Egitto. Sinai: la spina nel fianco del Cairo

Nodo geopolitico strategico, ma area a lungo esclusa dalle politiche per lo sviluppo, il Sinai è oggi crocevia di traffici illegali di ogni tipo e forma, nonché ‘base’ di numerosi gruppi armati.

 

La presenza di gruppi armati in Sinai non è una novità e gli attacchi terroristici nella penisola erano frequenti già sotto il regime di Mubarak. Nell’ottobre del 2004, per esempio, ad essere colpite furono Taba e Nuweiba (dove una serie di esplosioni uccisero 34 persone e ne ferirono 71), mentre nel luglio dell’anno successivo finì nel mirino dei terroristi la celebre località turistica di Sharm al-Sheikh.
Gli obiettivi militari dei gruppi armati di stanza nella penisola sono molteplici: dalle stazioni di polizia ai gasdotti del sottosuolo, passando per i militari egiziani e israeliani posizionati lungo la linea del confine.
Ma secondo un rapporto di Reliefweb, mappare con precisione l’universo di guerriglieri attivi nella penisola è impossibile e, a parte qualche nome ricorrente, le informazioni relative al numero e alla loro organizzazione non sono disponibili.
Sembra tuttavia abbastanza chiaro che, dopo la rivoluzione del 25 gennaio 2011, il Sinai abbia assistito a una vera e propria proliferazione di ‘organizzazioni’, sia in virtù del parziale ritiro delle forze armate egiziane dal nord sia per il clima di anarchia e confusione che sta ormai dilagando un po’ in tutto il paese.
Va poi sottolineato che in base ad alcune ricostruzioni, non tutti i gruppi armati sarebbero egiziani e molti guerriglieri arriverebbero da altri paesi mediorientali come la Palestina, l’Iraq e lo Yemen. 
Inoltre, i contatti fra i gruppi armati e la popolazione locale parrebbero piuttosto stretti e, in base ad alcune fonti, le nuove leve proverrebbero proprio dalle fila dei membri più giovani della comunità beduina.
Per la stampa egiziana e straniera, le ‘armate del Sinai’ abbracciano un’interpretazione radicale dell’Islam, differenziandosi però dai tanti gruppi salafiti attivi nella penisola che rifiutano la violenza come arma politica e si impegnano nel sociale.
Al contrario, queste organizzazioni si addestrano in veri e propri campi e sarebbero sostenute dal continuo traffico di armi e uomini, in entrata e in uscita, da e verso la Striscia di Gaza, nonché dal presunto appoggio di gruppi o Stati stranieri.
Da un’analisi incrociata di fonti diverse, è possibile identificare un elenco di nomi attribuiti ad alcuni dei gruppi. Fra questi, Ansar bayt al maqdis (I protettori di Gerusalemme), Jaish al-Islam (l’Esercito dell’Islam), Takfir wa al-hijra (Empietà ed esodo), al-Tawhid wa al-Jihad (Monoteismo e Jihad).
L’IDENTIKIT DEI RIBELLI
Mentre alcuni gruppi sono nati nella Striscia di Gaza e penetrati in Sinai solo in un secondo momento, altri sono invece originari dell’Egitto.
Va inoltre evidenziata un’ulteriore distinzione tra chi ha una ‘carriera’ di lunga data alle spalle – come per esempio Takfir wa al-Hijra, fondato negli anni ’60 da un offshot dei Fratelli Musulmani – e chi è  comparso solo dopo la rivoluzione egiziana, ma è già molto conosciuto soprattutto in rete.
Molte di queste organizzazioni pubblicano i propri video su Youtube, spiegando al pubblico del web i principi e gli obiettivi della loro missione.
Mentre alcuni analisti minimizzano la loro pericolosità, altri sostengono che la loro presenza abbia aggravato la situazione di instabilità politica e insicurezza in cui il Sinai versava da anni.
“L’espressione ‘gruppi armati’ non descrive con precisione la situazione in Sinai, perché essere armati rientra negli usi e costumi della società locale, perciò la presenza di armamenti in questa parte del paese non deve destare preoccupazione, anche in relazione ai cosiddetti gruppi islamisti”, ha dichiarato un attivista ai microfoni di Al-masry al-youm.
Altri invece la pensano diversamente, come Samir Ghattas di al-Ahram on-line che, sottolineando l’urgenza della situazione, scrive: “Non è più possibile negare la presenza di gruppi di matrice salafita jihadista in Sinai”.
“Gruppi che dispongono di circa 1.600-2.000 membri ben armati e addestrati, e che hanno portato a termine più di 50 attacchi dall’inizio della rivoluzione del 2011, colpendo stazioni di polizia, posti di blocco dell’esercito e stazioni israeliane lungo il confine”.
Anche Tel Aviv guarda con preoccupazione alla penisola che la separa dall’Egitto, definendola un ‘santuario del terrorismo’. E nonostante le misure di sicurezza messe in campo per proteggere il proprio confine, alcuni gruppi armati sono riusciti a portare a termine diversi attacchi contro i militari israeliani.
LA RISPOSTA DI MORSI
Subito dopo l’elezione del primo islamista alla presidenza egiziana, il Sinai è tornato sulle copertine della stampa locale e internazionale per l’attacco dell’agosto scorso, in cui hanno perso la vita 15 soldati egiziani (azione poi rivendicata dal gruppo Takfir wa al-Hijra).
Evento che ha spinto Morsi a dare il via alla cosiddetta ‘Operazione Aquila’, con lo scopo di ‘fare piazza pulita delle presunte cellule terroristiche di stanza nella penisola’. 
In base alle dichiarazioni del governo centrale, nel quadro di questa iniziativa sarebbero stati distrutti molti dei tunnel di collegamento con la Striscia di Gaza e più di 30 presunti terroristi sarebbero finiti in manette.
Un’operazione che tra l’altro è ancora in corso, anche se la sua intensità è diminuita. 
Ma pensare di risolvere la questione della proliferazione di armi e gruppi armati usando ancora una volta la violenza (come ai tempi di Mubarak) sembra essere solo un’illusione, una tattica che già in passato si è dimostrata quanto meno fallimentare se non addirittura dannosa.

This article has been originally published by: Osservatorio Iraq – Medioriente e Nordafrica

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