L’Iraq 10 anni dopo: una ricostruzione fallita?

Secondo Dan Morse, quando gli Stati Uniti invasero l’Iraq pensavano di poter trasformare il paese in un “centro per lo sviluppo economico” basato sulle riserve di petrolio. Nel 2003 Paul Bremer ha dichiarato: “L’Iraq è pronto a fare affari”. Ma a dieci anni di distanza dall’invasione anglo-americana, disoccupazione e povertà dilagano e i servizi  essenziali non soddisfano i bisogni della popolazione. Ecco l’Iraq, 10 anni dopo l’invasione.

 

LE VERITÀ NEGATE DAL MIRAGGIO DELLA CRESCITA ECONOMICA

In base ai dati della Banca Mondiale, nel 2011 il prodotto interno lordo pro capite è tornato ai livelli del 1980, crescendo rispetto al periodo precedente l’invasione. Infatti, dai 759 dollari del 2001 si è passati ai 3.501.

“Pur nel bel mezzo di una situazione politica difficile, l’Iraq ha fatto grandi passi in avanti sul versante macroeconomico (…) la crescita è stata ripristinata, l’inflazione e il deficit decurtati”, si legge sul sito della Banca Mondiale.

Di un altro Iraq parlano invece i dati su disoccupazione e povertà, con il paese che sprofonda negli inferi della classifica mediorientale. 

Solo il 38% dei cittadini iracheni in età adulta ha un’occupazione lavorativa e le donne incontrano maggiori difficoltà degli uomini a trovare un impiego. Fra i paesi arabi, solo Libia e Yemen vantano risultati peggiori.

Ma soprattutto, nel 2012 circa il 22,5% della popolazione è sopravvissuto con appena 2 dollari al giorno, che convenzionalmente rappresentano la soglia della povertà. 

Di contro, il sottosuolo iracheno ospita le quarte riserve di petrolio al mondo e il paese si candida a diventare il secondo produttore di greggio su scala globale. L’oro nero è stato il motore della ‘crescita’ economica post-invasione e attualmente rappresenta il 90% delle esportazioni, il 95% delle entrate pubbliche e il 60% del Pil.

Tuttavia, questo settore fornisce occupazione solo all’1% della popolazione e, come nota il Washington Post, il governo non è stato in grado di investire i proventi del petrolio né per diversificare l’economia nazionale né per rimettere in sesto i servizi essenziali alla comunità come scuole, ospedali e infrastrutture.

Secondo Haifa Zangana, il problema principe dell’economia irachena risiede nella corruzionedilagante del sistema politico che avrebbe “bruciato” ben 600 miliardi di dollari di rendite petrolifere piuttosto che re-investirle in modo utile al paese. 

In base al Corruption Perceptions Index di Transparency International, l’Iraq è in fondo alla classifica mondiale, con livelli di corruzione così alti da farlo finire 169esimo su 176 paesi.

Inoltre, sin dal 2004 la terra tra i due fiumi  è stata inondata da ingenti quantità di denaro stanziate da ‘attori internazionali’ allo scopo di finanziare la ricostruzione post-conflitto: la Banca Mondiale, in collaborazione con le Nazioni Unite, ha stanziato circa 1,8 miliardi di dollari  attraverso due fondi fiduciari a cui hanno partecipato venticinque paesi.

Parte di queste risorse sono state usate per diversi progetti, dalla riedificazione di scuole e ospedali al rafforzamento del settore privato.

Anche gli Stati Uniti hanno partecipato direttamente alla ricostruzione, con uno sforzo finanziario molto consistente: il New York Times e al-Jazeera parlano di almeno 125 miliardi di dollari, l’investimento “più ambizioso dai tempi del Piano Marshall”.

 

NONOSTANTE LA PIOGGIA DI DOLLARI, “LA RICOSTRUZIONE È FALLITA”  

Nonostante questo ‘fiume di denaro’ abbia inondato le casse dello Stato iracheno, le condizioni in cui attualmente versano servizi e infrastrutture sono deplorevoli.

Secondo  Peter Van Buren, funzionario del Dipartimento di Stato: “La ricostruzione è fallita miseramente. Gli Stati Uniti non sono stati in grado di rimettere in funzione la rete elettrica nazionale né di fornire acqua potabile alla maggior parte della popolazione”.

In base ai dati dell’ Ngo coordination commitee for Iraq (NCCI), gran parte degli iracheni vive con sei ore di elettricità intermittente al giorno. La rete elettrica nazionale non riesce a soddisfare le necessità di una popolazione in continua crescita e condividere un generatore autonomo con i vicini di casa costa troppo per la maggior parte dei cittadini.

Inoltre, la carenza di energia elettrica ha avuto un impatto negativo sulla qualità dell’acqua, rendendo gli impianti di purificazione e fognari operativi solo periodicamente e mettendo così a rischio la salute della popolazione.

Di conseguenza, un iracheno su quattro non ha accesso all’acqua potabile. 

Dal 2003, il livello dei fiumi Tigri ed Eufrate è sceso notevolmente e il collasso del “qanat/karez” (un sistema di acquedotti collegato al nord e est del paese) ha messo in seria difficoltà queste aree.

La dipendenza dalle falde acquifere sotterranee è aumentata, ma senza una rigida regolamentazione la corsa per accaparrarsi queste risorse rischia di portarle ad esaurimento in tempi molto brevi.

Sempre secondo la NCCI, nel 2003 all’Iraq servivano 5 mila nuove scuole e 7 mila avrebbero dovuto essere messe in sicurezza. Attualmente, un quinto della popolazione fra i 10 e i 49 anni è analfabeta, mentre negli anni Ottanta l’Iraq vantava una posizione di primato nella regione per l’alto livello di istruzione dei suoi cittadini. 

Inoltre, scomponendo questo dato per genere, si nota come il problema riguardi soprattutto le donne (il 24% non sa né leggere né scrivere contro l’11% degli uomini).

A dieci anni di distanza dall’invasione americana, le scuole irachene devono affrontare molte difficoltà come per esempio l’assenza di attrezzature e la mancanza di personale qualificato.

Per quanto riguarda la sanità, il tasso di mortalità infantile e materna ha subìto un netto declino, anche se il paese si trova ancora in fondo alla classifica regionale.

Destano allarme la percentuale crescente di bambini che nascono affetti da malformazionicongenite e il notevole aumento dei casi di cancro e leucemia, soprattutto fra i più piccoli, nonché la comparsa di malattie “nuove” per il paese.

Secondo gli esperti, entrambi i fenomeni sono collegati alla contaminazione da uranio impoverito e altri tipi di inquinamento dovuti all’attività militare.

Molti di quei dottori e scienziati iracheni che hanno tentato di indagare su questa possibile correlazione sono stati vittime di censura, minacce e addirittura aggressioni.

 

NESSUN PROGRESSO SUL FRONTE DEI DIRITTI UMANI

A dieci anni dall’inizio dell’occupazione, le violazioni dei diritti umani continuano, soprattutto contro detenuti, giornalisti, attivisti e donne.

Secondo Human Rights Watch, gli arresti extra-giudiziali e la tortura sono pratiche ancora in voga e le forze di sicurezza irachene persistono nel reprimere con estrema violenza ogni forma di dissenso. 

La Ong ha inoltre denunciato l’esistenza di prigioni segrete e il sovraffollamento di quelle ordinarie in cui i prigionieri vivono in condizioni allarmanti, con un accesso molto limitato a cibo e servizi igienici.

Secondo Haifa Zangana, gli abusi sessuali e le minacce di stupro sono ormai pratiche comuni nei centri di detenzione. Su questo fronte anche Amnesty International ha documentato casi in cui i prigionieri sono stati costretti a praticare sesso orale durante gli interrogatori o hanno confessato per paura di ritorsioni sessuali nei confronti dei loro familiari.

In aggiunta, rimane critica anche la situazione dei rifugiati e il governo non ha messo a punto alcun piano per il loro rientro. Dal 2003, un iracheno su cinque ha lasciato la propria abitazione e ha cercato riparo altrove, a volte all’estero, altre all’interno dei confini nazionali.

Secondo l’Organizzazione internazionale per le migrazioni sono meno del 10% quelli che hanno deciso di rientrare, e spesso coloro che lo hanno fatto non hanno ritrovato la propria casa. Gli sfollati interni sono costretti a vivere in sistemazioni abusive senza accesso all’acqua pulita e ai servizi igienici.

Stando alle stime del ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, negli ultimi dieci anni quattro milioni e mezzo di bambini sono rimasti orfani. 

Attualmente sono 600 mila i minori che vivono in strada senza accesso ai servizi essenziali come il cibo e la casa, e 700 sono invece ospitati nei pochi orfanatrofi del paese.

L’Associazione degli psicologi iracheni ha denunciato gli effetti devastanti che l’occupazione ha prodotto sulla salute mentale dei più piccoli, creando notevoli problemi di apprendimento. Fuad Azziz, psicologo, sostiene che “i bambini hanno bisogno di muoversi, leggere, apprendere e giocare ma oggi in Iraq fare cose di questo tipo significa rischiare la vita”.

Inoltre, l’esposizione alla violenza sin dalla più tenera età ha reso molti adolescenti delle ‘reclute modello’ per le milizie armate, come ad esempio quelle affiliate ad al-Qaeda.

Infine, le donne sono un’altra categoria fortemente a rischio. Negli ultimi dieci anni, molte sono rimaste vedove, dopo aver perso i mariti in esplosioni, sparatorie o atti di violenza. Donne estremamente vulnerabili e spesso costrette a prostituirsi per guadagnarsi da vivere. 

Lo scorso aprile il governo iracheno ha varato una legge contro il traffico degli esseri umani, ma le autorità hanno fatto ben poco per metterla in pratica, così come nel caso della legge sulla violenza domestica (entrata in vigore due mesi dopo) che, fra le altre cose, rende illegale le mutilazioni genitali femminili e i matrimoni forzati e fra bambini.

 

L’IRAQ DELLE DONNE 

Sotto Saddam Hussein, la presenza delle donne in politica e all’interno del mondo del lavoro era incoraggiata, ma gli standard di vita della popolazione femminile si sono notevolmente deteriorati a partire dagli anni Novanta e soprattutto in seguito all’occupazione.

Secondo Al-Ali, ricercatrice presso la SOAS, i diritti sociali ed economici della donna e la sua posizione all’interno della società hanno cominciato a peggiorare durante il periodo delle sanzioni (1990-2003), per poi precipitare definitivamente. 

Attualmente la partecipazione delle donne nella sfera pubblica è ostacolata dal clima di insicurezza e dalla precarietà economica in cui vivono per la maggior parte.

E’ soprattutto la violenza a giocare un ruolo fondamentale: gli stupri, i rapimenti e il traffico di esseri umani sono cresciuti esponenzialmente in seguito alla caduta del regime.

Senza contare che durante gli anni Settanta e Ottanta l’Iraq era uno dei paesi arabi più all’avanguardia in materia di diritti femminili (si veda lo Statuto Personale del 1958) mentre con la nuova Costituzione, la religione è tornata ad avere un ruolo di primo piano e l’Islam si è affermato come fondamento della legislazione statale.

Secondo Haifa Zangana, sono tornate in auge pratiche che erano popolari un secolo fa come la Muta’a e la poligamia. La prima come forma di prostituzione socialmente accettata per le donne dei ceti sociali più bassi, la seconda come soluzione al grande numero di vedove.

“La condizione femminile è legata al contesto di insicurezza generale (…), le violazioni dei diritti delle donne fanno parte di tutta quella serie di abusi che ha subìto l’intera popolazione irachena (…), ma le donne devono sopportare un doppio fardello perché sotto l’occupazione hanno perso gran parte della loro libertà”, ha dichiarato Maha Sabria, professoressa di Scienza politica all’Università Al-Nahrain di Baghdad.

Uno dei pochi segnali positivi nell’Iraq post-invasione è rappresentato dalla netta crescita del numero di organizzazioni e campagne per i diritti delle donne all’interno della società civile.

Una delle battaglie più importanti è stata quella per l’introduzione delle quote di genere in Parlamento. Dapprima osteggiate dagli Stati Uniti e da molti leader religiosi iracheni, sono state infine introdotte nella Costituzione provvisoria del 2004.

In seguito alle elezioni del 2005, i seggi occupati dalle parlamentari donne erano il 31,5% del totale, mentre nel 2010 questa percentuale si è leggermente contratta arrivando al 25%.

Tuttavia, la considerevole presenza numerica femminile non si traduce in uno sforzo comune per articolare un’agenda ‘femminista’ o per agire almeno come un gruppo unitario: al contrario, molto spesso i dibattiti più aspri si accendono proprio sulle questioni r lative ai diritti delle donne.

Ciò si spiega in due modi. Primo, con il divario ideologico che separa le parlamentari ‘secolarizzate’ da quelle appartenenti a fazioni politiche d’ispirazione religiosa. Secondo, con la sottomissione delle parlamentari ai leader (che sono tutti uomini e a volte addirittura loro parenti).

Anche se l’introduzione delle quote di genere sta avendo un impatto positivo sulla percezione delle donne nella sfera pubblica, gli ostacoli da affrontare per intraprendere una carriera politica sono ancora numerosi. 

Ad esempio, molte delle candidate alle elezioni politiche del 2005 e 2010 hanno ricevuto minacce di morte, soprattutto dalle milizie islamiste.

 

QUESTIONI DI (IN)SICUREZZA

Nell’Iraq post-invasione, il clima di insicurezza è diventato ‘normalità’ e la violenza, oltre a colpire l’esistenza femminile in modo profondo, continua a scandire la vita di un’intera popolazione.

Secondo l’Iraq Body Count, l’apice è stato raggiunto nel 2006. Tuttavia, per tutto il 2008, l’intensità di incidenti, aggressioni ed esplosioni è stata notevole.

Durante il 2012, l’Iraq Body Count ha registrato 4,568 morti. Questa cifra ha portato il numero totale di decessi (da marzo 2003) fra i 111.047 e i 121.345. Tuttavia, fare stime precise è molto difficile e alcuni osservatori ritengono che i calcoli di questa organizzazione minimizzino la gravità della situazione, suggerendo addirittura che a perdere la vita siano stati un milione di persone.

Il 2012 ha segnato un triste primato: è il primo anno, dal 2009, in cui il numero delle vittime è cresciuto, anche se gli ultimi mesi sono stati relativamente tranquilli.

“Il paese rimane in uno stato di guerra a bassa intensità (…) dove la violenza quotidiana è intervallata da attacchi occasionali su vasta scala mirati a uccidere molte persone in un colpo solo”, si legge nel rapporto.

 

This article has been originally published by: Osservatorio Iraq – Medioriente e Nordafrica

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