dovrà comparire davanti ad una corte ad Assiut per rispondere dell’accusa di ‘diffamazione della religione’, presumibilmente sulla base di una conversazione avuta con un gruppo di musulmani che l’hanno in seguito incolpato di aver insultato l’Islam.

 

In molti casi, Amnesty International ha chiesto alle autorità egiziane di non perseguire penalmente gli individui sulla base delle leggi contro la blasfemia che criminalizzano le critiche o gli insulti al credo religioso.

 

“Esprimere un’opinione in relazione alla religione non è reato, sia che si tratti della propria o di quella di qualcun altro. Qualsiasi legge volta ad impedire l’espressione del proprio pensiero su questo tema, viola il principio della libertà di espressione ed è in contrapposizione agli obblighi internazionali sottoscritti dall’Egitto nel quadro della Convenzione Internazionale sui Diritti Civili e Politici”, ha dichiarato Hassiba Hadj Sahraoui.

 

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Egitto. Sinai: la spina nel fianco del Cairo

Nodo geopolitico strategico, ma area a lungo esclusa dalle politiche per lo sviluppo, il Sinai è oggi crocevia di traffici illegali di ogni tipo e forma, nonché ‘base’ di numerosi gruppi armati.

 

La presenza di gruppi armati in Sinai non è una novità e gli attacchi terroristici nella penisola erano frequenti già sotto il regime di Mubarak. Nell’ottobre del 2004, per esempio, ad essere colpite furono Taba e Nuweiba (dove una serie di esplosioni uccisero 34 persone e ne ferirono 71), mentre nel luglio dell’anno successivo finì nel mirino dei terroristi la celebre località turistica di Sharm al-Sheikh.
Gli obiettivi militari dei gruppi armati di stanza nella penisola sono molteplici: dalle stazioni di polizia ai gasdotti del sottosuolo, passando per i militari egiziani e israeliani posizionati lungo la linea del confine.
Ma secondo un rapporto di Reliefweb, mappare con precisione l’universo di guerriglieri attivi nella penisola è impossibile e, a parte qualche nome ricorrente, le informazioni relative al numero e alla loro organizzazione non sono disponibili.
Sembra tuttavia abbastanza chiaro che, dopo la rivoluzione del 25 gennaio 2011, il Sinai abbia assistito a una vera e propria proliferazione di ‘organizzazioni’, sia in virtù del parziale ritiro delle forze armate egiziane dal nord sia per il clima di anarchia e confusione che sta ormai dilagando un po’ in tutto il paese.
Va poi sottolineato che in base ad alcune ricostruzioni, non tutti i gruppi armati sarebbero egiziani e molti guerriglieri arriverebbero da altri paesi mediorientali come la Palestina, l’Iraq e lo Yemen. 
Inoltre, i contatti fra i gruppi armati e la popolazione locale parrebbero piuttosto stretti e, in base ad alcune fonti, le nuove leve proverrebbero proprio dalle fila dei membri più giovani della comunità beduina.
Per la stampa egiziana e straniera, le ‘armate del Sinai’ abbracciano un’interpretazione radicale dell’Islam, differenziandosi però dai tanti gruppi salafiti attivi nella penisola che rifiutano la violenza come arma politica e si impegnano nel sociale.
Al contrario, queste organizzazioni si addestrano in veri e propri campi e sarebbero sostenute dal continuo traffico di armi e uomini, in entrata e in uscita, da e verso la Striscia di Gaza, nonché dal presunto appoggio di gruppi o Stati stranieri.
Da un’analisi incrociata di fonti diverse, è possibile identificare un elenco di nomi attribuiti ad alcuni dei gruppi. Fra questi, Ansar bayt al maqdis (I protettori di Gerusalemme), Jaish al-Islam (l’Esercito dell’Islam), Takfir wa al-hijra (Empietà ed esodo), al-Tawhid wa al-Jihad (Monoteismo e Jihad).
L’IDENTIKIT DEI RIBELLI
Mentre alcuni gruppi sono nati nella Striscia di Gaza e penetrati in Sinai solo in un secondo momento, altri sono invece originari dell’Egitto.
Va inoltre evidenziata un’ulteriore distinzione tra chi ha una ‘carriera’ di lunga data alle spalle – come per esempio Takfir wa al-Hijra, fondato negli anni ’60 da un offshot dei Fratelli Musulmani – e chi è  comparso solo dopo la rivoluzione egiziana, ma è già molto conosciuto soprattutto in rete.
Molte di queste organizzazioni pubblicano i propri video su Youtube, spiegando al pubblico del web i principi e gli obiettivi della loro missione.
Mentre alcuni analisti minimizzano la loro pericolosità, altri sostengono che la loro presenza abbia aggravato la situazione di instabilità politica e insicurezza in cui il Sinai versava da anni.
“L’espressione ‘gruppi armati’ non descrive con precisione la situazione in Sinai, perché essere armati rientra negli usi e costumi della società locale, perciò la presenza di armamenti in questa parte del paese non deve destare preoccupazione, anche in relazione ai cosiddetti gruppi islamisti”, ha dichiarato un attivista ai microfoni di Al-masry al-youm.
Altri invece la pensano diversamente, come Samir Ghattas di al-Ahram on-line che, sottolineando l’urgenza della situazione, scrive: “Non è più possibile negare la presenza di gruppi di matrice salafita jihadista in Sinai”.
“Gruppi che dispongono di circa 1.600-2.000 membri ben armati e addestrati, e che hanno portato a termine più di 50 attacchi dall’inizio della rivoluzione del 2011, colpendo stazioni di polizia, posti di blocco dell’esercito e stazioni israeliane lungo il confine”.
Anche Tel Aviv guarda con preoccupazione alla penisola che la separa dall’Egitto, definendola un ‘santuario del terrorismo’. E nonostante le misure di sicurezza messe in campo per proteggere il proprio confine, alcuni gruppi armati sono riusciti a portare a termine diversi attacchi contro i militari israeliani.
LA RISPOSTA DI MORSI
Subito dopo l’elezione del primo islamista alla presidenza egiziana, il Sinai è tornato sulle copertine della stampa locale e internazionale per l’attacco dell’agosto scorso, in cui hanno perso la vita 15 soldati egiziani (azione poi rivendicata dal gruppo Takfir wa al-Hijra).
Evento che ha spinto Morsi a dare il via alla cosiddetta ‘Operazione Aquila’, con lo scopo di ‘fare piazza pulita delle presunte cellule terroristiche di stanza nella penisola’. 
In base alle dichiarazioni del governo centrale, nel quadro di questa iniziativa sarebbero stati distrutti molti dei tunnel di collegamento con la Striscia di Gaza e più di 30 presunti terroristi sarebbero finiti in manette.
Un’operazione che tra l’altro è ancora in corso, anche se la sua intensità è diminuita. 
Ma pensare di risolvere la questione della proliferazione di armi e gruppi armati usando ancora una volta la violenza (come ai tempi di Mubarak) sembra essere solo un’illusione, una tattica che già in passato si è dimostrata quanto meno fallimentare se non addirittura dannosa.

This article has been originally published by: Osservatorio Iraq – Medioriente e Nordafrica