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Egitto. La paura bussa alla porta

Dopo la deposizione di Morsi, una nuova ondata di violenza a sfondo confessionale ha travolto l’Egitto. A lanciare l’allarme è l’organizzazione internazionale Human Rights Watch.

Con un rapporto pubblicato martedì scorso, la Ong ha fatto luce sulla catena di violenti attacchi subìti dalla comunità copta a partire dal 3 luglio 2013.

Con l’uscita di scena dell’ex-presidente, le aggressioni contro i cristiani si sono moltiplicate in tutto il paese, colpendo sei governorati, fra cui Luxor, Marsa Matrouh, Minya, il Sinai settentrionale, Port Said e Qena.

Il bilancio complessivo è di sette morti e undici feriti, tre chiese attaccate (di cui due bruciate) e ventiquattro proprietà private distrutte.

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Egitto. La ‘transizione’ secondo Twitter

Dal 30 giugno scorso, i riflettori dei media internazionali sono tutti puntati sul Cairo. Ma cosa dicono davvero i blogger e i giornalisti egiziani?

 

Il 4 luglio, il giorno dopo la deposizione dell’ex presidente Morsi, il giornalista Hossam Al-Hamalawi twittava: “Nei prossimi giorni sarà necessario camminare in punta dei piedi. Ci troviamo nella stessa situazione in cui ci trovammo nel febbraio del 2011, ma siamo meno euforici, appesantiti dalle preoccupazioni per il futuro”.

Il giorno successivo, quando ormai la violenza fra sostenitori e oppositori di Morsi deflagrava in tutto il paese, l’attivista Rawah Badrawi scriveva: “Tutti devono andare a casa, qualsiasi cosa succeda stanotte è una trappola”.

Poco prima invece, la blogger Zeinobia chiosava: “In conclusione, è finita egiziani contro egiziani, grazie Morsi!”.

Con soli 140 caratteri a disposizione, giovani operatori dell’informazione o semplici attivisti continuano a raccontare la transizione politica minuto per minuto, a colpi di cinguettii, video e foto. Un flusso di notizie ininterrotto che però resta difficile da verificare perché, come ha scritto la stessa blogger Gigi Ibrahim due giorni fa,: “Nessuno sa cosa sta succedendo…troppe voci di corridoio e troppi report non confermati”.

Non a caso a questo proprosito, Quinta Smith ed Eline Kasanwidjojo (ricercatrici dell’Arab West Report) affermano: “Oggi seguire i media ci ha fatto impazzire. Troppi rumors che vengono presentati come fatti. La televisione statale non sta mostrando le proteste pro-Morsi e […] chi fa informazione cerca di polarizzare ulteriormente il paese. […] nell’attuale lotta per il potere, il peso dei media non deve essere sottovalutato. Sono loro a controllare e influenzare l’operato di milioni di persone”.

Ma non è solo la cronaca a trovare spazio in rete. Sul web si aprono vere e proprie discussioni come quelle sulla natura dell’attuale transizione e sul fenomeno degli stupri di gruppo.

 

INQILAB AU IRADAT AL-SHAAB? COLPO DI STATO O VOLONTÀ POPOLARE?

“Certamente si è trattato di un colpo di Stato militare, ma non solo di quello. E’ stato un colpo di Stato accompagnato da una rivolta popolare”, ha twittato Rawya Rageh, giornalista di Al-Jazeera al Cairo, lanciando in rete la prima, nonché fondamentale, questione che ha animato molti dibattiti del post-Morsi.

E se sulla stessa linea Hossam al-Hamalawi spiega: “L’esercito non avrebbe osato intervenire se 30 milioni di egiziani non fossero scesi in piazza a protestare per chiedere la deposizione di Morsi”, d’altro canto Jamal Elshayyal ricorda le ragioni dello schieramento pro-Morsi, sottolineando che “in Egitto, i supporter dei Fratelli Musulmani continuano a tenere in alto gli striscioni con la scritta ‘Dov’è il mio voto?'”.

 

Anche tra i blogger egiziani più famosi non sembra esserci accordo sulla natura e direzione dell’attuale transizione politica. Mentre Zeinobia parla infatti di “colpo di Stato legittimo”, una ‘firma’ del web come Wael Abbas mostra molta meno fiducia nei confronti dell’operato dell’esercito, con Khaled Shaalan che su Jadiliyya accusa invece i media occidentali di fornire una lettura distorta degli avvenimenti egiziani, calcando la mano sull’idea di una polarizzazione della società civile ed etichettando la deposizione di Morsi come un colpo di Stato tout court.

 

Una polemica che è rimbalzata anche su Twitter dove, in un post indirizzato alla CNN, la blogger Gigi Ibrahim sentenzia: “Questo non è un coup, è la nostra rivoluzione”.

 

SE DALLE VIOLENZE SESSUALI CI SI DIFENDE CON UN TWEET

Il web non sembra ignorare neanche l’esplosione del fenomeno delle violenze sessuali contro le manifestanti: in un tweet datato 5 luglio l’attivista Mariam Kirollos dichiarava: “Sapete cos’è ancora più doloroso della violenza di genere e degli stupri di Tahrir? Il fatto che ci siano persone che neghino che questi fatti siano avvenuti”.

 

Ieri invece, in un post genericamente indirizzato ai manifestanti anti-Morsi, la giornalista Amira Salah-Ahmed scriveva: “Sapete di cos’altro ha bisogno la vostra rabbia? Degli attacchi sessuali di gruppo e degli incidenti di stupro che avvengono mentre voi guardate i bei fuochi di artificio di Tahrir. Svegliatevi!”.

 

Molte critiche degli attivisti sono indirizzate contro i partiti politici che hanno organizzato le proteste. In un post di domenica, il ricercatore H.A. Heller accusava: “Vergogna per tutte quelle forze politiche che hanno ispirato le manifestazioni ma non hanno fornito un supporto totale all’Operation Anti-Sexual Harassment per proteggere le donne dalla violenza sessuale”.

 

Tante anche le associazioni nate proprio per combattere questo fenomeno e che usano la rete per coordinare le loro attività, avvertire di potenziali pericoli e diramare comunicati importanti sulla situazione di Piazza Tahrir.

 

In conclusione, anche se spesso appare più che difficile verificare le informazioni che circolano sul web, i social media si confermano uno specchio importante per leggere l’attuale società civile egiziana: plurale, frammentata ma soprattutto in perenne fermento e sempre pronta al dibattito. E in una transizione fluida come questa, la rete e la diffusione del citizen journalism sembrano davvero essenziali per poter osservare quanto accade al di là della riva sud del Mediterraneo.

 

This article has been originally published by: Osservatorio Iraq – Medioriente e Nordafrica

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Egitto, l’intolleranza salafita contro la minoranza sciita

Lo spettro della violenza su base confessionale torna a serpeggiare in Egitto. Questa volta però a finire nel mirino non sono i copti, ma gli sciiti. In quattro hanno perso la vita domenica scorsa vicino al Cairo, vittime di un feroce linciaggio.

 

Scenario delle violenze, il villaggio di Zawyat Abu Musalam (governorato di Giza), dove una folla di uomini, accecati dalla rabbia, ha assediato la casa di un abitante sciita in cui si stava celebrando la caduta della metà dello Sha’ban, la festa religiosa che precede il Ramadan.

All’interno dell’abitazione, circa ventiquattro persone, tra cui il leader spirituale Sheikh Hassan Shehata. E proprio lui sembrava essere l’obiettivo degli assalitori che, dopo aver circondato l’edificio, lo hanno attaccato lanciando pietre e bottiglie molotov.

Secondo diversi testimoni oculari, sul luogo erano presenti sei ufficiali di polizia che si sono mantenuti a debita distanza dall’incidente senza intervenire. In base alla ricostruzione dell’Egyptian Initiative for Personal Rights, a incitare al linciaggio sarebbero stati alcuni leader salafiti presenti al momento dell’attacco.

Dopo alcune ore di assedio, gli aggressori sono riusciti a far crollare alcune parti dell’abitazione, costringendo tutti a uscire. A quel punto alcuni si sono accaniti sullo Sheikh Hassan Shehata, malmenandolo e lasciando a terra privo di vita. Nel tentativo di salvarlo, sono morti anche due dei suoi figli e uno studente.

 

LA REALTÀ LOCALE E IL PANORAMA NAZIONALE

Nel villaggio di Zawyat Abu Musalam, da alcuni mesi la popolazione sciita è vittima di molestie e attacchi. A fomentare la violenza sarebbero soprattutto i leader salafiti locali che definiscono gli sciiti degli “infedeli portatori di dissolutezza”. Numerosi testimoni hanno raccontato che da circa tre settimane la tensione è molto alta e l’incitamento allo scontro si è fatto più pressante, soprattutto nei sermoni della moschea locale.

Secondo Amnesty International, il presidente Morsi ha il dovere di aprire un’indagine per accertare il ruolo svolto dalle forze dell’ordine e dai gruppi ultra-conservatori.

Tuttavia la “questione sciita” in Egitto non può essere ridotta a una diatriba di carattere locale. Episodi di violenza e discriminazione contro questa “minoranza musulmana” si sono verificati negli ultimi anni in tutto il paese.

Come nel novembre del 2012, quando in seguito a una petizione promossa dai movimenti salafiti, ad alcuni sciiti è stato proibito di entrare nella moschea di al-Hussein al Cairo per celebrare l’Ashoura. Ancora prima, nell’ottobre del 2011, le autorità egiziane avevano vietato la registrazione di un partito politico sciita e lo scorso aprile 2013, una studentessa di Assiut avrebbe rischiato l’espulsione dal collegio femminile di al-Azhar dopo essere stata accusata di ‘sciismo’.

 

LE STATISTICHE

In Egitto, le tensioni fra sunniti e sciiti appartengono a un capitolo piuttosto recente della storia del paese, determinato anche dalla presenza di alcuni sheykh salafiti che spingono verso un irrigidimento della comunità locale.

Sebbene non esistano fonti ufficiali, dall’analisi di diversi dati è possibile affermare che gli sciiti costituiscono tra l’1 e il 2% della popolazione egiziana. E se per lungo tempo le due comunità hanno convissuto in armonia (anche perché il sunnismo egiziano ha assorbito alcune influenze sciite), le divisioni confessionali si sono politicizzate sotto Mubarak che descrisse gli sciiti come “più fedeli all’Iran che a qualunque altro Stato di appartenenza”.

 

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La crisi del Sinai: di ostaggi, armi e (presunti) terroristi

L’ultimo capitolo della “saga del Sinai” si è concluso il 22 maggio scorso con il rilascio di sette ufficiali delle forze di sicurezza egiziane. La “crisi degli ostaggi” è dunque rientrata dopo una settimana di intenso braccio di ferro fra il governo centrale e un gruppo ribelle attivo nella penisola.

 

Il 16 maggio scorso sei poliziotti e un soldato sono stati rapiti nei pressi di al-Arish, città nel nord del Sinai, da un gruppo armato jihadista che, in cambio del loro rilascio, ha richiesto la liberazione di sei prigionieri – membri di Tawhid wa al-Jihad – condannati a morte per un attacco contro la polizia del 2011.

Secondo la ricostruzione ufficiale, alcuni leader tribali avrebbero partecipato alle operazioni di mediazione con i rapitori, che mercoledì scorso hanno liberato gli ostaggi a sud di Rafah (al confine con la Striscia di Gaza), senza che le loro richieste fossero accolte e sotto la minaccia di un attacco da parte dell’esercito egiziano.

La “crisi” si è dunque conclusa nel giro di poco meno di una settimana in cui Morsi è stato sottoposto a forti pressioni da parte delle forze armate e dell’opinione pubblica nazionale.

Durante la conferenza stampa che ha seguito la cerimonia di ricevimento degli ostaggi liberati, il presidente ha tessuto le lodi delle forze di sicurezza, sottolineando l’importanza della cooperazione fra militari, polizia e civili.

Inoltre, nel tentativo di “inquadrare” la crisi in un contesto più ampio ha dichiarato: “Questa operazione rappresenta un importante punto di partenza per garantire alla popolazione del Sinai i diritti politici, economici e sociali che gli spettano, e mettere a punto un piano di sviluppo organico per questa regione”, invitando gli abitanti della penisola a deporre le armi.

 

VOCI FUORI DAL CORO

 

Ma l’operato del governo è stato criticato su più fronti, e sulla stampa si è accesa la polemica sull’identità dei rapitori. 

Secondo al-Arabiya, gruppi salafiti jihadisti avrebbero dichiarato a sorpresa (in un comunicato del 21 maggio scorso) la loro estraneità al rapimento, accusando a loro volta la presidenza, il ministero dell’Interno e le forze armate di “inventare accuse” nel tentativo di screditare l’immagine dei ribelli attivi nella penisola.

Inoltre, nello stesso comunicato, hanno messo in guardia l’esercito dall’avviare una “battaglia” contro di loro, precisando che il loro unico bersaglio è Israele, non i soldati egiziani, e sottolineando l’esigenza di fare giustizia per gli abitanti del Sinai finiti in carcere. 

Anche il Fronte di Salvezza Nazionale ha fatto sentire la propria voce sulla questione accusando Morsi e il suo governo di inefficienza in relazione all’amministrazione del Sinai e dichiarando il proprio sostegno a una campagna contro i “terroristi” presenti nella penisola. 

“Il presidente deve considerare con estrema serietà il diritto dell’opinione pubblica a conoscere dettagliatamente la situazione sul campo e lo stato delle cellule terroristiche e criminali attive all’interno dei confini egiziani”, hanno dichiarato i partiti di opposizione.

Infine, su al-Fagr, il maggiore generale Abdul Rafaa Darwish (fra i fondatori del  partito Volontà e Costruzione) ha puntato il dito contro Hamas, evidenziando le responsabilità dell’organizzazione palestinese in relazione al rapimento dei sette ufficiali egiziani, attraverso i suoi “tentacoli” nella penisola. 

In questo clima di confusione e incertezza, un dato sembra però emergere piuttosto chiaramente: la crisi degli ostaggi della scorsa settimana rappresenta solo la punta dell’iceberg. 

La presenza di numerosi gruppi armati nella penisola, il continuo traffico illegale di armi da Libia e Sudan, e l’odio radicato della popolazione locale per il governo centrale: sono questi i veri nodi che il presidente Morsi dovrà sciogliere, per “prevenire” la riapertura di nuovi fronti di crisi nazionale.

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Egitto. Il ritorno dei militari?

A due anni dalla rivoluzione del 25 gennaio 2011, un gruppo di veterani dell’esercito ha fondato “volontà e costruzione”, un nuovo partito politico. Deliberatamente schierato contro Morsi, si propone di risanare radicalmente il paese strizzando l’occhio ad un potenziale intervento dei militari.

 

‘Siamo scesi in campo per cercare di arrestare il declino a cui l’Egitto sta andando incontro […] perché abbiamo capito che le manifestazioni, le apparizioni televisive e le dichiarazioni sui giornali non sono sufficienti a salvare il paese’, ha dichiarato il generale Muhammed Okasha.

Il partito è nato ufficialmente lo scorso marzo dall’idea di cinque ufficiali dell’esercito in pensione, stanchi – a loro dire – di assistere al continuo deterioramento della situazione politica ed economica.
Già eroi della guerra dello Yom Kippur e supporter attivi delle manifestazioni contro Mubarak, hanno deciso da più di un anno di dare vita a una loro formazione politica con l’obiettivo di farla diventare la prima del paese.
Infatti, ‘dopo la rivoluzione non è cambiato nulla: i poveri continuano a mangiare spazzatura e il ceto medio è privo di diritti. Da quando i Fratelli Musulmani sono saliti al potere, la situazione è peggiorata in modo pericoloso’, ha dichiarato uno dei fondatori, il generale Abdul Rafa’a Darwish, ai microfoni di al-masry al-youm.
Sul piano teorico, i membri di ‘volontà e costruzione’ si propongono di creare un partito fortemente inclusivo che lotti per i diritti delle fasce più deboli della società, come i giovani, le donne e i copti.
Su quello pratico invece hanno un piano piuttosto elaborato che prevede la rimozione di Morsi attraverso l’intervento dell’esercito e la temporanea consegna del potere dapprima (per sessanta giorni) al vertice dell’Alta corte costituzionale e in seguito a un comitato presidenziale composto da cinque membri (due economisti, un rappresentate dell’università islamica al-Azhar, uno della chiesa copta e un militare).
Secondo il loro ‘progetto di salvataggio del paese’, la Costituzione andrebbe riscritta sulla base dei principi della carta del 1971 e della dichiarazione costituzionale del marzo 2011, mentre la transizione servirebbe ad organizzare nuove elezioni presidenziali e parlamentari.
“Daremo il nostro supporto a un’iniziativa militare (per rimuovere Morsi) […] esclusivamente volta a proteggere il paese, non a governarlo di nuovo”, ha messo in chiaro il generale Muhammad Okasha.
Ma non tutti i membri sembrano completamente d’accordo su questo punto, e alcuni sottolineano che nella fase attuale un ‘colpo di Stato’ dei generali sarebbe percepito in maniera negativa dalla comunità internazionale e potrebbe addirittura aprire la porta all’intervento occidentale nel paese.
“Nessuno rimuoverà nessuno” ha dichiarato il capo delle forze armate Abdul Fatah Al-Sisi sabato scorso, sottolineando che la risposta all’attuale crisi politica non sta nelle armi ma nelle urne.
Secondo al-Monitor, lo scarso consenso di cui gode attualmente la presidenza Morsi rappresenterebbe un’occasione imperdibile per ‘volontà e costruzione’ a livello elettorale, soprattutto se il partito sarà in grado di ‘capitalizzare’ sulla popolarità e la fama delle forze armate con cui il legame è molto forte.
“La nostra relazione con l’esercito è cristallina, noi siamo ‘figli’ di questa istituzione che è fra le più importanti del paese. Ma questo non significa che i militari ci supportino direttamente perché noi siamo un partito politico ‘civile’ al servizio della società, anche se rispettiamo in pieno il ruolo e la storia delle forze armate”, ha dichiarato uno dei fondatori.
MORSI E L’ESERCITO
In un paese dove il primo presidente civile è stato eletto dopo più di mezzo secolo di storia repubblicana, l’esercito conserva un peso enorme nella vita economica e politica.
Per chiunque si appresti a guidare la transizione (e a fare delle riforme), lo scontro con quest’istituzione è inevitabile.  
Dopo la salita al potere, Morsi ha cercato in ogni modo di ‘accontentare’ le forze armate,  promuovendo una nuova costituzione che ne garantisse l’autonomia e i privilegi.
Per esempio, ha assegnato la carica di ministro della difesa a un militare, stabilendo che il budget dell’esercito non passi più per il parlamento ma venga approvato direttamente dal Consiglio nazionale della difesa (supervisore, tra l’altro, di tutti i rapporti finanziari fra forze armate e gli Stati Uniti).
Ma nonostante questa politica di compensazione e compromesso, non tutti nell’esercito sembrano ‘soddisfatti’ dalle politiche del nuovo presidente.
E la nascita di un partito come “volontà e costruzione” potrebbe essere un segnale del malcontento che serpeggia in questi ambienti.

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Egitto. Per il rilascio di un’insegnante accusata di blasfemia

“L’insegnante copta accusata di ‘blasfemia’ deve essere immediatamente rilasciata e il procedimento a suo carico interrotto, prima che l’imputata si presenti davanti alla corte sabato prossimo”. Parola di Amnesty International.

di Amnesty International – traduzione a cura di Valentina Marconi

 

La 24enne Dimyana Obeid Al Nour è in prigione dall’8 maggio, quando si è recata nell’ufficio del procuratore di Luxor, per ‘blasfemia’.

 

La procedura giudiziaria a suo carico è stata avviata sulla base di un reclamo presentato dai genitori di tre dei suoi studenti, che l’accusano di aver insultato l’Islam e il profeta Muhammed durante una lezione.

 

Secondo la loro ricostruzione, l’incidente sarebbe avvenuto nella scuola primaria di Sheikh Sultan a Tout, nel governorato di Luxor, il giorno 8 aprile, durante l’ora di religione. Dimyana Obeid Al Nour ha insegnato in tre scuole a Luxor dall’inizio dell’anno.

 

“E’ vergognoso che un insegnante sia finita in prigione per il contenuto di una sua lezione. Se avesse commesso degli errori di natura professionale o si fosse ‘allontanata’ dal curriculum scolastico stabilito, sarebbe bastato un procedimento interno”, dichiara Hassiba Hadj Sahraoui, vice direttore del programma di Amnesty per il Medio Oriente e il Nord Africa.

 

“Le autorità devono immediatamente rilasciare Dimyana Obeid Al Nour e far decadere le accuse false sollevate contro di lei”.

 

Secondo le informazioni in possesso di Amnesty International, alcuni studenti hanno dichiarato che Dimyana Obeid Al Nour avrebbe affermato di ‘amare padre Shenouda’, il defunto patriarca della Chiesa ortodossa egiziana, e si sarebbe toccata il ginocchio o lo stomaco mentre parlava del profeta Muhammed in classe.

 

La donna ha negato le accuse, asserendo che si è attenuta al curriculum scolastico.

 

In seguito alle presunte lamentele di alcuni genitori, sembra che la scuola e il dipartimento dell’Istruzione abbiano aperto delle inchieste interne e a Dimyana Obeid Abd Al Nour è stato detto di astenersi dall’insegnare nelle scuole, fino alla conclusione delle indagini a suo carico.

 

Sino al suo arresto, ha continuato ad andare al dipartimento e a ricevere uno stipendio.

 

Negli ultimi mesi, Amnesty International ha ricevuto molte denunce da parte di persone accusate e condannate per blasfemia in Egitto. In alcuni casi, ad essere incriminati sono stati blogger e operatori del settore dell’informazione le cui idee sono state ritenute offensive.

 

Il 25 gennaio, un tribunale del Cairo ha confermato la sentenza di una corte di grado inferiore a carico di un altro copto, Alber Saber Ayad, condannandolo a 3 anni di prigione per blasfemia, per alcuni video e altro materiale postato in rete che la corte ha giudicato ‘oltraggiosi’.

 

In altri casi, soprattutto nell’Alto Egitto, le accuse di blasfemia sono state sollevate contro cittadini copti, fra cui molti insegnanti.

 

L’11 maggio, un altro copto dovrà comparire davanti ad una corte ad Assiut per rispondere dell’accusa di ‘diffamazione della religione’, presumibilmente sulla base di una conversazione avuta con un gruppo di musulmani che l’hanno in seguito incolpato di aver insultato l’Islam.

 

In molti casi, Amnesty International ha chiesto alle autorità egiziane di non perseguire penalmente gli individui sulla base delle leggi contro la blasfemia che criminalizzano le critiche o gli insulti al credo religioso.

 

“Esprimere un’opinione in relazione alla religione non è reato, sia che si tratti della propria o di quella di qualcun altro. Qualsiasi legge volta ad impedire l’espressione del proprio pensiero su questo tema, viola il principio della libertà di espressione ed è in contrapposizione agli obblighi internazionali sottoscritti dall’Egitto nel quadro della Convenzione Internazionale sui Diritti Civili e Politici”, ha dichiarato Hassiba Hadj Sahraoui.

 

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Egitto. Sinai: la spina nel fianco del Cairo

Nodo geopolitico strategico, ma area a lungo esclusa dalle politiche per lo sviluppo, il Sinai è oggi crocevia di traffici illegali di ogni tipo e forma, nonché ‘base’ di numerosi gruppi armati.

 

La presenza di gruppi armati in Sinai non è una novità e gli attacchi terroristici nella penisola erano frequenti già sotto il regime di Mubarak. Nell’ottobre del 2004, per esempio, ad essere colpite furono Taba e Nuweiba (dove una serie di esplosioni uccisero 34 persone e ne ferirono 71), mentre nel luglio dell’anno successivo finì nel mirino dei terroristi la celebre località turistica di Sharm al-Sheikh.
Gli obiettivi militari dei gruppi armati di stanza nella penisola sono molteplici: dalle stazioni di polizia ai gasdotti del sottosuolo, passando per i militari egiziani e israeliani posizionati lungo la linea del confine.
Ma secondo un rapporto di Reliefweb, mappare con precisione l’universo di guerriglieri attivi nella penisola è impossibile e, a parte qualche nome ricorrente, le informazioni relative al numero e alla loro organizzazione non sono disponibili.
Sembra tuttavia abbastanza chiaro che, dopo la rivoluzione del 25 gennaio 2011, il Sinai abbia assistito a una vera e propria proliferazione di ‘organizzazioni’, sia in virtù del parziale ritiro delle forze armate egiziane dal nord sia per il clima di anarchia e confusione che sta ormai dilagando un po’ in tutto il paese.
Va poi sottolineato che in base ad alcune ricostruzioni, non tutti i gruppi armati sarebbero egiziani e molti guerriglieri arriverebbero da altri paesi mediorientali come la Palestina, l’Iraq e lo Yemen. 
Inoltre, i contatti fra i gruppi armati e la popolazione locale parrebbero piuttosto stretti e, in base ad alcune fonti, le nuove leve proverrebbero proprio dalle fila dei membri più giovani della comunità beduina.
Per la stampa egiziana e straniera, le ‘armate del Sinai’ abbracciano un’interpretazione radicale dell’Islam, differenziandosi però dai tanti gruppi salafiti attivi nella penisola che rifiutano la violenza come arma politica e si impegnano nel sociale.
Al contrario, queste organizzazioni si addestrano in veri e propri campi e sarebbero sostenute dal continuo traffico di armi e uomini, in entrata e in uscita, da e verso la Striscia di Gaza, nonché dal presunto appoggio di gruppi o Stati stranieri.
Da un’analisi incrociata di fonti diverse, è possibile identificare un elenco di nomi attribuiti ad alcuni dei gruppi. Fra questi, Ansar bayt al maqdis (I protettori di Gerusalemme), Jaish al-Islam (l’Esercito dell’Islam), Takfir wa al-hijra (Empietà ed esodo), al-Tawhid wa al-Jihad (Monoteismo e Jihad).
L’IDENTIKIT DEI RIBELLI
Mentre alcuni gruppi sono nati nella Striscia di Gaza e penetrati in Sinai solo in un secondo momento, altri sono invece originari dell’Egitto.
Va inoltre evidenziata un’ulteriore distinzione tra chi ha una ‘carriera’ di lunga data alle spalle – come per esempio Takfir wa al-Hijra, fondato negli anni ’60 da un offshot dei Fratelli Musulmani – e chi è  comparso solo dopo la rivoluzione egiziana, ma è già molto conosciuto soprattutto in rete.
Molte di queste organizzazioni pubblicano i propri video su Youtube, spiegando al pubblico del web i principi e gli obiettivi della loro missione.
Mentre alcuni analisti minimizzano la loro pericolosità, altri sostengono che la loro presenza abbia aggravato la situazione di instabilità politica e insicurezza in cui il Sinai versava da anni.
“L’espressione ‘gruppi armati’ non descrive con precisione la situazione in Sinai, perché essere armati rientra negli usi e costumi della società locale, perciò la presenza di armamenti in questa parte del paese non deve destare preoccupazione, anche in relazione ai cosiddetti gruppi islamisti”, ha dichiarato un attivista ai microfoni di Al-masry al-youm.
Altri invece la pensano diversamente, come Samir Ghattas di al-Ahram on-line che, sottolineando l’urgenza della situazione, scrive: “Non è più possibile negare la presenza di gruppi di matrice salafita jihadista in Sinai”.
“Gruppi che dispongono di circa 1.600-2.000 membri ben armati e addestrati, e che hanno portato a termine più di 50 attacchi dall’inizio della rivoluzione del 2011, colpendo stazioni di polizia, posti di blocco dell’esercito e stazioni israeliane lungo il confine”.
Anche Tel Aviv guarda con preoccupazione alla penisola che la separa dall’Egitto, definendola un ‘santuario del terrorismo’. E nonostante le misure di sicurezza messe in campo per proteggere il proprio confine, alcuni gruppi armati sono riusciti a portare a termine diversi attacchi contro i militari israeliani.
LA RISPOSTA DI MORSI
Subito dopo l’elezione del primo islamista alla presidenza egiziana, il Sinai è tornato sulle copertine della stampa locale e internazionale per l’attacco dell’agosto scorso, in cui hanno perso la vita 15 soldati egiziani (azione poi rivendicata dal gruppo Takfir wa al-Hijra).
Evento che ha spinto Morsi a dare il via alla cosiddetta ‘Operazione Aquila’, con lo scopo di ‘fare piazza pulita delle presunte cellule terroristiche di stanza nella penisola’. 
In base alle dichiarazioni del governo centrale, nel quadro di questa iniziativa sarebbero stati distrutti molti dei tunnel di collegamento con la Striscia di Gaza e più di 30 presunti terroristi sarebbero finiti in manette.
Un’operazione che tra l’altro è ancora in corso, anche se la sua intensità è diminuita. 
Ma pensare di risolvere la questione della proliferazione di armi e gruppi armati usando ancora una volta la violenza (come ai tempi di Mubarak) sembra essere solo un’illusione, una tattica che già in passato si è dimostrata quanto meno fallimentare se non addirittura dannosa.

This article has been originally published by: Osservatorio Iraq – Medioriente e Nordafrica

Egitto. Tutti pazzi per le armi libiche

Dopo la caduta di Gheddafi, la Libia è diventata una fonte di armamenti a cui attingono illegalmente molti attori della regione. E l’Egitto è uno dei principali ‘destinatari’ di questo traffico.

 

“Armi provenienti dalla Libia sono state intercettate in Mali, Cisgiordania e Siria durante l’attuale guerra civile”, scriveva il giornalista Luiz Sanchez, in un articolo apparso sul Daily News Egypt il 10 aprile scorso.

 

Una notizia non-notizia se si considera che a fare luce sui contorni di questo traffico è stato un rapporto redatto da un gruppo di esperti del consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite a metà febbraio.

 

“La proliferazione di armi dalla Libia continua a un passo allarmante e si è diffusa in nuovi territori come l’Africa Occidentale, paesi del Mashreq e potenzialmente anche nel Corno d’Africa”, si legge nel dossier stilato dall’organizzazione internazionale.

 

Secondo il documento, dopo la caduta di Gheddafi gran parte degli armamenti sarebbe rimasta in mano a civili e gruppi di ribelli, con la conseguenza che tutt’ora il governo fatica a ripristinare il controllo sui confini nazionali.

 

Flussi illegali che avrebbero alimentato molti altri teatri di guerra nei paesi limitrofi, riempiendo gli arsenali di numerosi attori non governativi stranieri. E che nell’ultimo anno – sottolineano le Nazioni Unite – hanno raggiunto volumi più che significativi, dirigendosi in maniera preferenziale verso due aree geografiche: l’Egitto e il Sahel.

 

Per gli esperti, l’Egitto assolverebbe alla duplice funzione di paese di transito (per la Striscia di Gaza) e destinatario finale.  

 

Tuttavia, recentemente, una parte del commercio avrebbe trovato un nuovo e importante acquirente nei gruppi armati del Sinai: “Dall’inizio del 2012, la quantità di armi libiche presenti è cresciuta in maniera significativa, […] molti casi (soprattutto sequestri) hanno avuto una grande risonanza nei media locali”, si legge nel rapporto dell’Onu.

 

Ragione per cui a maggio scorso le Nazioni Unite avevano inviato una lettera al Cairo per chiedere alle autorità nazionali il rilascio di nuovi dati relativi a questo fenomeno, ottenendo che all’inizio del 2013, in un incontro fra gli esperti dell’organizzazione internazionale e e alcuni esponenti del governo egiziano, fosse stilata una lista completa (mai resa pubblica) di tutte le ‘armi di provenienza libica’ intercettate nel paese.

 

Secondo la testimonianza delle autorità competenti, gli armamenti continuano ad arrivare sia attraverso la fascia costiera settentrionale sia tramite il confine meridionale. 

 

Una ‘rotta terrestre’ a cui se ne aggiunge una di mare, che collega il porto di Bengazi alla città marittima di Marsa Matruh, da dove la merce viene trasportata su gomma in tutto il resto dell’Egitto.

 

 

Nuovi sviluppi di un vecchio fenomeno

 

Nonostante il nuovo rapporto delle Nazioni Unite monitori gli sviluppi più recenti del traffico di armi dalla Libia, i media egiziani ne parlano già da molti mesi.

 

Secondo Ashraf Abu al-Hul dell’Ahram online, fermare il contrabbando delle armi libiche è difficile per la lunghezza del confine fra i due paesi (che lo rende poco controllabile), ma anche per l’abilità dei trafficanti, che conoscono perfettamente il territorio.

 

In base alla ricostruzione del giornalista egiziano, il traffico si svolge a notte fonda, e i mezzi di trasporto variano seguendo le esigenze: dalla macchina al dorso di un animale, fino alle stesse spalle del contrabbandiere. 

 

“La maggior parte delle armi  che arrivano in Egitto finisce in ‘magazzini segreti’ situati principalmente in due regioni (Sidi Barrani e el-Negala), per poi arrivare agli acquirenti finali in Alto Egitto, a Gaza o ultimamente anche in Siria”, ha dichiarato Muhammed Khater (maggiore e ingegnere dell’esercito).

 

“Inoltre ci sono dei magazzini importanti situati anche in altre zone del paese, come a Wadi al-Natrun e a sud e nord della penisola del Sinai, in cui le armi arrivano anche dal mare”, ha concluso il militare.

 

E proprio la penisola del Sinai sembra giocare un ruolo fondamentale nel quadro del traffico di armi: sia come snodo principale verso la Striscia di Gaza che come destinazione finale.

 

Sebbene in Egitto il mercato delle armi prosperasse già sotto Mubarak, quando erano addirittura le forze di sicurezza a gestire i traffici, dopo la rivoluzione del gennaio 2011 sono stati i beduini ad assumere il controllo di questo ricco commercio.

 

Fino a poco tempo fa la maggior parte delle armi finiva infatti nelle mani di gruppi armati non meglio identificati che operavano nella Striscia di Gaza, e che avevano degli ‘agenti’ di riferimento in Sinai.

 

Di recente invece si è sviluppato un ‘canale parallelo’ dovuto alla presenza di gruppi armati di stanza nella penisola, intenzionati a costruire dei veri e propri arsenali.

 

Gruppi che in passato sono stati piuttosto marginali, ma che dopo la caduta di Mubarak hanno trovato terreno fertile, in parte anche grazie al sentimento di ostilità che molti abitanti del Sinai nutrono nei confronti del governo centrale.

 

This article has been originally published by: Osservatorio Iraq – Medioriente e Nordafrica