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Egitto. Per il rilascio di un’insegnante accusata di blasfemia

“L’insegnante copta accusata di ‘blasfemia’ deve essere immediatamente rilasciata e il procedimento a suo carico interrotto, prima che l’imputata si presenti davanti alla corte sabato prossimo”. Parola di Amnesty International.

di Amnesty International – traduzione a cura di Valentina Marconi

 

La 24enne Dimyana Obeid Al Nour è in prigione dall’8 maggio, quando si è recata nell’ufficio del procuratore di Luxor, per ‘blasfemia’.

 

La procedura giudiziaria a suo carico è stata avviata sulla base di un reclamo presentato dai genitori di tre dei suoi studenti, che l’accusano di aver insultato l’Islam e il profeta Muhammed durante una lezione.

 

Secondo la loro ricostruzione, l’incidente sarebbe avvenuto nella scuola primaria di Sheikh Sultan a Tout, nel governorato di Luxor, il giorno 8 aprile, durante l’ora di religione. Dimyana Obeid Al Nour ha insegnato in tre scuole a Luxor dall’inizio dell’anno.

 

“E’ vergognoso che un insegnante sia finita in prigione per il contenuto di una sua lezione. Se avesse commesso degli errori di natura professionale o si fosse ‘allontanata’ dal curriculum scolastico stabilito, sarebbe bastato un procedimento interno”, dichiara Hassiba Hadj Sahraoui, vice direttore del programma di Amnesty per il Medio Oriente e il Nord Africa.

 

“Le autorità devono immediatamente rilasciare Dimyana Obeid Al Nour e far decadere le accuse false sollevate contro di lei”.

 

Secondo le informazioni in possesso di Amnesty International, alcuni studenti hanno dichiarato che Dimyana Obeid Al Nour avrebbe affermato di ‘amare padre Shenouda’, il defunto patriarca della Chiesa ortodossa egiziana, e si sarebbe toccata il ginocchio o lo stomaco mentre parlava del profeta Muhammed in classe.

 

La donna ha negato le accuse, asserendo che si è attenuta al curriculum scolastico.

 

In seguito alle presunte lamentele di alcuni genitori, sembra che la scuola e il dipartimento dell’Istruzione abbiano aperto delle inchieste interne e a Dimyana Obeid Abd Al Nour è stato detto di astenersi dall’insegnare nelle scuole, fino alla conclusione delle indagini a suo carico.

 

Sino al suo arresto, ha continuato ad andare al dipartimento e a ricevere uno stipendio.

 

Negli ultimi mesi, Amnesty International ha ricevuto molte denunce da parte di persone accusate e condannate per blasfemia in Egitto. In alcuni casi, ad essere incriminati sono stati blogger e operatori del settore dell’informazione le cui idee sono state ritenute offensive.

 

Il 25 gennaio, un tribunale del Cairo ha confermato la sentenza di una corte di grado inferiore a carico di un altro copto, Alber Saber Ayad, condannandolo a 3 anni di prigione per blasfemia, per alcuni video e altro materiale postato in rete che la corte ha giudicato ‘oltraggiosi’.

 

In altri casi, soprattutto nell’Alto Egitto, le accuse di blasfemia sono state sollevate contro cittadini copti, fra cui molti insegnanti.

 

L’11 maggio, un altro copto dovrà comparire davanti ad una corte ad Assiut per rispondere dell’accusa di ‘diffamazione della religione’, presumibilmente sulla base di una conversazione avuta con un gruppo di musulmani che l’hanno in seguito incolpato di aver insultato l’Islam.

 

In molti casi, Amnesty International ha chiesto alle autorità egiziane di non perseguire penalmente gli individui sulla base delle leggi contro la blasfemia che criminalizzano le critiche o gli insulti al credo religioso.

 

“Esprimere un’opinione in relazione alla religione non è reato, sia che si tratti della propria o di quella di qualcun altro. Qualsiasi legge volta ad impedire l’espressione del proprio pensiero su questo tema, viola il principio della libertà di espressione ed è in contrapposizione agli obblighi internazionali sottoscritti dall’Egitto nel quadro della Convenzione Internazionale sui Diritti Civili e Politici”, ha dichiarato Hassiba Hadj Sahraoui.

 

This translation has been originally published by: Osservatorio Iraq – Medioriente e Nordafrica

Focus Egitto/ Amnesty chiede giustizia per i giovani di Piazza Tahrir

A due anni dalla rivoluzione del 25 gennaio un nuovo rapporto di Amnesty International denuncia l’impunità delle forze dell’ordine per le violazioni compiute nel 2011. Violazioni che continuano anche dopo la caduta di Mubarak.

 

“Nessun alto funzionario o agente delle forze di sicurezza è stato condannato o punito adeguatamente per aver ucciso o ferito i manifestanti”, si legge nel rapporto, che mostra le immagini dei tanti giovani caduti nel corso degli scontri e che ancora non hanno giustizia.

 

MORSI, E L’ASSENZA DI CAMBIAMENTO

Durante la sua campagna elettorale, Morsi avea promesso che avrebbe punito i colpevoli. Più volte, nei suoi discorsi, ha ribadito la volontà di onorare la memoria dei martiri della Primavera egiziana.

All’inizio del mandato, l’attuale presidente ha istituito una commissione investigativa con l’obiettivo di indagare la violenza perpetrata dalle forze dell’ordine durante i 18 giorni di scontri che hanno portato alla caduta del regime di Mubarak.

Il rapporto della commissione gli è stato consegnato lo scorso 8 gennaio, ma il contenuto non è ancora stato reso pubblico né condiviso nella sua interezza con i familiari delle vittime.

Per Amnesty, cosi facendo, il leader della Fratellanza sta violando il diritto internazionale, celando ai cittadini egiziani la verità su quanto è accaduto ai loro cari.

Inoltre, il 13 gennaio scorso un verdetto della Corte di cassazione ha annullato la sentenza di condanna dell’ex presidente Hosni Mubarak e del suo ministro degli interni, Habib El Adly.

I due erano accusati di complicità negli omicidi eseguiti dalle forze dell’ordine durante le proteste del 2011.

Per questo a giugno del 2012 erano stati condannati all’ergastolo. La recente decisione della Corte di cassazione ha però riaperto il procedimento a loro carico.

Da quando Morsi è salito al potere, si sono registrate altre dodici morti durante manifestazioni di piazza. Gli scontri sono cominciati alla fine di novembre, dopo che il presidente ha emanato un decreto per assicurarsi ampi poteri.

Ma è stato soprattutto l’annuncio dell’approvazione della una nuova bozza di Costituzione e del relativo referendum a far riesplodere la violenza in tutta la sua forza.

Fra il 5 e 6 dicembre, dieci persone hanno perso la vita durante gli scontri tra gli oppositori e i sostenitori di Morsi. Secondo la ricostruzione di Amnesty, i fedelissimi del presidente hanno attaccato i manifestanti che si erano riuniti per un sit-in pacifico davanti al palazzo presidenziale.

Le forze dell’ordine, presenti nella zona a intermittenza, non sarebbero però prontamente intervenute per arginare la violenza e contrapporsi ai due gruppi.

Gli osservatori dell’Ong denunciano l’uso di molotov e fucili da parte di entrambi i blocchi, sottolineando inoltre che la maggior parte dei sostenitori del presidente Morsi sarebbero stati condotti al Cairo con dei pulmann.

 

AMNESTY E LE VIOLAZIONI DEI DIRITTI UMANI

Nel corso degli scontri del 2011, Amnesty ha istituito una commissione d’inchiesta con l’obiettivo di esaminare le violazioni dei diritti umani perpetrate dalle forze di sicurezza contro i manifestanti.

Il bilancio dei 18 giorni (25 gennaio – 13 febbraio) è ormai noto e conta 840 vittime e 6.600 feriti. 

Le forze dell’ordine avrebbero utilizzato gas lacrimogeni, cannoni ad acqua, fucili da caccia e proiettili di gomma contro i manifestanti.

L’uso di queste armi sarebbe spesso avvenuto in situazioni in cui le proteste si stavano svolgendo in maniera pacifica, senza che vi fosse un serio pericolo per nessuno.

I familiari delle vittime puntano il dito contro il sistema giudiziario egiziano e, soprattutto, la Procura che, in base alle loro dichiarazioni, non avrebbero assolto ai loro doveri.

I colpevoli delle brutali violazioni dei diritti umani – verificatesi in piazza Tahrir come nel resto del paese – non sono sarebbero stati adeguatamente puniti.

Il sistema giuridico egiziano prevede che i procuratori godano di un forte potere discrezionale, soprattutto quando si tratta di casi relativi a pubblici ufficiali: oltre a svolgere le indagini, possono decidere se portare un determinato caso davanti ad una Corte.

La vittima di un reato o i suoi familiari non possono fare appello contro la decisione del procuratore.

Inoltre, sia la polizia che alcuni membri del ministero dell’Interno hanno la facoltà di partecipare alle indagini, con la conseguenza che nel caso di crimini in cui siano coinvolti pubblici ufficiali si potrebbe verificare una sorta di “conflitto d’interessi”.

“La polizia non fornirà le prove che sono necessarie ad incolparla. Com’è possibile che l’istituzione accusata di aver ucciso i manifestanti sia la stessa a portare avanti le indagini sulle uccisioni?”, dichiara la madre di Muhamed Rashid, morto il 28 gennaio 2011, mentre prendeva parte alle manifestazioni anti-Mubarak.

Appena dieci giorni fa, la storia si ripete. Una corte di Beni Suef decide di rilasciare 14 pubblici ufficiali accusati di aver ucciso e ferito i manifestanti di Piazza Tahrir.

Durante ‘l’interregno militare’ che ha preceduto l’elezione di Morsi, i cittadini hanno continuato a scendere in piazza. In 120 hanno perso la vita nel giro di un anno.

Tuttavia – denuncia Amnesty – sarebbero solo tre gli ufficiali di basso rango condannati per uso improprio o eccessivo della forza ai danni dei manifestanti. Il resto dei militari continua a svolgere le proprie mansioni di “addetto alla sicurezza dello Stato”.

 

LE RICHIESTE DI AMNESTY

In base al diritto internazionale, gli stati hanno l’obbligo di indagare e punire le violazioni dei diritti umani che si verificano sul loro territorio.

Per fare questo, devono innanzitutto predisporre indagini efficaci volte ad accertare se un certo crimine sia stato commesso o meno. In seguito, in presenza di prove, è possibile procedere ad un processo e, eventualmente, sanzionare i responsabili di una determinata violazione.

Secondo Amnesty, fare giustizia e rivelare la verità sui crimini delle forze dell’ordine è indispensabile.

L’Ong chiede al governo egiziano di far luce sulle violazioni dei diritti umani perpetrate dai pubblici ufficiali per ridare credibilità alle istituzioni politiche del paese.

Nella parte conclusiva del documento, Amnesty avanza una lunga serie di richieste a Morsi. Partendo dalla necessità di rendere pubblico il rapporto della commissione che il presidente ha istituito all’inizio del suo mandato.

Nell’elenco compaiono anche la creazione di un nuovo organo indipendente per il proseguimento delle indagini e la garanzia della cooperazione di ministero della Difesa e degli Interni.

Amnesty ribadisce inoltre che i responsabili delle violazioni dei diritti umani devono essere portati davanti ad un tribunale e processati mentre le vittime e i familiari delle vittime devono essere protetti da ogni tipo di intimidazione.

In Egitto – prosegue l’organizzazione – servono riforme importanti, come quella dei poteri riconosciuti alla Procura e l’organizzazione delle forze dell’ordine: leggi e pratiche dei pubblici ufficiali devono essere riallineati con gli standard del diritto internazionale.

 

This article has been originally published by: Osservatorio Iraq – Medioriente e Nordafrica