Tagged in: iraq

Conversazione con Hadeel Azeez: il nudo femminile come luogo di sincerità

Hadeel Azeez è un’artista irachena che vive ad Alberobello, in Puglia. E’ nata nel 1981 a Baghdad e si è trasferita in Italia nel 2003. Si occupa di pittura ma anche di scultura e disegno. E con le sue opere intimiste e raffinate è in grado di emozionare e far riflettere. Osservatorio Iraq l’ha intervistata.

Come ti sei avvicinata all’arte?

In maniera graduale, sin dalla tenera età. Dopo il liceo classico ho preso la decisione di iscrivermi all’Accademia delle belle arti a Baghdad, dove ho cominciato il mio percorso artistico vero e proprio.

 

Nei tuoi quadri il corpo femminile è un soggetto ricorrente, a volte nella sua interezza, altre invece solo attraverso un dettaglio. Perché questa scelta?

Non si tratta di una scelta, ma di un modo di guardare le cose. All’inizio preferivo i corpi interi, poi ho cominciato a spingermi sempre più verso i dettagli, guardando il corpo umano da un punto di vista diverso.

Quando si è un giovane artista, si tende sempre ad arricchire le proprie opere con elementi visivi, figure e concetti per paura di non essere capiti. Con l’esperienza si impara a liberarsi delle cose superflue e concentrarsi sempre di più sull’essenza.

 

Che rapporto c’è fra le tue opere e il tuo vissuto interiore?

Per me arte e psicologia sono interconnesse. Non esiste un altro modo di creare se non partendo da se stessi, dal lato più profondo dei propri sentimenti e delle proprie sensazioni. Il percorso di vita, la memoria, l’esperienza, gli interessi e la consapevolezza di sé sono parte del processo creativo che dà vita alle mie opere.

 

Come nasce l’idea di usare la calligrafia araba nei tuoi dipinti? 

L’idea è nata dopo una discussione durante una delle mie prime mostre in Italia: un uomo era rimasto molto offeso dalle immagini del nudo femminile presenti nelle mie opere.

Poi un giorno, per caso, mi sono ritrovata a leggere una poesia di Nizar Quabbani (illustre poeta siriano del ‘900 ndr) e a riflettere su quanta libertà avesse nel descrivere il corpo femminile senza barriere o limiti.

Così ho avuto l’idea di inserire i suoi versi nei miei dipinti perché volevo contestare – con il suo approccio femminista – il modo di vedere la donna solo come un corpo o un oggetto sessuale, anche se, al contrario dei versi di Quabbani, i temi delle mie opere sono lontani da qualsiasi riferimento sessuale o erotico.

Per me la scelta del nudo femminile nasceva dall’esigenza di indagare la psicologia umana con assoluta sincerità.

 

Le frasi che inserisci nelle tue opere sono tratte da opere letterarie?

Sì, in genere si tratta di poesie d’amore o che narrano esperienze di vita. Uso versi di vari autori di quasi tutte le epoche, ma soprattutto esponenti della letteratura araba moderna.

Il senso delle poesie che scelgo è inevitabilmente connesso con quello delle opere in cui sono inserite, e queste ultime prendono il titolo dalle prime. Come accade per esempio con quella intitolata “Per Dove Scappo”, da una poesia di Nazik al-Mala’ika.

 

Come vivi le critiche che ti sono state mosse per il fatto di utilizzare il corpo – nudo – delle donne? 

Le critiche sono lecite, basta che vengano fatte con rispetto. Sarebbe assurdo pensare che tutti possano apprezzare il contenuto delle mie opere, anche perché il giudizio delle persone è sempre condizionato da molti fattori. Come il backgroun sociale, ad esempio, o la religione.

 

Ti senti parte del panorama artistico femminile iracheno? In che rapporto ti poni rispetto  a figure di spicco come Layla Al Attar? 

Il mio percorso artistico si è sviluppato in Italia perché prima di lasciare Baghdad ero ancora una studentessa all’Accademia. Di certo mi sento irachena in tutto, come persona e come artista, ma non ho idea di cosa significhi fare parte del panorama artistico femminile iracheno.

Un artista non vorrebbe mai mettersi in una scatola che delimiti i suoi orizzonti. Mi vedo solo come una persona che proviene da una cultura ricca di storia e che vuole far conoscere al mondo la proprie arte.

Quanto a Layla Al Attar, la ammiro moltissimo per il suo coraggio. Credo che sia un idolo per tutti gli artisti iracheni e non, per il suo contributo all’arte e il valore artistico ed espressivo delle sue opere.

 

Perché hai deciso di lasciare l’Iraq e trasferirti in Italia?

Questioni di cuore! A Baghdad nell’aprile del 2002 ho incontrato Michele Stallo, l’uomo che poi è diventato mio marito. Era stato invitato a partecipare al padiglione italiano all’Esposizione Internazionale di Arte del Museo nazionale di Arte moderna a Baghdad.

Nei mesi successivi Michele è tornato molte volte in Iraq, creando anche l’associazione Salaam Baghdad – Artisti contro la guerra. Abbiamo deciso di andare a vivere insieme e da allora non ci siamo più separati.

 

Che ricordo hai delle guerre nel tuo paese? 

Le guerre, senza soluzione di continuità, sono iniziate quando ero piccolissima, divenendo per me una “normalità” relativamente traumatizzante. Sicuramente mi hanno lasciato tanti ricordi che mi hanno segnata.

Ma il mio paese non è solo guerra, l’Iraq ha una lunga storia. I siti archeologici della Mesopotamia sono presenti lungo l’intero tratto dei due fiumi, Tigri ed Eufrate.

L’impero islamico ha lasciato un segno forte fino ai nostri giorni. Mi sento molto più vicina a ricordi di questo genere, piuttosto che alle guerre.

 

A dieci anni dall’invasione americana dell’Iraq, cosa pensi della situazione delle donne nel tuo paese?

Devo premettere che non sono più tornata in Iraq dal 2003, quindi non posso rispondere a questa domanda in maniera troppo precisa. La popolazione irachena ha subìto tante violenze, sia a causa delle numerose guerre sia per la situazione politica interna.

La condizione delle donne irachene non è mai stata facile.

Anche se non sono mai state emarginate a livello legale, sono state la società e spesso le famiglie stesse ad imporre regole molto rigide sulle loro vite. In alcune zone del paese, le donne non vanno oltre la scuola dell’obbligo, non lavorano e difficilmente vengono assunte. Quando gli uomini vengono a mancare all’interno del nucleo familiare, le donne diventano molto vulnerabili: questa è la condizione che tocca a chi è senza un marito, un padre o un fratello.

E una donna senza sostegno e protezione è costretta ad affrontare un destino molto duro. Le vedove poi (il cui numero è cresciuto esponenzialmente durante l’occupazione straniera, ndr) vivono la peggiore delle situazioni, e sono spesso costrette in uno stato di povertà assoluta, tanto da spingere anche i figli piccoli a lavorare o chiedere l’elemosina.

 

This article was originally published by: Osservatorio Iraq – Medioriente e Nordafrica

Iraq. James Steele, l’uomo del mistero e il ‘mago’ della counterinsurgency

‘Dieci anni dopo’, un’inchiesta firmata da Guardian e BBC Arabic fa luce sul ruolo dell’ex-colonello statunitense James Steele in Iraq. La storia dell’esperto di counterinsurgency è ‘ambientata’ durante uno dei capitoli più oscuri dell’occupazione americana e arriva sino in Vietnam.

 

IL ‘MAGO’ DELLA COUNTERINSURGENCY

Steele è considerato un veterano delle cosiddette guerre sporche ed è diventato ‘famoso’ soprattutto per il suo impegno in Vietnam ed El Salvador.

“Intelligente, duro e attento osservatore”, così lo descriveva Donald Rumsfeld (allora ministro della Difesa), in una nota inviata al presidente Bush e al suo vice Cheney.

“E’ un individuo privo di umanità: il gran numero di guerre in cui ha combattutto e i vari tipi di tortura commessi, sia in Iraq che in altre parti del mondo, lo hanno privato di qualsiasi emozione”, ha detto di lui il generale iracheno Muntadher al-Samari.

In Vietnam, James Steele ha ‘familiarizzato’ con le tecniche ‘antiguerriglia’, combattendo nel reggimento dei Cavalli neri. In El Salvador, invece, ha ‘capeggiato’ l’MilGroup, un corpo di consiglieri speciali inviati dagli americani per ‘istruire’ il governo locale su come reprimere la ribellione di sinistra scoppiata nel paese.

“E’ un vero militare, di grande disciplina, sono davvero rimasto molto colpito da lui. (…) Senza il suo consenso, non si muoveva nulla”, ha dichiarato Celerino Castillo, agente speciale dell’esercito regolare di El Salvador.

James Steele è arrivato a Baghdad nel 2003, con l’incarico di consulente del settore energetico per l’amministrazione americana e è rimasto nel paese fino al 2005. Del suo ruolo durante l’occupazione si sapeva poco, almeno fino alla pubblicazione dell’inchiesta di Guardian e BBC Arabic. A documentarne la sua presenza del paese c’era solo un breve filmato youtube e qualche foto.

 

GLI IRACHENI LO FANNO MEGLIO, MA SOTTO LA SUPERVISIONE AMERICANA

Appena dopo l’invasione, gli Stati Uniti iniziano ad addestrare la polizia irachena per quella che pensavano sarebbe stata una transizione pacifica. Ma con l’escalation dell’insurrezione di matrice sunnita, il numero di soldati americani uccisi cresce esponenzialmente, la guerra diviene impopolare e la crisi irachena minaccia la rielezione di Bush.

Fino alla primavera del 2004, la repressione degli insorti era stata principalmente affidata ai militari americani ma con scarso successo.

Perciò, l’amministrazione, messa alle strette, si vede costretta a un cambio di strategia: la creazione di forze ‘speciali’ di polizia composte esclusivamente da iracheni, sotto la supervisione di esperti americani in ‘counterinsurgency’.

La decisione di creare questi ‘commandos‘ viene materialmente presa da Falah al-Naqib, ministro degli Interni iracheno durante il governo di Allawy che, insieme agli americani, decide di ‘abbandonare’ parzialmente il principio di de-baathificazione, mettendo a capo di queste nuove forze di sicurezza degli ufficiali che avevano ‘lavorato’ durante il regime di Saddam, in primis il sunnita Adnan Thabit, che ne diviene il leader.

Secondo l’inchiesta di Guardian e BBC Arabic, più tardi i ranghi di questi commandos speciali vengono integrati anche da milizie sciite, desiderose di ‘dare una lezione’ agli insorti.

L’organizzazione e l’addestramento di queste forze speciali viene affidata a un circolo molto ristretto di ‘esperti americani’ che svolgono principalmente un ruolo di consulenza. James Steele (da civile) ne diventa il capo indiscusso, con il compito di supervisionare le forze locali anti-guerriglia e dirigere la caccia agli insorti.

Sempre l’inchiesta sottolinea come l’ex-colonnello statunitense abbia collaborato quotidianamente con i commandos speciali iracheni, fornendogli liste di individui da catturare e provvedendo ad organizzare il trasferimento dei prigionieri in centri per gli interrogatori gestiti dagli americani.

 

LE PRIGIONI SEGRETE

Per ottenere informazioni sull’insurrezione, vengono istituiti dei centri di detenzione segreti dove le forze speciali di polizia portano gli individui arrestati durante i raid. Secondo il generale al-Samari, le prigioni segrete sarebbe state quattordici o quindici in tutto, sparse in tutto il paese e sotto il controllo del ministero degli Interni.

Gli americani erano a conoscenza di tutto quello che succedeva al loro interno, uccisioni e torture comprese. Il generale (attualmente residente in Giordania) racconta anche di come lo stesso Steele abbia visitato uno di questi centri a Baghdad in sua presenza.

Ottenere informazioni dai detenuti era un’operazione di routine per i commandos speciali iracheni e i loro supervisori americani. I sopravvissuti agli interrogatori hanno rivelato di essere stati sottoposti ai più svariati tipi di abusi come percosse, stupri, minacce con armi da fuoco ed elettroshock.

La città di Samarra, a nord di Baghdad, è stata uno dei più importanti banchi di prova per la nuova strategia di ‘counterinsurgency’ adottata dall’amministrazione americana.

Qui, i commandos e i militari americani hanno istituito un centro di detenzione all’interno della biblioteca principale della città. Il giornalista Peter Maass, che ha avuto l’occasione di visitarlo nel 2004 (mentre alloggiava a casa dello stesso Steele, ndr), scrive: “C’erano circa 100 detenuti accucciati sul pavimento con le mani legate dietro la schiena e la maggior parte di loro erano bendati”.

“Alla mia destra, un ufficiale […] stava picchiando e dando calci ad un prigioniero che giaceva a terra. Sono entrato in una stanza adiacente al corridoio principale, e, al momento del mio ingresso, è uscito un detenuto con il naso sanguinante [..] poi a pochi minuti dall’inizio dell’intervista, un uomo ha cominciato a gridare nel corridoio principale Allah Allah Allah, [..] , e non erano grida di estasi ma urla disperate di una persona impazzita”.

 

L’EPILOGO

Secondo Todd Greetree (ambasciatore americano in El Salvador) esiste un filo rosso che collega le strategie di repressione delle insurrezioni messe in atto dal Vietnam in poi.

Perciò, non deve sorprendere che individui come Steele, associati a quel tipo di guerra e profondi conoscitori di tutti i suoi segreti, ricompaiano in momenti diversi della storia, per mettere la propria ‘expertise‘ a servizo dello Stato.

Steele ha lasciato l’Iraq nel settembre del 2005 e, dopo la sua partenza, i commandos hanno continuato ad operare ed ingrandirsi, arrivando a contare 17.000 membri.

Il Guardian e la BBC Arabic hanno cercato di intervistarlo, ma si è rifiutato. Al microfono del giornalista Peter Maass, avrebbe però dichiarato di essere contrario alle violazioni dei diritti umani.

E sebbene il suo operato in Iraq dimostri il contrario, sarà davvero difficile che quest’uomo diventi oggetto di un’inchiesta giudiziaria. Attualmente, l’ex-colonnello vive in Texas e di tanto in tanto, tiene lezioni universitarie sulle tattiche di counterinsurgency.

 

This article was originally published by: Osservatorio Iraq – Medioriente e Nordafrica

Iraq. La storia di Zaid: da pacifista a partigiano della resistenza

In “Perché uccidi, Zaid?”, lo scrittore tedesco Jürgen Todenhöfer racconta la sua versione della storia della resistenza irachena all’occupazione americana, a partire dalla vita di un giovane studente pacifista. 

 

LA STORIA DI ZAID

Zaid ha ventidue anni e vive nella provincia di Ramadi quando gli Stati Uniti invadono il suo paese, nel 2003. Il ragazzo decide di non unirsi alle file della ‘resistenza’, preferendo continuare i suoi studi.

Tre anni dopo, gli americani uccidono il più piccolo dei suoi due fratelli, mentre gran parte degli amici d’infanzia impugnano le armi contro le forze di occupazione.

Poi quella bomba che nel 2007 rischia di distruggergli casa, e la sua famiglia che si rifugia terrorizzata nell’abitazione dello zio.

Ma il riscaldamento è rimasto acceso. E Karim, l’unico fratello di Zaid ancora vivo, corre a spegnerlo. Dopo neanche trenta metri viene freddato da un cecchino americano.

Per le strade la situazione è così pericolosa che il corpo senza vita di Karim resta sull’asfalto sino all’alba del giorno seguente: un dramma che si somma allo shock.

Sarà in seguito a questa seconda perdita che Zaid si unirà alla resistenza contro gli americani, per fermare quello che stava diventando un vero “massacro” di civili inermi.

Nel raccontare la storia di Zaid, l’autore confessa: “Non siamo mai stati grandi amici, anche perché io credo nella nonviolenza predicata da Martin Luther King e Gandhi. Ciononostante, è stato facile intuire le ragioni della sua scelta”.

 

L’AUTORE E IL SUO PENSIERO

Jürgen Todenhöfer è uno scrittore, ex-parlamentare e professore di diritto internazionale. Ma è soprattutto noto all’opinione pubblica tedesca come uno dei più autorevoli oppositori alla guerra in Afghanistan e Iraq.

Nel suo libro racconta “la vera storia della resistenza irachena che i media occidentali non hanno avuto il coraggio di narrare”.

Perché Jürgen ha visitato il paese più volte, e la sua opera è frutto di un lavoro ‘sul campo’. Durante il suo soggiorno nella provincia di Ramadi, lo scrittore si è confrontato con le difficoltà che le famiglie continuano a dover affrontare quotidianamente.

Dall’elettricità che va a singhiozzo ai bombardamenti, o ancora alla necessità di dormire all’aperto quando il caldo diventa insopportabile.

Parlando del tempo trascorso in Iraq, Jürgen fa un lungo elenco delle cose che non riuscirà mai a dimenticare: “le case distrutte, le ispezioni continue della polizia, i checkpoint, la miseria in cui vivono le persone e il dramma delle madri che hanno perso i propri figli durante il conflitto”.

Lui è uno dei pochi che ‘sul campo’ c’è stato davvero, e ha vissuto in prima persona l’insicurezza e la violenza degli anni dell’occupazione: “La gran parte delle persone che parlano di Iraq e Afghanistan non ci hanno mai vissuto” ribadisce l’autore, che sottolinea: “Non c’è un solo politico occidentale che abbia trascorso almeno una settimana a casa di una famiglia del posto. I nostri ‘rappresentanti’ volano in questi paesi, fanno conferenze stampa e tornano indietro”.

Jürgen critica fermamente i media occidentali, “colpevoli – a suo dire – di dipingere il mondo arabo-musulmano in maniera distorta”.

“Quando ne parlano – afferma – è per metterne in risalto la presunta ‘violenza’ senza prendere in considerazione i crimini commessi dall’Occidente”. “Al-Qaeda – aggiunge – è senza dubbio un’organizzazione terroristica che in venti anni si è resa responsabile della morte di 5000 civili, ma il governo americano ha ucciso centinaia di migliaia di cittadini iracheni”.

Il problema principale, dunque, “non è la violenza di matrice islamica, ma l’aggressione dei paesi occidentali contro Stati come l’Afghanistan e l’Iraq”.

Secondo Jürgen l’islamofobia è ormai parte integrante non solo della politica tedesca ma anche di quella olandese e americana.

In “Perché uccidi, Zaid?”, l’autore racconta come durante l’occupazione la resistenza non abbia combattuto solo gli americani e i loro alleati, ma anche le milizie dei potenti politici locali: “Nel 2008 c’erano circa 100 mila combattenti che lottavano per la libertà e non uccidevano civili”.

Una resistenza che “va distinta da al-Qaeda, che invece resta un’organizzazione di ‘assassini’ composta da non più di 1000 membri, per la maggior parte non iracheni”, sulla quale conviene “tenere i riflettori puntati per giustificare l’occupazione”.
 

Il ricavato dai diritti del libro è stato devoluto per acquistare medicinali destinati ai tanti rifugiati e sfollati iracheni, e per finanziare un progetto di riconciliazione israelo-palestinese.

 

This article was originally published by: Osservatorio Iraq – Medioriente e Nordafrica

L’Iraq è il futuro del mercato petrolifero?

A 10 anni da quella che molti considerano la ‘guerra del petrolio’, gli Stati Uniti non sono ancora riusciti a imporre né una nuova legge né dei contratti più vantaggiosi per le loro compagnie, tranne che nella regione semi-autonoma del Kurdistan.

 

Nel 2009, quando le compagnie straniere sono rientrate in Iraq, la produzione di greggio è tornata a crescere e il paese è diventato il secondo produttore dell’Opec.

Secondo il blogger Joel Wing, le multinazionali che attualmente operano sul suolo iracheno sono sessanta: 17 hanno firmato contratti col governo di Baghdad, 40 con quello autonomo del Kurdistan e tre (Total, Exxon e Gazprom) con entrambi.

Inoltre, le nazionalità di queste compagnie sono molto variegate. Le ‘asiatiche’ sono le più numerose, e rappresentano il 43% del totale, seguite dalle americane col 28% e dalle europee col 25%.

Ma i contratti siglati dal governo federale iracheno sono formalmente “illegali” in quanto privi dell’approvazione del Parlamento, che è invece necessaria ai sensi della legge sul petrolio del 1967, attualmente ancora in vigore.

 

LA LEGGE SUL PETROLIO

 Dopo l’invasione del 2003, gli Stati Uniti hanno cercato (invano) di far approvare una nuova legge sul petrolio, esercitando enormi pressioni sulle istituzioni politiche irachene, con l’obiettivo di agevolare il ritorno delle multinazionali straniere nel paese.

Nel 2006, il Consiglio dei ministri di Baghdad ha preparato una proposta di legge e la Casa Bianca ha fatto di tutto per caldeggiarne l’approvazione, minacciando sia di tagliare i fondi per la ricostruzione sia di ritirare il proprio sostegno politico al premier Nouri al Maliki.

E per esercitare ancora più pressioni, gli Stati Uniti hanno imposto un ultimatum: settembre 2007.

Ma nel dicembre del 2006, i leader dei sindacati iracheni hanno cominciato ad organizzarsi contro l’approvazione di questo testo che spogliava il Parlamento nazionale dei suoi poteri di controllo sui contratti.

La loro lotta è stata abbracciata da ampi strati della società civile, convinti che le riserve petrolifere debbano essere un bene pubblico destinate alla popolazione locale.

Ben presto, anche molti politici iracheni hanno iniziato a schierarsi con i lavoratori, e al momento del voto in Parlamento la proposta di legge non è passata.

Nel 2009, però, il governo guidato da Maliki ha cominciato a concludere contratti con le multinazionali senza l’approvazione dei deputati, quindi in aperta violazione della legislazione in vigore.

Secondo Greg Muttitt, la mossa del premier va però letta come una ‘falsa’ vittoria per le compagnie petrolifere straniere, dal momento che i contratti sono formalmente illegali e resteranno in piedi solo finché a Baghdad ci sarà un governo ‘amico’.

 

I CONTRATTI PETROLIFERI

 Gli Stati Uniti e le compagnie petrolifere hanno inoltre perso anche sul fronte della tipologia dei contratti perché non hanno ottenuto la cosiddetta ‘produzione condivisa’, e si sono dovuti accontentare di ‘contratti di servizio’, fatta eccezione per il Kurdistan.

In base ai contratti di produzione condivisa, lo Stato rimane proprietario del petrolio mentre la compagnia straniera (o un gruppo) provvede a sborsare tutto il capitale necessario all’esplorazione, la trivellazione e lo sfruttamento del giacimento. I profitti – che per i primi anni servono a recuperare i costi dell’investimento – vengono poi divisi fra le due parti. 

In Iraq le multinazionali devono invece accontentarsi dei ‘contratti di servizio’, in cambio dei quali ricevono una tariffa fissa per ogni barile di greggio, senza alcun tipo di partecipazione alla divisione dei profitti.

Tanto che il New York Times li considera tra gli accordi più svantaggiosi al mondo, sia dal punto di vista dei guadagni sia per l’insicurezza endemica e il pessimo stato delle infrastrutture del paese.

Ed è proprio per questo che molte compagnie straniere si sono rivolte direttamente al più ‘clemente’ governo del Kurdistan.

 

OTTIME PROSPETTIVE?

 La corsa all’oro nero iracheno è incoraggiata dalle previsioni rispetto alla scoperta di nuovi giacimenti. Secondo il ministero del Petrolio, nel 2014 la produzione dovrebbe salire a quota 6,5 milioni di barili al giorno, più che raddopiando la cifra attuale di 2,7 milioni.

Il governo ha addirittura parlato dell’obiettivo di toccare quota 10 milioni entro il 2017, anche se alcuni analisti indipendenti sostengano che sia impossibile.

“Nessun paese è riuscito ad aumentare la produzione tanto quanto l’Iraq sta progettando di fare”, ha tuonato Michael Townshend, presidente della British Petroleum (BP) nell’ufficio di Baghdad.

Ma da quando le multinazionali petrolifere hanno fatto ritorno nel paese (tra cui l’italiana Eni), la corruzione è salita alle stelle: “Due compagnie occidentali sono attualmente sotto inchiesta per aver dato o ricevuto tangenti, il governo iracheno sta pagando una tariffa al barile calcolata in base ad obiettivi di produzione altamente irrealistici […] e i contractor stanno calcando la mano sui costi di trivellazione”, scrive Greg Muttitt.

“Le compagnie straniere che fanno affari senza mazzette sono l’eccezione, non la regola. Nessuno corre il rischio […], perchè all’improvviso il loro progetto potrebbe essere bloccato per questioni burocratiche, minacce o veri e propri atti di violenza”, spiega Hameed Abdullah su al-Mashraq.

Ma nonostante i bassi livelli di trasparenza, l’insicurezza e lo stato deplorevole delle infrastrutture, le grandi multinazionali non sembrano intenzionate a volersene andare. Perchè, come si legge in un documento della BP (riportato da Greg Muttitt), in molti sono convinti che “l’Iraq sia il futuro del mercato petrolifero”.

 

This article has originally been published in: Osservatorio Iraq – Medioriente e Nordafrica

L’Iraq 10 anni dopo: una ricostruzione fallita?

Secondo Dan Morse, quando gli Stati Uniti invasero l’Iraq pensavano di poter trasformare il paese in un “centro per lo sviluppo economico” basato sulle riserve di petrolio. Nel 2003 Paul Bremer ha dichiarato: “L’Iraq è pronto a fare affari”. Ma a dieci anni di distanza dall’invasione anglo-americana, disoccupazione e povertà dilagano e i servizi  essenziali non soddisfano i bisogni della popolazione. Ecco l’Iraq, 10 anni dopo l’invasione.

 

LE VERITÀ NEGATE DAL MIRAGGIO DELLA CRESCITA ECONOMICA

In base ai dati della Banca Mondiale, nel 2011 il prodotto interno lordo pro capite è tornato ai livelli del 1980, crescendo rispetto al periodo precedente l’invasione. Infatti, dai 759 dollari del 2001 si è passati ai 3.501.

“Pur nel bel mezzo di una situazione politica difficile, l’Iraq ha fatto grandi passi in avanti sul versante macroeconomico (…) la crescita è stata ripristinata, l’inflazione e il deficit decurtati”, si legge sul sito della Banca Mondiale.

Di un altro Iraq parlano invece i dati su disoccupazione e povertà, con il paese che sprofonda negli inferi della classifica mediorientale. 

Solo il 38% dei cittadini iracheni in età adulta ha un’occupazione lavorativa e le donne incontrano maggiori difficoltà degli uomini a trovare un impiego. Fra i paesi arabi, solo Libia e Yemen vantano risultati peggiori.

Ma soprattutto, nel 2012 circa il 22,5% della popolazione è sopravvissuto con appena 2 dollari al giorno, che convenzionalmente rappresentano la soglia della povertà. 

Di contro, il sottosuolo iracheno ospita le quarte riserve di petrolio al mondo e il paese si candida a diventare il secondo produttore di greggio su scala globale. L’oro nero è stato il motore della ‘crescita’ economica post-invasione e attualmente rappresenta il 90% delle esportazioni, il 95% delle entrate pubbliche e il 60% del Pil.

Tuttavia, questo settore fornisce occupazione solo all’1% della popolazione e, come nota il Washington Post, il governo non è stato in grado di investire i proventi del petrolio né per diversificare l’economia nazionale né per rimettere in sesto i servizi essenziali alla comunità come scuole, ospedali e infrastrutture.

Secondo Haifa Zangana, il problema principe dell’economia irachena risiede nella corruzionedilagante del sistema politico che avrebbe “bruciato” ben 600 miliardi di dollari di rendite petrolifere piuttosto che re-investirle in modo utile al paese. 

In base al Corruption Perceptions Index di Transparency International, l’Iraq è in fondo alla classifica mondiale, con livelli di corruzione così alti da farlo finire 169esimo su 176 paesi.

Inoltre, sin dal 2004 la terra tra i due fiumi  è stata inondata da ingenti quantità di denaro stanziate da ‘attori internazionali’ allo scopo di finanziare la ricostruzione post-conflitto: la Banca Mondiale, in collaborazione con le Nazioni Unite, ha stanziato circa 1,8 miliardi di dollari  attraverso due fondi fiduciari a cui hanno partecipato venticinque paesi.

Parte di queste risorse sono state usate per diversi progetti, dalla riedificazione di scuole e ospedali al rafforzamento del settore privato.

Anche gli Stati Uniti hanno partecipato direttamente alla ricostruzione, con uno sforzo finanziario molto consistente: il New York Times e al-Jazeera parlano di almeno 125 miliardi di dollari, l’investimento “più ambizioso dai tempi del Piano Marshall”.

 

NONOSTANTE LA PIOGGIA DI DOLLARI, “LA RICOSTRUZIONE È FALLITA”  

Nonostante questo ‘fiume di denaro’ abbia inondato le casse dello Stato iracheno, le condizioni in cui attualmente versano servizi e infrastrutture sono deplorevoli.

Secondo  Peter Van Buren, funzionario del Dipartimento di Stato: “La ricostruzione è fallita miseramente. Gli Stati Uniti non sono stati in grado di rimettere in funzione la rete elettrica nazionale né di fornire acqua potabile alla maggior parte della popolazione”.

In base ai dati dell’ Ngo coordination commitee for Iraq (NCCI), gran parte degli iracheni vive con sei ore di elettricità intermittente al giorno. La rete elettrica nazionale non riesce a soddisfare le necessità di una popolazione in continua crescita e condividere un generatore autonomo con i vicini di casa costa troppo per la maggior parte dei cittadini.

Inoltre, la carenza di energia elettrica ha avuto un impatto negativo sulla qualità dell’acqua, rendendo gli impianti di purificazione e fognari operativi solo periodicamente e mettendo così a rischio la salute della popolazione.

Di conseguenza, un iracheno su quattro non ha accesso all’acqua potabile. 

Dal 2003, il livello dei fiumi Tigri ed Eufrate è sceso notevolmente e il collasso del “qanat/karez” (un sistema di acquedotti collegato al nord e est del paese) ha messo in seria difficoltà queste aree.

La dipendenza dalle falde acquifere sotterranee è aumentata, ma senza una rigida regolamentazione la corsa per accaparrarsi queste risorse rischia di portarle ad esaurimento in tempi molto brevi.

Sempre secondo la NCCI, nel 2003 all’Iraq servivano 5 mila nuove scuole e 7 mila avrebbero dovuto essere messe in sicurezza. Attualmente, un quinto della popolazione fra i 10 e i 49 anni è analfabeta, mentre negli anni Ottanta l’Iraq vantava una posizione di primato nella regione per l’alto livello di istruzione dei suoi cittadini. 

Inoltre, scomponendo questo dato per genere, si nota come il problema riguardi soprattutto le donne (il 24% non sa né leggere né scrivere contro l’11% degli uomini).

A dieci anni di distanza dall’invasione americana, le scuole irachene devono affrontare molte difficoltà come per esempio l’assenza di attrezzature e la mancanza di personale qualificato.

Per quanto riguarda la sanità, il tasso di mortalità infantile e materna ha subìto un netto declino, anche se il paese si trova ancora in fondo alla classifica regionale.

Destano allarme la percentuale crescente di bambini che nascono affetti da malformazionicongenite e il notevole aumento dei casi di cancro e leucemia, soprattutto fra i più piccoli, nonché la comparsa di malattie “nuove” per il paese.

Secondo gli esperti, entrambi i fenomeni sono collegati alla contaminazione da uranio impoverito e altri tipi di inquinamento dovuti all’attività militare.

Molti di quei dottori e scienziati iracheni che hanno tentato di indagare su questa possibile correlazione sono stati vittime di censura, minacce e addirittura aggressioni.

 

NESSUN PROGRESSO SUL FRONTE DEI DIRITTI UMANI

A dieci anni dall’inizio dell’occupazione, le violazioni dei diritti umani continuano, soprattutto contro detenuti, giornalisti, attivisti e donne.

Secondo Human Rights Watch, gli arresti extra-giudiziali e la tortura sono pratiche ancora in voga e le forze di sicurezza irachene persistono nel reprimere con estrema violenza ogni forma di dissenso. 

La Ong ha inoltre denunciato l’esistenza di prigioni segrete e il sovraffollamento di quelle ordinarie in cui i prigionieri vivono in condizioni allarmanti, con un accesso molto limitato a cibo e servizi igienici.

Secondo Haifa Zangana, gli abusi sessuali e le minacce di stupro sono ormai pratiche comuni nei centri di detenzione. Su questo fronte anche Amnesty International ha documentato casi in cui i prigionieri sono stati costretti a praticare sesso orale durante gli interrogatori o hanno confessato per paura di ritorsioni sessuali nei confronti dei loro familiari.

In aggiunta, rimane critica anche la situazione dei rifugiati e il governo non ha messo a punto alcun piano per il loro rientro. Dal 2003, un iracheno su cinque ha lasciato la propria abitazione e ha cercato riparo altrove, a volte all’estero, altre all’interno dei confini nazionali.

Secondo l’Organizzazione internazionale per le migrazioni sono meno del 10% quelli che hanno deciso di rientrare, e spesso coloro che lo hanno fatto non hanno ritrovato la propria casa. Gli sfollati interni sono costretti a vivere in sistemazioni abusive senza accesso all’acqua pulita e ai servizi igienici.

Stando alle stime del ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, negli ultimi dieci anni quattro milioni e mezzo di bambini sono rimasti orfani. 

Attualmente sono 600 mila i minori che vivono in strada senza accesso ai servizi essenziali come il cibo e la casa, e 700 sono invece ospitati nei pochi orfanatrofi del paese.

L’Associazione degli psicologi iracheni ha denunciato gli effetti devastanti che l’occupazione ha prodotto sulla salute mentale dei più piccoli, creando notevoli problemi di apprendimento. Fuad Azziz, psicologo, sostiene che “i bambini hanno bisogno di muoversi, leggere, apprendere e giocare ma oggi in Iraq fare cose di questo tipo significa rischiare la vita”.

Inoltre, l’esposizione alla violenza sin dalla più tenera età ha reso molti adolescenti delle ‘reclute modello’ per le milizie armate, come ad esempio quelle affiliate ad al-Qaeda.

Infine, le donne sono un’altra categoria fortemente a rischio. Negli ultimi dieci anni, molte sono rimaste vedove, dopo aver perso i mariti in esplosioni, sparatorie o atti di violenza. Donne estremamente vulnerabili e spesso costrette a prostituirsi per guadagnarsi da vivere. 

Lo scorso aprile il governo iracheno ha varato una legge contro il traffico degli esseri umani, ma le autorità hanno fatto ben poco per metterla in pratica, così come nel caso della legge sulla violenza domestica (entrata in vigore due mesi dopo) che, fra le altre cose, rende illegale le mutilazioni genitali femminili e i matrimoni forzati e fra bambini.

 

L’IRAQ DELLE DONNE 

Sotto Saddam Hussein, la presenza delle donne in politica e all’interno del mondo del lavoro era incoraggiata, ma gli standard di vita della popolazione femminile si sono notevolmente deteriorati a partire dagli anni Novanta e soprattutto in seguito all’occupazione.

Secondo Al-Ali, ricercatrice presso la SOAS, i diritti sociali ed economici della donna e la sua posizione all’interno della società hanno cominciato a peggiorare durante il periodo delle sanzioni (1990-2003), per poi precipitare definitivamente. 

Attualmente la partecipazione delle donne nella sfera pubblica è ostacolata dal clima di insicurezza e dalla precarietà economica in cui vivono per la maggior parte.

E’ soprattutto la violenza a giocare un ruolo fondamentale: gli stupri, i rapimenti e il traffico di esseri umani sono cresciuti esponenzialmente in seguito alla caduta del regime.

Senza contare che durante gli anni Settanta e Ottanta l’Iraq era uno dei paesi arabi più all’avanguardia in materia di diritti femminili (si veda lo Statuto Personale del 1958) mentre con la nuova Costituzione, la religione è tornata ad avere un ruolo di primo piano e l’Islam si è affermato come fondamento della legislazione statale.

Secondo Haifa Zangana, sono tornate in auge pratiche che erano popolari un secolo fa come la Muta’a e la poligamia. La prima come forma di prostituzione socialmente accettata per le donne dei ceti sociali più bassi, la seconda come soluzione al grande numero di vedove.

“La condizione femminile è legata al contesto di insicurezza generale (…), le violazioni dei diritti delle donne fanno parte di tutta quella serie di abusi che ha subìto l’intera popolazione irachena (…), ma le donne devono sopportare un doppio fardello perché sotto l’occupazione hanno perso gran parte della loro libertà”, ha dichiarato Maha Sabria, professoressa di Scienza politica all’Università Al-Nahrain di Baghdad.

Uno dei pochi segnali positivi nell’Iraq post-invasione è rappresentato dalla netta crescita del numero di organizzazioni e campagne per i diritti delle donne all’interno della società civile.

Una delle battaglie più importanti è stata quella per l’introduzione delle quote di genere in Parlamento. Dapprima osteggiate dagli Stati Uniti e da molti leader religiosi iracheni, sono state infine introdotte nella Costituzione provvisoria del 2004.

In seguito alle elezioni del 2005, i seggi occupati dalle parlamentari donne erano il 31,5% del totale, mentre nel 2010 questa percentuale si è leggermente contratta arrivando al 25%.

Tuttavia, la considerevole presenza numerica femminile non si traduce in uno sforzo comune per articolare un’agenda ‘femminista’ o per agire almeno come un gruppo unitario: al contrario, molto spesso i dibattiti più aspri si accendono proprio sulle questioni r lative ai diritti delle donne.

Ciò si spiega in due modi. Primo, con il divario ideologico che separa le parlamentari ‘secolarizzate’ da quelle appartenenti a fazioni politiche d’ispirazione religiosa. Secondo, con la sottomissione delle parlamentari ai leader (che sono tutti uomini e a volte addirittura loro parenti).

Anche se l’introduzione delle quote di genere sta avendo un impatto positivo sulla percezione delle donne nella sfera pubblica, gli ostacoli da affrontare per intraprendere una carriera politica sono ancora numerosi. 

Ad esempio, molte delle candidate alle elezioni politiche del 2005 e 2010 hanno ricevuto minacce di morte, soprattutto dalle milizie islamiste.

 

QUESTIONI DI (IN)SICUREZZA

Nell’Iraq post-invasione, il clima di insicurezza è diventato ‘normalità’ e la violenza, oltre a colpire l’esistenza femminile in modo profondo, continua a scandire la vita di un’intera popolazione.

Secondo l’Iraq Body Count, l’apice è stato raggiunto nel 2006. Tuttavia, per tutto il 2008, l’intensità di incidenti, aggressioni ed esplosioni è stata notevole.

Durante il 2012, l’Iraq Body Count ha registrato 4,568 morti. Questa cifra ha portato il numero totale di decessi (da marzo 2003) fra i 111.047 e i 121.345. Tuttavia, fare stime precise è molto difficile e alcuni osservatori ritengono che i calcoli di questa organizzazione minimizzino la gravità della situazione, suggerendo addirittura che a perdere la vita siano stati un milione di persone.

Il 2012 ha segnato un triste primato: è il primo anno, dal 2009, in cui il numero delle vittime è cresciuto, anche se gli ultimi mesi sono stati relativamente tranquilli.

“Il paese rimane in uno stato di guerra a bassa intensità (…) dove la violenza quotidiana è intervallata da attacchi occasionali su vasta scala mirati a uccidere molte persone in un colpo solo”, si legge nel rapporto.

 

This article has been originally published by: Osservatorio Iraq – Medioriente e Nordafrica