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Egitto. La violenza di genere, tra mito e realtà

La violenza di genere continua ad essere una pratica socialmente accettata che rappresenta un filo rosso capace di attraversare epoche, culture e Stati. E’ così in Egitto, dove le cose stanno cambiando grazie al lavoro dei gruppi volontari nati in questi anni, che insistono: la Storia appartiene anche alle donne.

Lo scorso settembre, la sedicenne Eman Mustafa stava camminando con un’amica nel villaggio di Arab Al Kablat ad Assiut, quando un uomo le ha palpeggiato il seno. La ragazza si è girata verso di lui e gli ha sputato in faccia. Lui l’ha uccisa con un colpo di fucile, facendole pagare a caro prezzo il suo coraggio.

La morte di Eman Mustafa ha aperto gli occhi a tutti quelli che affermano che la violenza sessuale è un problema confinato alle città. Grazie al lavoro delle organizzazioni per i diritti umani e ai gruppi di attivisti, l’assassino della giovane è stato condannato all’ergastolo lo scorso giugno.

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Egitto. Divide et impera, a sfondo confessionale

Dopo una serie di nuovi scontri, la tensione fra copti e musulmani è tornata a salire. E qualcuno già parla di guerra civile.

Le violenze interconfessionali sono ripartite da Khosous (piccola località a nord del Cairo) dove hanno perso la vita un musulmano e quattro copti*.
Alcuni blogger sostengono che a dare il via agli scontri sarebbe stato un banale incidente: forse una scritta oppure un disegno sul muro di un edificio religioso.
Una piccola scintilla che è bastata a far riesplodere l’odio all’interno di una comunità locale dove la tensione era già alta.
Due giorni dopo, gli scontri si sono riaccesi nella capitale (davanti alla cattedrale di San Marco), proprio dopo i funerali dei quattro cittadini copti morti a Khosous.
Questa volta, dopo la cerimonia, la gente ha intonato slogan contro il regime e soprattutto contro il presidente Morsi. Secondo alcune ricostruzioni sarebbero intervenute le forze di sicurezza, attaccando l’edificio religioso.
Tuttavia ricostruire con precisione le dinamiche dei due incidenti è quasi impossibile perché sul web dilagano numerosissime versioni dell’accaduto, versioni anche diametralmente opposte.
Due elementi sembrano finora incontrovertibili: una situazione d’instabilità politica e insicurezza ormai divenute quasi insostenibili ed un governo che non sembra riuscire a frenare il precipitarsi degli eventi.
CITTADINI DI SERIE B
Secondo il giornalista Ulf Laessing, durante la presidenza Morsi la violenza su base confessionale è aumentata e i cristiani hanno denunciato un numero crescente di attacchi contro le loro chiese.
Solo negli ultimi mesi, se ne sarebbero verificati cinque: da Shobra a Fayoum, passando per Aswan e Beni Suef.
Con la salita al potere del governo guidato dalla Fratellanza, molti membri della comunità copta hanno deciso di lasciare il paese trasferendosi soprattutto negli Stati Uniti.
Ma gli scontri interconfessionali non sono una novità dell’ultimo anno e rappresentano da sempre una costante della realtà politica egiziana già sotto Sadat e Mubarak, così come le discriminazioni contro i cristiani, sia sul piano legislativo sia nell’ambiente lavorativo.
Costruire o riparare una chiesa, per esempio, comporta enormi difficoltà in termini di permessi e autorizzazioni, mentre l’accesso ad alcune cariche pubbliche di alto profilo è, nei fatti, quasi del tutto interdetto ai membri della comunità copta.
DIVIDE ET IMPERA
Secondo la giornalista Yasmine Nagaty, Morsi – così come Mubarak – usa la violenza interconfessionale per ‘distrarre’ i cittadini egiziani dalla gravissima crisi socio-economica che sta attraversando il paese.
Seguendo quella che è ormai una consolidata strategia, lo Stato si fa promotore delle divisioni fra copti e musulmani divenendo, di conseguenza, complice della brutalità che ne scaturisce. 
A volte, come nel caso della chiesa andata in fiamme nel dicembre del 2010, le istituzioni sembrerebbero essere direttamente coinvolte nei fatti di sangue.
“Poiché Mubarak e Morsi hanno insistito su una politica economica che ha marginalizzato ampi strati della società, per questi regimi è diventato necessario tenere impegnati i cittadini in scontri di distrazione per evitare una mobilitazione sulla base dei problemi economici del paese, come quella del gennaio 2011”, ha dichiarato la giornalista.
La tattica del divide et impera dello Stato si è giocata anche sul piano legislativo: l’opinionista Mohammed Kheir spiega come nella prima Carta costituzionale egiziana l’articolo che definiva l’Islam come “religione di Stato” compariva in fondo alla lista. Poi però, con il passare degli anni, sarebbe stato progressivamente spostato verso l’alto, sino a finire in seconda posizione.
Infine, nella nuova Costituzione, la posta in gioco sarebbe aumentata ulteriormente, con l’inserimento del paragrafo n.220, che specifica l’orientamento sunnita dell’ordinamento nazionale.
In questo quadro legislativo, ogni altra identità religiosa costituisce per se un’accusa e i copti sono relegati ancora una volta al ruolo di cittadini di serie b.
A due anni dalla rivoluzione del gennaio 2011, l’establishment politico riconferma il suo rifiuto per un modello di Stato moderno e democratico, dove le gerarchie dettate dalla religione siano soppiantate da una versione liberale del concetto di cittadinanza.
Ed il ruolo che la comunità copta ricoprirà nel nuovo sistema politico rimane uno dei grandi interrogativi della ‘transizione’ attuale.
*I COPTI RAPPRESENTANO IL 10% PER CENTO DELLA POPOLAZIONE IN EGITTO E SONO LA MINORANZA CRISTIANA PIÙ NUMEROSA DI TUTTO IL MEDIO ORIENTE. SI CONCENTRANO SOPRATTUTTO AL CAIRO, ALESSANDRIA E NELLE CITTÀ DELL’EGITTO MERIDIONALE.
This article was originally published by: Osservatorio Iraq – Medioriente e Nordafrica.