Egitto. Libertà di stampa significa democrazia

Le violazioni della libertà di stampa erano una pratica quotidiana sotto il regime di Mubarak e sono proseguite durante l’interregno militare dello SCAF. Morsi ha promesso di voltare pagina, ma i casi dei tanti giornalisti e blogger arrestati o finiti sotto indagine per averlo criticato, sembrano dimostrare il contrario.

 

“Siamo molto preoccupati dall’attuale situazione in Egitto […]. Le autorità devono accettare le critiche della stampa […] altrimenti la situazione continuerà a peggiorare. Sollecitiamo il governo a smettere di molestare i giornalisti e condanniamo fermamente l’uso delle corti militari contro di loro”, ha dichiarato un portavoce della ong Reporter senza frontiere.

 

I CASI

Subito dopo la sua elezione lo scorso giugno, l’attuale presidente ha dichiarato che avrebbe protetto la libertà di stampa, sottolineando però che dai giornalisti si aspettava accuratezza e imparzialità.

A sei mesi dall’inizio del suo mandato, il mondo dell’informazione in Egitto sembra stretto fra la morsa della repressione governativa e un crescente clima di violenza.

Il caso di Muhammad Sabry – giornalista freelance operativo in Sinai – è solo l’ultimo in ordine di tempo ad aver attirato l’attenzione dell’opinione pubblica, sia nazionale che internazionale. Arrestato il 4 gennaio scorso mentre stava girando un documentario per Reuters nei pressi di Rafah,  una volta in carcere non ha potuto né parlare con un avvocato né contattare i familiari.

Un tribunale militare di Ismailia l’ha processato con l’accusa di lavorare contro la sicurezza nazionale e, infine, ne ha deciso il rilascio su cauzione. Il suo caso ha mobilitato ampi strati della società civile e soprattutto il movimento “Contro i Processi Militari”, di cui lo stesso giornalista fa parte.

Da quando Morsi è salito al potere, la Procura egiziana ha avviato una lunga serie di indagini a carico di giornalisti, blogger e presentatori televisivi, accusati di intaccare l’immagine del presidente o di offendere i valori religiosi.

Ad esempio Bassem Youssef, comico e conduttore del programma televisivo el-Barnameg (“Il Programma”), e Abdel Halim Qandil, direttore di Sawt al-Umma (“La voce della Nazione”), sono finiti sotto inchiesta per aver attaccato Morsi. Invece Doaa al-Adl, fumettista presso un quotidiano, è stata indagata per una vignetta giudicata offensiva nei confronti dell’Islam.

Anche alcuni giornali indipendenti come al-Dustour e al-Masry al-Yom sono finiti sotto tiro.

Il primo per un editoriale dai toni particolarmente accesi in cui la Fratellanza era accusata di voler trasformare l’Egitto in un emirato islamico. Il secondo, invece, secondo le dichiarazioni dell’ufficio del Presidente, avrebbe diffuso notizie false, mettendo in pericolo la pace e la sicurezza pubblica.

Lo scorso ottobre una corte di Luxor ha condannato Tawfiq Okacha – proprietario del canale televisivo el-Faraeen (“I Faraoni”) – a 4 mesi di reclusione e al pagamento di una multa. Tawfiq – famoso per la sua opposizione alla Fratellanza – è stato accusato di incitamento alla violenza.

Ma a minacciare la libertà di stampa non c’è soltanto la repressione governativa. I giornalisti egiziani devono fronteggiare un clima di molestie, violenza fisica e intolleranza.

Il 21 novembre scorso la sede di al-Jazeera ha subito un attacco, mentre il 17 dicembre è stata la volta del quotidiano Wafd. In quest’ultimo caso, l’aggressione è stata portata a termine da un gruppo salafita che ha lanciato pietre e cocktail molotov contro l’edificio. Alcuni giornalisti sono rimasti feriti.

Infine, il reporter Al-Hosseini Abu Deif – fotografo per il giornale indipendente el-Fagr – ha perso la vita durante gli scontri dello scorso 6 dicembre. Recatosi sul posto con l’obiettivo di filmare la manifestazione, un proiettile l’ha colpito alla testa, dopo che i sostenitori di Morsi l’avevano attaccato.

A finire nel mirino del governo non sono soltanto i “media classici” ma anche tanti blogger come, ad esempio, il copto Albert Saber Ayyad.

Rilasciato su cauzione lo scorso 17 dicembre, è in attesa di un nuovo verdetto da parte della Corte d’appello. I suoi guai sono cominciati quando un vicino di casa l’ha accusato di “capeggiare” un gruppo a favore dell’ateismo su Facebook. Albert è stato condannato in primo grado a tre anni di carcere per blasfemia con l’accusa di aver  postato alcuni video anti-Islam.

 

LA LIBERTÀ DI STAMPA SOTTO MORSI 

Lo scorso agosto, Morsi ha cancellato l’obbligo di detenzione per i giornalisti sotto inchiesta: in base a questo provvedimento, quando la Procura apre un’indagine l’individuo rimane in libertà fino al processo.

Resta, però, la possibilità di finire in carcere per reati commessi “a mezzo stampa”, come ad esempio la diffamazione. 

Secondo l’ong Reporter senza frontiere, una riforma del codice penale egiziano è necessaria perché, in un paese democratico, per questo tipo di crimini non si può finire in prigione.

L’attuale Presidente ha ereditato alcune strategie di “contenimento” del dissenso dal regime precedente e si è rifiutato di smantellare le principali strutture attraverso cui Mubarak controllava l’informazione. 

Ad esempio, ha mantenuto il ministero dei Media – simbolo della dittatura – mettendoci a capo un membro della Fratellanza, Salah Abdel Maqsud, e giustificando la sua decisione con l’impossibilità di licenziare i migliaia di dipendenti impiegati in questa struttura.

Molti giornalisti, inoltre, hanno denunciato la scelta di porre a capo dei maggiori quotidiani statali direttori inclini al presidente e ai suoi fedelissimi. E’ il caso del redattore di al-Akhbar, Mohammed Hassan el-Banna, accusato – una volta acquisita questa posizione di prestigio – di aver censurato molti editoriali di colleghi giornalisti, critici riguardo all’operato di Morsi.

“Ciò che sta accadendo è molto preoccupante. Abbiamo a che fare con un’organizzazione che non intende avviare un processo di democratizzazione o liberalizzazione della stampa. Tutto ciò che gli interessa è prenderne il controllo”, ha dichiarato Hani Shukrallah, direttore della versione inglese dell’Ahram on-line, riferendosi ai Fratelli Musulmani.

A scatenare le proteste dei media egiziani è stata anche la nuova Costituzione.

Il 23 dicembre scorso, molti operatori del mondo dell’informazione si sono riuniti davanti alla sede del Sindacato dei giornalisti per protestare in silenzio. “No a una Costituzione contro la libertà dei media e il giornalismo” è quanto si leggeva su un gran numero di striscioni.

Il problema principale del nuovo testo è l’assenza di una clausola che vieti la detenzione di chi commette crimini a mezzo stampa. La proposta di inserire una clausola di questo tipo è stata avanzata durante i lavori dell’Assemblea Costituente, ma la maggior parte dei membri l’ha rifiutata. 

Nel testo attuale – ratificato con il referendum dello scorso dicembre –  è inserito un riferimento alla libertà di stampa e di informazione. Inoltre, si dispone che un giornale possa essere chiuso solo per ordine di un tribunale.

D’altro canto però, è prevista la possibilità di censura e sanzione nel caso in cui l’operato di un giornalista leda il principio della ‘sicurezza nazionale’.

Dato che quest’ultimo è passibile di interpretazioni più o meno restrittive, la libertà dei media sembra tutt’altro che solidamente garantita.

La vera battaglia, quindi, si giocherà all’interno della Camera bassa del futuro Parlamento, quando verrà il momento di emendare la legge ordinaria che disciplina il settore dell’informazione.

Sotto Morsi, le principali linee rosse che un giornalista non sembra poter oltrepassare sono tre: la figura del Presidente, l’organizzazione dei Fratelli Musulmani e l’Islam. 

Durante la sua presidenza sono state avviate molte indagini a carico di individui accusati di averlo criticato. Gran parte delle inchieste hanno preso il via da “denunce” presentate dall’ufficio di presidenza e da attivisti islamici.

 

FARE I CONTI CON IL PASSATO: TRA CONTINUITÀ E CAMBIAMENTO

Sotto Mubarak, i media statali erano un prolungamento del governo e avevano il compito di veicolare la propaganda ufficiale del regime. Durante la rivoluzione del 25 gennaio, l’allora Presidente se ne è servito per minimizzare l’entità delle manifestazioni di piazza e instillare il dubbio che fossero manovrate da qualche attore esterno.

Il controllo dei media e, soprattutto, del mezzo televisivo è di estrema importanza, soprattutto in un paese come l’Egitto dove, secondo un sondaggio condotto nel 2011, per l’84% dei cittadini la televisione è stata la prima fonte di notizie durante le proteste.

Secondo una classifica della Freedom House, oggi in Egitto l’informazione è “parzialmente libera”.

Nel paese sono attualmente attive più di 500 testate giornalistiche di vario genere e, in seguito alla rivoluzione del 25 gennaio, questo settore ha registrato un grande fermento con la nascita di tanti nuovi giornali e la diffusione a macchia d’olio del citizen journalism.

Il 2011 è però stato un anno molto difficile per i giornalisti e gli operatori del mondo dell’informazione in generale, dato il compito di riportare gli eventi che hanno portato alla caduta del regime. Pur se abituati a censura e molestie – che erano pratiche comuni sotto Mubarak – i 18 giorni di proteste di piazza li hanno costretti a confrontarsi con nuove sfide.

Si sono verificate morti, aggressioni fisiche, distruzioni di attrezzatura e addirittura casi di molestie sessuali, anche a carico di professionisti stranieri. Chi si è improvvisato giornalista fra gli attivisti è stato bersaglio della violenza delle forze di sicurezza.

Durante l’interregno militare che è seguito alla caduta di Mubarak, lo SCAF ha continuato a negare ai giornalisti e blogger arrestati il diritto a un “processo equo”, rifiutandosi di giudicarli davanti alle Corti civili. Chiunque abbia criticato l’esercito – come del resto anche sotto Mubarak – è stato arrestato e portato in tribunale.

“L’indipendenza dei media è l’unica garanzia su cui possiamo costruire una società davvero democratica”, ha dichiarato Hossam Bahgat, direttore dell’Iniziativa Egiziana per i diritti dell’individuo.

“I media devono essere parte integrante della nostra battaglia per la democratizzazione della società, una battaglia da condurre parallelamente a quella per la democratizzazione del governo”.

 

This article has been originally published by: Osservatorio Iraq – Medioriente e Nordafrica

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