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Egitto. Violenze sui bambini: la rivoluzione non arriva nelle carceri

In prima linea nelle proteste di piazza, adolescenti e bambini continuano a pagare a caro prezzo il loro ‘impegno’ nella rivoluzione. In un Egitto sempre più in balìa dell’instabilità politica e della violenza, gli abusi delle forze dell’ordine e dei militari non hanno risparmiato neanche i minori.

 

“Cosa ti fa più paura?” chiede la voce fuori campo. “I blindati della polizia”, risponde Zeyd Taysin Mohammed, dodici anni, mentre si tocca nervosamente il viso e racconta la sua storia in un video postato su internet dal collettivo Mosireen.

Zeyd stava camminando in una via centrale del Cairo quando la gente intorno a lui ha cominciato a correre. E’ allora che i poliziotti l’hanno preso e buttato di peso nel loro furgone. “Se non ci dici chi ti paga per protestare, ti tagliamo la gola e gettiamo il tuo corpo in mare”, gli hanno urlato.

“Dentro il blindato eravamo in sei e due di noi hanno subìto violenze sessuali – spiega Zeyd –. C’era anche un ragazzo copto, Kirollos e quando gli agenti gli hanno trovato un crocifisso addosso, volevano farlo a pezzi”.

Una volta in carcere, Zeyd è stato messo in una cella con altre 179 persone (adulte). L’hanno accusato di appartenere ai Black Block e di aver lanciato Molotov contro gli agenti durante una manifestazione.

 

I DIRITTI NEGATI

Secondo il collettivo Mosireen, in occasione del secondo anniversario della rivoluzione, le forze dell’ordine egiziane hanno condotto la più grande campagna di arresti a carico di minori dell’era post-Mubarak: 250 ragazzi sono stati portati in prigione e sottoposti a torture corporali, psicologiche e sessuali.

Nel settembre dello scorso anno invece, durante le manifestazioni davanti all’ambasciata americana, sono stati arrestati 136 minori, mentre sono 300 in tutto quelli finiti in carcere fra la fine del 2011 e novembre 2012.

Secondo Human Rights Watch, in Egitto i minori vengono arrestati e reclusi illegalmente in centri di detenzione per gli adulti, senza poter parlare con uno psicologo o vedere la famiglia (spesso neanche avvertita dell’arresto).

I bambini intervistati dalla ong hanno testimoniato di aver subito maltrattamenti fisici.  “Poliziotti e militari ci hanno preso a calci, percossi con l’impugnatura di fucili e bastoni e sottoposti all’elettroshock”, si legge nel rapporto.

Morsi ha promesso di porre fine alle violenze sui minori ma, secondo il ricercatore Priyanka Motaparthy, se è davvero intenzionato a farlo, deve dare massima priorità alle indagini sugli abusi e impegnarsi a perseguire penalmente i responsabili.

Sally Toma, psichiatra e fondatrice della campagna Kazeboon, ha dichiarato: “Gli abusi delle forze dell’ordine sono un fenomeno radicato nella quotidianità egiziana. Dopo la rivoluzione però gli attivisti ne sono diventati le vittime principali e, fra loro, vi sono molti bambini che stanno ancora combattendo in prima linea contro il regime. [..] I più piccoli sono arrestati durante le proteste, portati nelle stazioni di polizia o nei campi militari e sottoposti ad abusi, anche sessuali”.

“Una volta liberati – continua – tornano in piazza a protestare e lì il ciclo ricomincia con nuovi arresti e nuove violenze. [..] In un certo senso, il regime sta ‘plasmando’ una generazione pronta a tutto pur di eliminarlo, e carica di odio contro le autorità”.

Purtroppo, le leggi in vigore non sono rispettate e i diritti garantiti dal sistema giuridico rimangono solamente sulla ‘carta’.

Infatti, l’Egitto ha ratificato la Convenzione sui Diritti del Fanciullo il cui articolo 37 prevede che l’arresto e la detenzione dei minori siano ‘misure di ultima istanza’, usate solo per periodi di tempo brevi e in conformità con la legislazione nazionale.

Inoltre, la legge egiziana dispone che i bambini sotto i dodici anni non siano penalmente perseguibili mentre la custodia cautelare non può essere applicata ai minori di quindici anni. Le autorità sono quindi incoraggiate a non privare i più piccoli dell’ambiente famigliare salvo che in casi eccezionali e per periodi molto circoscritti.

Infine, in base alla legge n.126 del 2008, spetta al tribunale minorile giudicare questi casi e i pubblici ufficiali che permettono la detenzione di minorenni insieme ad adulti sono perseguibili penalmente.

“Non è chiaro perché le autorità giudiziarie continuino ad ignorare la legislazione in materia – ha dichiarato Motaparthy –. I giudici non dovrebbero decidere in modo arbitrario delle vite dei più piccoli, anche se è quello che stanno facendo”.

 

LA RIVOLUZIONE DEI “PICCOLI”

Prima della rivoluzione, i bambini di strada si affidavano a dei centri di aiuto per ricevere cibo, medicinali e altri beni di prima necessità. Con l’inizio delle proteste e dell’instabilità politica, molti di questi centri hanno chiuso e i bambini si sono ritrovati ancora più soli di prima.

Secondo il ricercatore Andrew Wander, molti sono stati attratti dal ‘festival di Tahrir’ e hanno preso parte alle manifestazioni.

Ma l’euforia iniziale ha presto lasciato spazio alla paura e, quando la violenza è esplosa, questi bambini sono diventati bersaglio di maltrattamenti e violazioni da parte delle forze dell’ordine.

Per loro, Tahrir è stata un’opportunità per ‘vendicarsi’ degli abusi subìti sotto Mubarak e la prima vera occasione per sentirsi parte della comunità egiziana. Tuttavia, dopo la rivoluzione, l’intolleranza nei loro confronti è cresciuta notevolmente.

Secondo Frida Alim, i media hanno giocato un ruolo centrale a questo riguardo, dipingendoli come criminali.

“In realtà – spiega la ricercatrice – molti di loro scappano da famiglie ‘violente’ e sono stati vittime di maltrattamenti anche fra le mura domestiche”.

La maggior parte di questi bambini vive al Cairo e ad Alessandria: secondo le fonti governative sarebbero circa 50.000, ma le statistiche delle ong sono molto più alte (dai 250.000 ai 2 milioni).

Le loro storie fanno luce su una ‘piaga sociale’ enorme, tanto più preoccupante e difficile da gestire perché circondata da una profonda omertà.

“E’ sorprendente come in Egitto il prezzo dei pomodori faccia arrabbiare la gente molto più degli abusi sui minori”, ha scritto su Twitter la ricercatrice Nelly Ali, la settimana scorsa.

Il fatto che molti di loro non abbiano documenti identificativi costituisce un altro grande problema.

Primo, perché senza carta di identità non possono accedere ad alcuni servizi di base come l’educazione e la sanità. Secondo, perché la polizia li arresta proprio con questa scusa, facendoli diventare due volte vittime del sistema politico e giudiziario egiziano.

In un Egitto in transizione, la morsa del regime sui ‘rivoluzionari’ si fa sempre più stretta. E la violenza delle forze dell’ordine è lo ‘strumento principe’ con cui eliminare gli attivisti dalle piazze: anche i più piccoli.

 

This article has been originally published by: Osservatorio Iraq – Medioriente e Nordafrica

Yemen. Sempre più minori nel braccio della morte

Dopo la deposizione dell’ex-dittatore, nel paese continuano le violazioni dei diritti umani. Da domenica 27 gennaio, 77 detenuti sono in sciopero della fame nella prigione centrale di Sana’a.

 

La protesta è iniziata dopo che un giudice ha condannato a morte Nadim Al-‘Azaazi, per un crimine commesso all’età di quindici anni.

I prigionieri hanno anche compilato una lista di richieste indirizzate al governo. Una lista scritta a mano e firmata da 66 detenuti e resa poi pubblica da Amnesty International: “L’applicazione della pena di morte ai minorenni è vietata sia dal codice penale yemenita sia dal diritto internazionale. Le autorità devono farsi carico delle loro responsabilità giuridiche e annullare immediatamente la sentenza”, ha dichiarato Philip Luther, direttore per il Medio Oriente e il Nord Africa.

Tra i trattati firmati dallo Yemen, la Convenzione dell’Onu sui diritti del fanciullo e il Patto internazionale sui diritti civili e politici: due documenti cruciali che vietano l’esecuzione capitale per i reati commessi dai minorenni.

 

LE RICHIESTE DEI DETENUTI

I detenuti del carcere minorile sospenderanno lo sciopero della fame solo quando tutte le condanne a morte a carico di minorenni verranno annullate, compresa quella di Nadim.

Nella lista indirizzata al governo, oltre alle rivendicazioni di una serie di diritti e tutele, i detenuti puntano il dito sulla corruzione dilagante all’interno delle strutture carcerarie del paese.

Così come lanciano un appello affinché i processi diventino rapidi ed efficienti, onde evitare i molti i casi in cui i ragazzi rimangono in cella anche per più di tre anni in attesa di un processo, che spesso si concluderà con il loro rilascio.

I detenuti propongono inoltre la revisione delle condanne inflitte per reati non gravi e il diritto dell’imputato a scegliere liberamente il proprio legale.

Chiedono infine che i tribunali diano mandato ai medici di accertare la reale età delle persone sottoposte a processo attraverso i nuovi metodi che la tecnologia mette a disposizione. Anche perché nello Yemen non vengono registrate quasi l’80% delle nascite, in parte a causa dell’alto costo dell’operazione.

Ciò significa che la maggioranza dei giovani che finiscono in carcere non è in possesso di documenti ufficiali che ne certifichino l’identità.

La protesta è finalizzata a fare luce sulle condizioni disumane in cui vivono i minori nei centri di detenzione: nel documento si fa infatti riferimento all’assenza di spazio e allo stato deplorevole delle celle, dove spesso mancano le finestre e a volte persino i letti. E alla possibilità di vedere i propri cari, con il trasferimento in un carcere più vicino alla propria casa.

Secondo Amnesty International, i detenuti che si trovano nei carceri minorili del paese sono spesso costretti a rimanere in prigione anche oltre i termini della loro condanna. Ciò avviene, per esempio, perché non riescono a pagare le “sanzioni pecuniarie” decise dai tribunali.

Intanto le esecuzioni capitali continuano, e lo scorso 3 dicembre è stata la volta di una quindicenne, Hind el-Barti, accusata dell’omicidio di una coetanea e giustiziata da un plotone di esecuzione.

Secondo alcune ricerche commissionate dall’Onu, tra il 2006 e il 2010 sono state 14 le condanne a morte a carico di minorenni: “Non siamo solo indignati perché continuano ad essere giustiziati in violazione del diritto internazionale, ma siamo anche profondamente preoccupati perché il numero di condanne contro i ragazzi è in deciso aumento”, osserva Zermatten, presidente del comitato delle Nazioni Unite per i diritti del fanciullo.

Anche l’Unione Europea si è unita al coro delle proteste, con un appello del febbraio 2010 contro l’esecuzione di Muhammed Taher Tabhet Samoum e di Fuad Ahmed Ali Abdulla, due giovani condannati a morte per crimini commessi quando avevano meno di 18 anni.

L’Ue ha chiesto alle autorità yemenite una moratoria della pena di morte per i minorenni e la garanzia di un sistema affidabile di certificati di nascita e di servizi atti ad accertare l’età del detenuto nel caso in cui i documenti non siano disponibili.

 

LA TRANSIZIONE E I DIRITTI UMANI

Secondo Human Rights Watch, in questa fase di transizione, il governo di Abdu Rabu Mansur Hadi dovrebbe impegnarsi a trovare delle soluzioni per le numerose violazioni dei diritti umani praticate nel paese, soprattutto quelle sui più piccoli.

Fra le questioni spinose che l’esecutivo è chiamato affrontare, le detenzioni arbitrarie, l’impiego di soldati-bambini, gli attacchi alla libertà d’espressione e la verità sulle vittime delle proteste del 2011.

“I minorenni hanno avuto un ruolo centrale nelle proteste del 2011, ma hanno anche sofferto molto durante il conflitto”, spiega Priyanka Motaparthy, ricercatrice di HRW.

In base alle stime dell’Unicef, 94 tra bambini e adolescenti sono rimasti uccisi e 240 feriti durante gli scontri.

Molte organizzazioni internazionali e Ong locali hanno infatti accusato le varie fazioni politiche di ‘strumentalizzare’ la presenza dei minori durante le manifestazioni, esponendoli – senza la loro piena consapevolezza – a dei rischi enormi.

Inoltre, sia le forze governative che i movimenti di opposizione hanno occupato diverse scuole, trasformandole in obiettivi militari e mettendo a rischio la vita di migliaia di giovani studenti.

Durante i mesi che hanno preceduto la “cacciata” dell’ex-dittatore, molti istituti scolastici sono stati usati come basi e postazioni da cui aprire il fuoco, e hanno addirittura ospitato dei prigionieri.

Se lo Yemen era già in fondo alla classifica “mediorientale” nei livelli d’istruzione, dopo il 2011 il tasso di abbandono scolastico ha subìto un’impennata, soprattutto tra le ragazze.

 

This article has been originally published by: Osservatorio Iraq – Medioriente e Nordafrica