L’Iraq è il futuro del mercato petrolifero?

A 10 anni da quella che molti considerano la ‘guerra del petrolio’, gli Stati Uniti non sono ancora riusciti a imporre né una nuova legge né dei contratti più vantaggiosi per le loro compagnie, tranne che nella regione semi-autonoma del Kurdistan.

 

Nel 2009, quando le compagnie straniere sono rientrate in Iraq, la produzione di greggio è tornata a crescere e il paese è diventato il secondo produttore dell’Opec.

Secondo il blogger Joel Wing, le multinazionali che attualmente operano sul suolo iracheno sono sessanta: 17 hanno firmato contratti col governo di Baghdad, 40 con quello autonomo del Kurdistan e tre (Total, Exxon e Gazprom) con entrambi.

Inoltre, le nazionalità di queste compagnie sono molto variegate. Le ‘asiatiche’ sono le più numerose, e rappresentano il 43% del totale, seguite dalle americane col 28% e dalle europee col 25%.

Ma i contratti siglati dal governo federale iracheno sono formalmente “illegali” in quanto privi dell’approvazione del Parlamento, che è invece necessaria ai sensi della legge sul petrolio del 1967, attualmente ancora in vigore.

 

LA LEGGE SUL PETROLIO

 Dopo l’invasione del 2003, gli Stati Uniti hanno cercato (invano) di far approvare una nuova legge sul petrolio, esercitando enormi pressioni sulle istituzioni politiche irachene, con l’obiettivo di agevolare il ritorno delle multinazionali straniere nel paese.

Nel 2006, il Consiglio dei ministri di Baghdad ha preparato una proposta di legge e la Casa Bianca ha fatto di tutto per caldeggiarne l’approvazione, minacciando sia di tagliare i fondi per la ricostruzione sia di ritirare il proprio sostegno politico al premier Nouri al Maliki.

E per esercitare ancora più pressioni, gli Stati Uniti hanno imposto un ultimatum: settembre 2007.

Ma nel dicembre del 2006, i leader dei sindacati iracheni hanno cominciato ad organizzarsi contro l’approvazione di questo testo che spogliava il Parlamento nazionale dei suoi poteri di controllo sui contratti.

La loro lotta è stata abbracciata da ampi strati della società civile, convinti che le riserve petrolifere debbano essere un bene pubblico destinate alla popolazione locale.

Ben presto, anche molti politici iracheni hanno iniziato a schierarsi con i lavoratori, e al momento del voto in Parlamento la proposta di legge non è passata.

Nel 2009, però, il governo guidato da Maliki ha cominciato a concludere contratti con le multinazionali senza l’approvazione dei deputati, quindi in aperta violazione della legislazione in vigore.

Secondo Greg Muttitt, la mossa del premier va però letta come una ‘falsa’ vittoria per le compagnie petrolifere straniere, dal momento che i contratti sono formalmente illegali e resteranno in piedi solo finché a Baghdad ci sarà un governo ‘amico’.

 

I CONTRATTI PETROLIFERI

 Gli Stati Uniti e le compagnie petrolifere hanno inoltre perso anche sul fronte della tipologia dei contratti perché non hanno ottenuto la cosiddetta ‘produzione condivisa’, e si sono dovuti accontentare di ‘contratti di servizio’, fatta eccezione per il Kurdistan.

In base ai contratti di produzione condivisa, lo Stato rimane proprietario del petrolio mentre la compagnia straniera (o un gruppo) provvede a sborsare tutto il capitale necessario all’esplorazione, la trivellazione e lo sfruttamento del giacimento. I profitti – che per i primi anni servono a recuperare i costi dell’investimento – vengono poi divisi fra le due parti. 

In Iraq le multinazionali devono invece accontentarsi dei ‘contratti di servizio’, in cambio dei quali ricevono una tariffa fissa per ogni barile di greggio, senza alcun tipo di partecipazione alla divisione dei profitti.

Tanto che il New York Times li considera tra gli accordi più svantaggiosi al mondo, sia dal punto di vista dei guadagni sia per l’insicurezza endemica e il pessimo stato delle infrastrutture del paese.

Ed è proprio per questo che molte compagnie straniere si sono rivolte direttamente al più ‘clemente’ governo del Kurdistan.

 

OTTIME PROSPETTIVE?

 La corsa all’oro nero iracheno è incoraggiata dalle previsioni rispetto alla scoperta di nuovi giacimenti. Secondo il ministero del Petrolio, nel 2014 la produzione dovrebbe salire a quota 6,5 milioni di barili al giorno, più che raddopiando la cifra attuale di 2,7 milioni.

Il governo ha addirittura parlato dell’obiettivo di toccare quota 10 milioni entro il 2017, anche se alcuni analisti indipendenti sostengano che sia impossibile.

“Nessun paese è riuscito ad aumentare la produzione tanto quanto l’Iraq sta progettando di fare”, ha tuonato Michael Townshend, presidente della British Petroleum (BP) nell’ufficio di Baghdad.

Ma da quando le multinazionali petrolifere hanno fatto ritorno nel paese (tra cui l’italiana Eni), la corruzione è salita alle stelle: “Due compagnie occidentali sono attualmente sotto inchiesta per aver dato o ricevuto tangenti, il governo iracheno sta pagando una tariffa al barile calcolata in base ad obiettivi di produzione altamente irrealistici […] e i contractor stanno calcando la mano sui costi di trivellazione”, scrive Greg Muttitt.

“Le compagnie straniere che fanno affari senza mazzette sono l’eccezione, non la regola. Nessuno corre il rischio […], perchè all’improvviso il loro progetto potrebbe essere bloccato per questioni burocratiche, minacce o veri e propri atti di violenza”, spiega Hameed Abdullah su al-Mashraq.

Ma nonostante i bassi livelli di trasparenza, l’insicurezza e lo stato deplorevole delle infrastrutture, le grandi multinazionali non sembrano intenzionate a volersene andare. Perchè, come si legge in un documento della BP (riportato da Greg Muttitt), in molti sono convinti che “l’Iraq sia il futuro del mercato petrolifero”.

 

This article has originally been published in: Osservatorio Iraq – Medioriente e Nordafrica

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