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Egitto. Non solo calcio: gli Ultras da tifoseria ad attore politico

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La scorsa settimana Port Said è tornata ad essere l’epicentro di nuove proteste. Nonostante lo stato di emergenza imposto da Morsi, i cittadini sono scesi in piazza, sfidando il coprifuoco. Al centro della mobilitazione, gli ultras del club calcistico locale, il Masry.

 

I manifestanti contestano all’attuale governo non solo di aver marginalizzato la città ma anche di averne fatto un ‘capro espiatorio’. Dopo essersi uniti ai lavoratori, hanno bloccato le attività di molte fabbriche intorno al Canale di Suez, snodo economico di estrema importanza per l’economia egiziana.

 

GLI ULTRAS E L’IMPEGNO POLITICO

Circa un mese fa, gli ultras sono scesi in piazza in tutte le principali città egiziane per commemorare il secondo anniversario della caduta del regime. In questa occasione, la Fratellanza ha chiarito che il governo Morsi è molto preoccupato dalla ‘politicizzazione’ delle tifoserie e incoraggia i media e i partiti politici a non incitarli verso “comportamenti sovversivi e all’uso della violenza”.

Tuttavia la loro centralità nelle manifestazioni di piazza è un fatto noto. 

Sin dall’inizio della ‘Primavera araba’, gli ultras hanno giocato un ruolo fondamentale negli scontri come per esempio nella famosa ‘battaglia dei cammelli’. Anche dopo i fatidici diciotto giorni che hanno preceduto la caduta del regime, hanno continuato a stare a fianco dei manifestanti durante tutto l’interregno militare dello SCAF. Per esempio, si sono distinti in episodi piuttosto sanguinosi come la battaglia di Mohammed Mahmud Street.

Il 2 febbraio 2012, in seguito alla partita di calcio Ahly contro Masry, le due tifoserie si sono scontrate causando incidenti che hanno ucciso settantaquattro persone, per la maggior parte ultras dell’Ahly (detti anche Ahlawy). 

Secondo alcuni testimoni oculari, le forze dell’ordine non sono intervenute e, per di più, durante i tafferugli le luci dello stadio sono state ‘misteriosamente’ spente e le porte sbarrate.

In virtù del ruolo giocato dagli ultras dell’Ahly nelle proteste contro il regime di Mubarak, molti hanno ipotizzato che, dietro alla violenza, vi fosse la mano del governo e la volontà di punire chi era stato in prima linea durante le manifestazioni. La storia del movimento Ultras

Il movimento degli ‘ultras’ nasce on-line nel 2005 ed inizialmente, prende vita intorno ai due principali club calcistici cairoti: Ahly e Zamalek. I giovani egiziani delle periferie (molto spesso intorno ai vent’anni) ne sono protagonisti assoluti, con una partecipazione femminile praticamente inesistente.

All’interno di questo “movimento”, non ci sono correnti di stampo ideologico (sul modello degli ultras europei) ma a fare da collante è l’opposizione alla repressione delle forze dell’ordine ed alla corruzione del sistema giudiziario.

Assolutamente ‘indipendenti’ rispetto alla dirigenza dei club calcistici, gli ultras si identificano con una vera e propria sub-cultura che, a livello musicale, trova espressione in un genere ibrido, nato dalla contaminazione fra hip hop e melodie arabe.

Gli scontri fra ‘tifoseria’ e polizia egiziana hanno inizio nel 2009 con l’arresto di alcuni ultras per aver tentato di aprire uno striscione pro-Palestina che condannava l’invasione israeliana di Gaza.

Da allora le forze dell’ordine hanno cercato di mettere a tacere questo movimento in tutti i modi, spesso ricorrendo all’intimidazione e alla violenza. Non di rado decine di ultras sono stati arrestati alla vigilia di un’importante evento calcistico per poi essere rilasciati il giorno successivo al match.

L’esperienza maturata in anni di scontri con le forze dell’ordine è stata una delle ‘risorse’ che ha reso gli ultras protagonisti della ‘Primavera egiziana’, ponendoli sempre in prima linea durante le proteste con un gran numero di vittime e feriti gravi.

Secondo Carlo Rommel (dottorando alla SOAS), mentre alcuni attivisti li idealizzano per il ruolo avuto durante i 18 giorni precedenti alla caduta del regime, altri li guardano con diffidenza, giudicandoli privi di una coscienza politica.

Ciononostante è innegabile che siano una parte estremamente significativa del ‘fronte rivoluzionario’ nazionale.

Secondo il blogger James Dorsey, gli ultras sono stati la prima ‘organizzazione’ che ha osato sfidare la polizia egiziana sotto Mubarak e questo ha permesso ad un gran numero di giovani poveri, arrabbiati e senza troppa speranza nel futuro di aderire al loro progetto. Come il movimento dei lavoratori ha opposto resistenza al governo Mubarak nelle fabbriche, gli ultras lo hanno fatto negli stadi, entrambi nel tentativo di strappare lo spazio pubblico alla repressione e al controllo del regime.

Oggi, gli ultras sono presenti in tutte le principali piattaforme virtuali e le loro pagine Facebook e Twitter sono seguite da migliaia di fan.

“La nostra battaglia per ottenere giustizia è in atto e continuerà finché tutti i poliziotti e militari che hanno commesso degli abusi contro di noi saranno  processati”, ha dichiarato in un’intervista ad al-Ahram Said, uno dei capi degli ultras Ahlawy.

Per ora i ‘tifosi’ continuano a ‘difendere’ la rivoluzione sul campo a colpi di molotov, ma fare previsioni sull’esito della ‘transizione’ egiziana è difficile, così come è difficile immaginare il posto che gli ultras prenderanno nel futuro sistema politico del paese.

Inoltre, secondo Mohamed Gamal Basheer (autore di ‘gli ultras e la rivoluzione egiziana’), il fenomeno delle tifoserie politicizzate non è una prerogativa solo egiziana. In base alla sua ricostruzione, l’idea della tifoseria calcistica organizzata compare nel mondo arabo negli anni settanta.

All’inizio i gruppi erano molto legati alla dirigenza dei club ma gradualmente si sono resi indipendenti. Il primo ‘nucleo’ ultras del mondo arabo nasce in Libia nel 1989 ma viene sciolto da Gheddafi solo dopo due settimane.

Nel 1990 gli ultras fanno una breve apparizione in Tunisia, per poi prendere piede in Marocco (nel 2005) e in Algeria (nel 2007).

E come dimostra il caso egiziano, non di solo calcio si tratta. Gli ultras infatti, anche se privi di un programma dettagliato, sono ormai diventati a tutti gli effetti un attore politico di primo piano.

Piuttosto che incarnare un’ideologia definita, esprimono il ‘malessere diffuso’ di una generazione e hanno un ruolo importante nella transizione verso la democrazia.

 

This article was published originally in: Osservatorio Iraq – Medioriente e Nordafrica

Egitto. Per la pena di morte nessuna rivoluzione all’orizzonte

A due anni dalla rivoluzione i Tribunali egiziani continuano a condannare a morte: il dibattito nella società civile è vivo, ma non sembra esserci una posizione condivisa che ne condanni l’applicazione.

 

Esattamente un anno fa, al-Ahly e al-Masry – due club calcistici egiziani – hanno giocato una delle partite più sanguinose della loro storia.

A Port Said, l’incontro fra le due squadre si è concluso con un risultato inaspettato, la sconfitta dell’al-Ahly, prima in classifica e “orgoglio di tutta la nazione”.

Dopo la partita, lo stadio si è trasformato in un campo di battaglia in cui i supporter dell’al-Masry hanno attaccato violentemente non solo i loro avversari ma anche le forze dell’ordine: 74 persone hanno perso la vita.

Sabato scorso una Corte civile ha condannato a morte 21 dei 70 indagati con l’accusa di aver attaccato, ucciso e creato il caos nello stadio.

La sentenza ha scatenato le proteste dei familiari dei detenuti che, per ritorsione, hanno attaccato la prigione della città. Le forze dell’ordine hanno risposto con lacrimogeni e proiettili di gomma.

Il resto degli imputati verrà processato il 9 marzo e fra di loro vi sono 9 ufficiali di polizia. “E’ una sentenza molto dura, ma i responsabili di questa tragedia non si meritano che questo. A nessuno piace vedere morire la gente, ma chi commette un omicidio deve essere condannato a morte”, ha dichiarato un ultras di al-Ahly.

 

LA PENA DI MORTE NELL’EGITTO POST-RIVOLUZIONARIO

Negli ultimi due anni il dibattito sull’uso della pena di morte si è riacceso in più occasioni e ha trovato spazio sia sulla stampa nazionale che internazionale.

Lo scorso novembre, il Tribunale penale del Cairo ha condannato a morte 6 copti – originari dell’Egitto ma residenti all’estero – e il pastore americano Terry Jones, accusati di aver preso parte alla realizzazione e distribuzione del controverso film “L’Innocenza dei Musulmani”. I sette imputati sono stati processati in contumacia.

Pochi mesi prima, nell’agosto 2012, un Tribunale di Ismailiyya aveva deciso che quattordici attivisti islamici – accusati di aver ucciso 7 persone in Sinai nel 2011 (di cui 6 pubblici ufficiali e un civile) – dovessero essere impiccati. Gli imputati erano sospettati di appartenere a un gruppo estremista e di aver preso di mira sia militari che forze dell’ordine.

Il dibattito sulla pena di morte ha interessato anche il processo all’ex presidente Mubarak. La Procura aveva infatti richiesto la condanna a morte sia per l’ex dittatore che per altri 6 dei suoi fedelissimi, tra cui il suo ex ministro degli interni, Habib el Adly.

L’accusa in questo caso era di “omicidio premeditato” nei confronti di più di 800 manifestanti morti durante i 18 giorni di proteste. Alla fine tuttavia la Corte ha abbandonato l’idea della pena capitale optando per l’ergastolo.

Secondo Amnesty International, i partiti politici dell’Egitto post-Mubarak non hanno dimostrato alcun interesse ad impegnarsi sulla questione dell’abolizione della pena di morte.

Soprattutto i partiti islamisti – che dominano l’attuale scenario politico – si sono mostrati irremovibili rispetto alla possibilità di cambiare la legislazione.

 

L’ORDINAMENTO GIURIDICO EGIZIANO

Attraverso una serie di trattati e risoluzioni, l’Onu ha cercato di promuovere l’abolizione della pena di morte su scala globale.

Nei casi in cui è stato impossibile, ha invitato gli Stati membri a limitare l’uso di questa misura e a fornire al condannato una serie di “garanzie”, come ad esempio la possibilità di fare appello a una Corte di grado superiore. Uno degli obiettivi delle Nazioni Unite era la riduzione dei crimini per cui la pena di morte è prevista all’interno degli ordinamenti giuridici.

Nel 2007, con la risoluzione 62/149, è stata avviata una moratoria sull’uso della pena capitale. 104 paesi hanno votato a favore, 54 contro e 29 si sono astenuti. 

L’Egitto è fra quelli che non hanno aderito e le autorità si sono giustificate definendo la risoluzione “incompatibile con la religione e gli standard legali dell’ordinamento giuridico interno”.

Inoltre hanno aggiunto che “la pena di morte viene usata solo in armonia con le procedure legali e le misure del diritto islamico, di modo che questa pena sia compatibile sia con gli obblighi giuridici che religiosi”.

Secondo un report della Ong Arab Center for the Indipendence of the Judiciary and Legal Profession (ACIJLP), l’ordinamento giuridico egiziano prevede la pena di morte per ben 105 crimini.

In molti casi, la fattispecie del reato è descritta nella legislazione in modo vago e, perciò, la sua interpretazione si presta all’arbitrarietà del giudizio della Corte. Ad esempio, l’articolo 77 del Codice penale prevede che “chiunque compia un atto premeditato contro l’indipendenza, l’unità e l’integrità del paese” può essere punito con la morte.

In Egitto la pena di morte è comunemente utilizzata nei casi di omicidio premeditato, stupro, reati legati al terrorismo e al traffico e consumo di droga. Si esegue con l’impiccagione del condannato.

Sia i Tribunali civili che le Corti militari possono emanare questo tipo di sentenza, ma la procedura giuridica è leggermente differente.

Nel primo caso, il condannato a morte può fare appello alla Corte di cassazione (una corte di grado superiore). Tuttavia l’appello può essere presentato solo con riferimento a questioni procedurali e non sostanziali. Inoltre, anche nel caso l’imputato non faccia appello, il procuratore ha l’obbligo di inviare un memorandum alla Cassazione, che può decidere se modificare la sentenza, adottando una pena meno grave.

Nel caso delle Corti militari invece, l’imputato non ha il diritto di fare appello a nessun altro organo giudiziario: può solo adire un ufficio militare superiore.

In entrambi i “circuiti giuridici” – sia militare che civile – il presidente della Repubblica ha il potere di concedere la grazia ai condannati a morte o di commutarne la pena. Ogni sentenza deve essergli sottoposta dal ministro della Giustizia.

Nel caso delle Corti civili la sentenza di morte deve essere emessa dalla Corte con decisione unanime dei giudici che la compongono. Nel caso delle Corti militari invece vale la regola della maggioranza.

I Tribunali civili inoltre, una volta concordata la pena, devono richiedere l’opinione del Gran Mufti. Tuttavia quest’opinione non è vincolante e, se non viene ricevuta entro 10 giorni, il procedimento giuridico a carico degli imputati procede normalmente.

 

LA PENA DI MORTE SOTTO MUBARAK

Mentre nel resto del mondo questa misura veniva abolita da molti governi, secondo Amnesty International dal 1990 al 2000 il ricorso alla pena di morte in Egitto è aumentato.

Nell’arco di dieci anni, i Tribunali hanno emesso 530 condanne e sono state portate a termine 213 esecuzioni.

Sotto Mubarak la legislazione anti-terrorismo (con annessa pena di morte) era concepita come l’arma con cui combattere la violenza politica dei gruppi d’opposizione al regime, soprattutto di matrice islamica.

Il 2009 è stato un anno di “massacri”. Ben 136 persone sono state condannate a morte: 68 solo nel mese di giugno, con una media di esecuzioni annuali di circa 80 detenuti.

Dal 2009 al 2011, il numero di condanne è leggermente diminuito (si è scesi a 115). Inoltre bisogna considerare che il numero delle condanne supera di molto quello delle esecuzioni: fatta eccezione per le Corti militari, la sentenza viene resa effettiva solo se ad accettarla è la Corte di Cassazione, che spesso la commuta in una pena meno grave.

Il dibattito pubblico sull’efficacia della pena di morte è molto vivo. La società egiziana sembra però spaccata su questo punto, e anche fra gli esponenti delle fasce più acculturate delle società non sembra esserci una visione condivisa.

In generale, le autorità religiose tendono a sostenere l’utilizzo di questa misura in quanto prevista dal Corano. I pensatori religiosi più ortodossi vorrebbero addirittura che fosse estesa a un numero maggiore di crimini come l’adulterio e l’apostasia.

Di opposto segno l’umore di gran parte della società civile che sembra essere a favore di una limitazione del suo uso, soprattutto attraverso una diminuzione dei reati per cui è prevista, a dimostrazione che in Egitto non è ancora presente un vasto consenso che permetta al sistema giuridico del paese di abbandonare il ricorso a questa pratica

 

This article has been originally published by: Osservatorio Iraq – Medioriente e Nordafrica

Egitto. Libertà di stampa significa democrazia

Le violazioni della libertà di stampa erano una pratica quotidiana sotto il regime di Mubarak e sono proseguite durante l’interregno militare dello SCAF. Morsi ha promesso di voltare pagina, ma i casi dei tanti giornalisti e blogger arrestati o finiti sotto indagine per averlo criticato, sembrano dimostrare il contrario.

 

“Siamo molto preoccupati dall’attuale situazione in Egitto […]. Le autorità devono accettare le critiche della stampa […] altrimenti la situazione continuerà a peggiorare. Sollecitiamo il governo a smettere di molestare i giornalisti e condanniamo fermamente l’uso delle corti militari contro di loro”, ha dichiarato un portavoce della ong Reporter senza frontiere.

 

I CASI

Subito dopo la sua elezione lo scorso giugno, l’attuale presidente ha dichiarato che avrebbe protetto la libertà di stampa, sottolineando però che dai giornalisti si aspettava accuratezza e imparzialità.

A sei mesi dall’inizio del suo mandato, il mondo dell’informazione in Egitto sembra stretto fra la morsa della repressione governativa e un crescente clima di violenza.

Il caso di Muhammad Sabry – giornalista freelance operativo in Sinai – è solo l’ultimo in ordine di tempo ad aver attirato l’attenzione dell’opinione pubblica, sia nazionale che internazionale. Arrestato il 4 gennaio scorso mentre stava girando un documentario per Reuters nei pressi di Rafah,  una volta in carcere non ha potuto né parlare con un avvocato né contattare i familiari.

Un tribunale militare di Ismailia l’ha processato con l’accusa di lavorare contro la sicurezza nazionale e, infine, ne ha deciso il rilascio su cauzione. Il suo caso ha mobilitato ampi strati della società civile e soprattutto il movimento “Contro i Processi Militari”, di cui lo stesso giornalista fa parte.

Da quando Morsi è salito al potere, la Procura egiziana ha avviato una lunga serie di indagini a carico di giornalisti, blogger e presentatori televisivi, accusati di intaccare l’immagine del presidente o di offendere i valori religiosi.

Ad esempio Bassem Youssef, comico e conduttore del programma televisivo el-Barnameg (“Il Programma”), e Abdel Halim Qandil, direttore di Sawt al-Umma (“La voce della Nazione”), sono finiti sotto inchiesta per aver attaccato Morsi. Invece Doaa al-Adl, fumettista presso un quotidiano, è stata indagata per una vignetta giudicata offensiva nei confronti dell’Islam.

Anche alcuni giornali indipendenti come al-Dustour e al-Masry al-Yom sono finiti sotto tiro.

Il primo per un editoriale dai toni particolarmente accesi in cui la Fratellanza era accusata di voler trasformare l’Egitto in un emirato islamico. Il secondo, invece, secondo le dichiarazioni dell’ufficio del Presidente, avrebbe diffuso notizie false, mettendo in pericolo la pace e la sicurezza pubblica.

Lo scorso ottobre una corte di Luxor ha condannato Tawfiq Okacha – proprietario del canale televisivo el-Faraeen (“I Faraoni”) – a 4 mesi di reclusione e al pagamento di una multa. Tawfiq – famoso per la sua opposizione alla Fratellanza – è stato accusato di incitamento alla violenza.

Ma a minacciare la libertà di stampa non c’è soltanto la repressione governativa. I giornalisti egiziani devono fronteggiare un clima di molestie, violenza fisica e intolleranza.

Il 21 novembre scorso la sede di al-Jazeera ha subito un attacco, mentre il 17 dicembre è stata la volta del quotidiano Wafd. In quest’ultimo caso, l’aggressione è stata portata a termine da un gruppo salafita che ha lanciato pietre e cocktail molotov contro l’edificio. Alcuni giornalisti sono rimasti feriti.

Infine, il reporter Al-Hosseini Abu Deif – fotografo per il giornale indipendente el-Fagr – ha perso la vita durante gli scontri dello scorso 6 dicembre. Recatosi sul posto con l’obiettivo di filmare la manifestazione, un proiettile l’ha colpito alla testa, dopo che i sostenitori di Morsi l’avevano attaccato.

A finire nel mirino del governo non sono soltanto i “media classici” ma anche tanti blogger come, ad esempio, il copto Albert Saber Ayyad.

Rilasciato su cauzione lo scorso 17 dicembre, è in attesa di un nuovo verdetto da parte della Corte d’appello. I suoi guai sono cominciati quando un vicino di casa l’ha accusato di “capeggiare” un gruppo a favore dell’ateismo su Facebook. Albert è stato condannato in primo grado a tre anni di carcere per blasfemia con l’accusa di aver  postato alcuni video anti-Islam.

 

LA LIBERTÀ DI STAMPA SOTTO MORSI 

Lo scorso agosto, Morsi ha cancellato l’obbligo di detenzione per i giornalisti sotto inchiesta: in base a questo provvedimento, quando la Procura apre un’indagine l’individuo rimane in libertà fino al processo.

Resta, però, la possibilità di finire in carcere per reati commessi “a mezzo stampa”, come ad esempio la diffamazione. 

Secondo l’ong Reporter senza frontiere, una riforma del codice penale egiziano è necessaria perché, in un paese democratico, per questo tipo di crimini non si può finire in prigione.

L’attuale Presidente ha ereditato alcune strategie di “contenimento” del dissenso dal regime precedente e si è rifiutato di smantellare le principali strutture attraverso cui Mubarak controllava l’informazione. 

Ad esempio, ha mantenuto il ministero dei Media – simbolo della dittatura – mettendoci a capo un membro della Fratellanza, Salah Abdel Maqsud, e giustificando la sua decisione con l’impossibilità di licenziare i migliaia di dipendenti impiegati in questa struttura.

Molti giornalisti, inoltre, hanno denunciato la scelta di porre a capo dei maggiori quotidiani statali direttori inclini al presidente e ai suoi fedelissimi. E’ il caso del redattore di al-Akhbar, Mohammed Hassan el-Banna, accusato – una volta acquisita questa posizione di prestigio – di aver censurato molti editoriali di colleghi giornalisti, critici riguardo all’operato di Morsi.

“Ciò che sta accadendo è molto preoccupante. Abbiamo a che fare con un’organizzazione che non intende avviare un processo di democratizzazione o liberalizzazione della stampa. Tutto ciò che gli interessa è prenderne il controllo”, ha dichiarato Hani Shukrallah, direttore della versione inglese dell’Ahram on-line, riferendosi ai Fratelli Musulmani.

A scatenare le proteste dei media egiziani è stata anche la nuova Costituzione.

Il 23 dicembre scorso, molti operatori del mondo dell’informazione si sono riuniti davanti alla sede del Sindacato dei giornalisti per protestare in silenzio. “No a una Costituzione contro la libertà dei media e il giornalismo” è quanto si leggeva su un gran numero di striscioni.

Il problema principale del nuovo testo è l’assenza di una clausola che vieti la detenzione di chi commette crimini a mezzo stampa. La proposta di inserire una clausola di questo tipo è stata avanzata durante i lavori dell’Assemblea Costituente, ma la maggior parte dei membri l’ha rifiutata. 

Nel testo attuale – ratificato con il referendum dello scorso dicembre –  è inserito un riferimento alla libertà di stampa e di informazione. Inoltre, si dispone che un giornale possa essere chiuso solo per ordine di un tribunale.

D’altro canto però, è prevista la possibilità di censura e sanzione nel caso in cui l’operato di un giornalista leda il principio della ‘sicurezza nazionale’.

Dato che quest’ultimo è passibile di interpretazioni più o meno restrittive, la libertà dei media sembra tutt’altro che solidamente garantita.

La vera battaglia, quindi, si giocherà all’interno della Camera bassa del futuro Parlamento, quando verrà il momento di emendare la legge ordinaria che disciplina il settore dell’informazione.

Sotto Morsi, le principali linee rosse che un giornalista non sembra poter oltrepassare sono tre: la figura del Presidente, l’organizzazione dei Fratelli Musulmani e l’Islam. 

Durante la sua presidenza sono state avviate molte indagini a carico di individui accusati di averlo criticato. Gran parte delle inchieste hanno preso il via da “denunce” presentate dall’ufficio di presidenza e da attivisti islamici.

 

FARE I CONTI CON IL PASSATO: TRA CONTINUITÀ E CAMBIAMENTO

Sotto Mubarak, i media statali erano un prolungamento del governo e avevano il compito di veicolare la propaganda ufficiale del regime. Durante la rivoluzione del 25 gennaio, l’allora Presidente se ne è servito per minimizzare l’entità delle manifestazioni di piazza e instillare il dubbio che fossero manovrate da qualche attore esterno.

Il controllo dei media e, soprattutto, del mezzo televisivo è di estrema importanza, soprattutto in un paese come l’Egitto dove, secondo un sondaggio condotto nel 2011, per l’84% dei cittadini la televisione è stata la prima fonte di notizie durante le proteste.

Secondo una classifica della Freedom House, oggi in Egitto l’informazione è “parzialmente libera”.

Nel paese sono attualmente attive più di 500 testate giornalistiche di vario genere e, in seguito alla rivoluzione del 25 gennaio, questo settore ha registrato un grande fermento con la nascita di tanti nuovi giornali e la diffusione a macchia d’olio del citizen journalism.

Il 2011 è però stato un anno molto difficile per i giornalisti e gli operatori del mondo dell’informazione in generale, dato il compito di riportare gli eventi che hanno portato alla caduta del regime. Pur se abituati a censura e molestie – che erano pratiche comuni sotto Mubarak – i 18 giorni di proteste di piazza li hanno costretti a confrontarsi con nuove sfide.

Si sono verificate morti, aggressioni fisiche, distruzioni di attrezzatura e addirittura casi di molestie sessuali, anche a carico di professionisti stranieri. Chi si è improvvisato giornalista fra gli attivisti è stato bersaglio della violenza delle forze di sicurezza.

Durante l’interregno militare che è seguito alla caduta di Mubarak, lo SCAF ha continuato a negare ai giornalisti e blogger arrestati il diritto a un “processo equo”, rifiutandosi di giudicarli davanti alle Corti civili. Chiunque abbia criticato l’esercito – come del resto anche sotto Mubarak – è stato arrestato e portato in tribunale.

“L’indipendenza dei media è l’unica garanzia su cui possiamo costruire una società davvero democratica”, ha dichiarato Hossam Bahgat, direttore dell’Iniziativa Egiziana per i diritti dell’individuo.

“I media devono essere parte integrante della nostra battaglia per la democratizzazione della società, una battaglia da condurre parallelamente a quella per la democratizzazione del governo”.

 

This article has been originally published by: Osservatorio Iraq – Medioriente e Nordafrica