Egitto. Come un comico finisce in Procura

Col suo programma satirico El-Barnameg, il comico egiziano Bassem Youssef è diventato una celebrità in tutto il Medio Oriente. Attivo nel mondo della satira dal 2011, da allora non si è più fermato. Ma la sua parodia dell’attuale establishment politico gli è valsa un mandato d’arresto.

“Qui in Procura, poliziotti e avvocati vogliono farsi fotografare con me. Sarà per questo che hanno ordinato il mio arresto?”, si legge nell’ironico tweet di Bassem, postato domenica scorsa dall’ufficio del procuratore generale.

Ventiquattro ore prima era stato emesso un mandato d’arresto nei suoi confronti, con l’accusa di aver insultato il presidente Morsi e l’Islam, e il comico aveva deciso di consegnarsi spontaneamente alle autorità giudiziarie.

Una volta in tribunale, ha dovuto rispondere a una lunga lista di domande su battute, ironie e dichiarazioni pronunciate durante il suo show televisivo, mentre una folla di fan e attivisti si è radunata davanti all’edificio per esprimere il proprio sostegno al comico.

Cinque ore di interrogatorio, al termine delle quali è stato rilasciato su cauzione, dopo il pagamento di 15.000 sterline egiziane (equivalenti a 2.200 dollari). Tuttavia, l’indagine contro di lui continua e Bassem potrebbe essere convocato di nuovo e costretto a comparire davanti a una corte. 

Intanto il suo caso ha suscitato forti polemiche all’interno della società civile egiziana. 

“Gli sforzi patetici volti a strangolare il dissenso e a seminare il panico fra i media sono chiare indicazioni dell’instabilità del regime e della sua mentalità oppressiva”, ha dichiarato su Twitter Mohammed Al-Baradei, leader della principale coalizione di opposizione.

D’altra parte, il presidente Morsi ha ufficialmente preso le distanze dall’operato della Procura, ricordando all’elettorato che “questo organo agisce in maniera indipendente rispetto alla presidenza”.

Ma le sue parole non hanno placato gli animi di una popolazione sempre più delusa e scontenta della direzione che il processo di transizione sta prendendo. 

“Il governo attacca i media perché parlano dei problemi del paese, ma gli egiziani non resteranno in silenzio e continueranno a protestare (…).I toni del mio show non si smorzeranno, al contrario continueranno a crescere”, ha dichiarato il comico ai microfoni della Cnn. 

 

CHI È BASSEM YOUSSEF?

 

Il suo programma, El-Barnameg, è diventato famoso nel 2011, subito dopo lo scoppio della rivoluzione. All’inizio è esploso su Youtube, dove il primo video postato ha ricevuto tre milioni di visualizzazioni. 

Ispirato al Daily Show del comico americano Jon Stewart, è presto divenuto ‘virale’ in rete e nel 2012 il canale privato OnTv  l’ha acquistato, inserendolo nel proprio palinsesto del venerdì sera.

E’ un programma satirico unico nel suo genere, soprattutto nel panorama televisivo egiziano. In trasmissione, Bassem siede tutto il tempo dietro ad una scrivania e da lì commenta con ironia i principali eventi politici nazionali, prendendo come ‘bersaglio’ i personaggi pubblici, e prima di tutto il presidente Morsi e il clero. 

Durante lo show, il comico salta da un video all’altro trasmettendo brevi clip di dichiarazioni rilasciate da figure note e facendo della satira sul loro contenuto.

“I politici che amano il mio show quando critico i loro avversari, poi mi chiamano per lamentarsi quando ad essere presi di mira sono proprio loro”, ha dichiarato Bassem con un certo sconforto.

In passato El-Barnameg è stato più volte al centro delle polemiche e alcuni lo hanno addirittura accusato di blasfemia.

“La società egiziana è di vedute ristrette. La gente non sa distinguere che differenza c’è fra criticare qualche personaggio ‘barbuto’ e insultare l’Islam come religione”, ha commentato difendendosi. 

Chirurgo di professione, medico volontario a piazza Tahrir durante i diciotto giorni di proteste che hanno abbattuto il regime di Mubarak, Bassem si definisce un musulmano praticante e si rifiuta di interpretare l’attuale caos politico egiziano come lotta fra uomini di fede e secolarizzati.

A suo parere infatti il problema è come l’Islam politico – dai Fratelli Musulamani ai Salafiti – stia gestendo il potere e usando la religione in modo distorto.

 

LIBERI, MA NON TROPPO

 

L’attacco che lo riguarda e la vicenda che lo vede protagonista non rappresentano un caso isolato, ma solo l’ultimo di una serie di atti giudiziari volti a colpire l’opposizione politica in Egitto.

Venerdì scorso era stata la volta di nove attivisti e quattro avvocati di Alessandria, finiti nel mirino della magistratura e chiamati a presentarsi davanti alla giustizia.

Dieci giorni fa, dopo gli scontri davanti alla sede della Fratellanza, la Procura aveva ordinato l’arresto di cinque prominenti esponenti del movimento egiziano pro-democrazia.

Nonostante Morsi avesse promesso di rompere con il passato autoritario e garantire la libertà di stampa e di espressione, sotto la sua presidenza la repressione del dissenso è proseguita, con metodi aggressivi che ricordano l’epoca di Mubarak e dell’interregno militare dello SCAF.

Attualmente, le linee rosse che i media non possono oltrepassare sono tre: la figura del Presidente, il movimento dei Fratelli Musulmani e i valori religiosi.

E la serie di indagini aperte è lunga, così come l’elenco di giornalisti, blogger e conduttori televisivi finiti sotto inchiesta.

A due anni dalla rivoluzione del 25 gennaio, la Freedom House ha classificato l’informazione in Egitto come “parzialmente libera”, evidenziando come il settore mediatico sia l’ennesimo in cui la transizione non sembra ancora andare nella direzione sperata.

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Egitto. Fotografia di una transizione

La transizione egiziana in diciannove ‘ritratti’: “All’inizio è tutto cominciato per gioco”, poi si è trasformato in “Voices of a transition”.

 

Arrivata al Cairo nell’ottobre del 2011, Lavinia Parlamenti è rimasta nel paese per tre mesi. I ‘protagonisti’ del suo progetto fotografico incarnano i tanti volti della transizione politica: donne e uomini, giovani e anziani, musulmani e copti, personaggi famosi e gente della strada. Ognuno con una storia diversa da raccontare, ma tutti con lo sguardo puntato verso lo stesso futuro dai contorni incerti.

 

Come nasce l’idea di realizzare ‘voices of a transition’?

Appena arrivata al Cairo, ho cominciato a scattare delle fotografie più ‘tradizionali’ ma presto mi sono resa conto di voler fare qualcosa di diverso. Volevo raccontare il momento di transizione politica che il paese stava attraversando, rappresentando esteticamente questo sentimento di passaggio. Perciò, ho deciso di utilizzare una tecnica che, contemporaneamente, comunicasse sia un’idea di dissolvenza che di presenza.

All’inizio è tutto cominciato per gioco. La prima ragazza che ha posato per me è stata Hadeer, una studentessa delle superiori. L’avevo conosciuta attraverso un amico del posto e volevo usare questo primo scatto come un ‘test’ per i successivi. Alla fine però la foto mi è piaciuta talmente tanto che l’ho tenuta e, dopo questo primo tentativo, è stato tutto più facile. Mi è bastato far vedere la foto di Hadeer agli altri ‘soggetti’ per fargli capire che tipo di lavoro avevo in mente.

E la scelta dei personaggi? 

Il dipanarsi degli eventi politici mi ha un po’ guidato nella scelta dei personaggi. Mentre vivevo questa mia prima esperienza da turista-lavoratrice nella capitale egiziana, le notizie che mi incuriosivano di più erano il punto di partenza per andare a caccia di volti da ritrarre. 

Per esempio, durante le manifestazioni dei Fratelli Musulmani, sono andata a cercare un membro di questo movimento politico. Spesso non è stato possibile ottenere quello che volevo perchè non tutti erano disponibili a farsi immortalare. Infatti molti ritenevano che questo tipo di fotografia fosse un po’ eccentrico.

Hai mai avuto problemi durante la realizzazione del progetto?

Sì, lo racconto anche nel mio sito web. Proprio quando avevo iniziato, la mia attrezzatura è stata rubata e distrutta. Forse per inesperienza o forse per troppa audacia, durante i primi giorni di scontri, io e una collega ci siamo addentrate in una ‘zona militare’ in cui ci avevano detto che si sarebbe tenuta una conferenza per i giornalisti.

Ma quando ormai era troppo tardi, ci siamo accorte che si trattava di un’informazione falsa e in men che non si dica ci siamo ritrovate in mezzo ad una ‘sassaiola’.

Anche se stavamo insieme a molti colleghi uomini, i poliziotti son venuti dritti contro noi due. Ci siamo prese qualche bastonata in testa, le solite mano addosso e l’attrezzatura è stata confiscata. Inoltre, ci hanno portato in un commissariato dove siamo rimaste per quattro ore.

Da giovane fotografa occidentale, come hai vissuto Tahrir?

Tahrir è un luogo talmente emoziante che è normale rimanerne rapiti. A fine novembre 2011, in piazza c’erano tre ‘attori’: i manifestanti, i poliziotti e un esercito di fotografi e giornalisti.

Trattandosi della mia prima esperienza, sicuramente ho imparato tanto a livello professionale su come ci si muove in ‘ambienti’ come questi. Tenere sempre gli occhi aperti è fondamentale perchè la situazione è molto delicata.

Il fatto di fare delle fotografie – avere un mezzo fotografico fra te e le persone – amplifica le difficoltà, perchè ti obbliga a guardare, a cercare un contatto anche con gli uomini e, per molti, è una cosa un po’ sopra le righe.

Durante la mia permanenza nel paese, il problema delle aggressioni fisiche contro le manifestanti donne ha cominciato a farsi sentire. Io stessa sono stata aggredita con una collega. Dopo di noi c’è stato il caso di un’altra giornalista e di una violenza sessuale contro una manifestante. La presenza femminile in piazza è considerevole, ma la battaglia per i diritti di genere è una rivoluzione nella rivoluzione.

Ancora Egitto nel futuro?

Sicuramente ho in mente di tornare in Egitto e seguo anche da qua l’evolversi della situazione. Mi piacerebbe  ampliare il mio progetto con un ritratto ad un ultras dell’Ahly.

Ad un fotografo che oggi si mette in viaggio per documentare la transizione egiziana, consiglierei  però di puntare su città ‘secondarie’ come per esempio Mansura e Port Said. Sono ancora tantissime le storie da raccontare e, in fin dei conti, la rivoluzione riguada l’intero paese non solo la sua capitale.

 

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Iraq. James Steele, l’uomo del mistero e il ‘mago’ della counterinsurgency

‘Dieci anni dopo’, un’inchiesta firmata da Guardian e BBC Arabic fa luce sul ruolo dell’ex-colonello statunitense James Steele in Iraq. La storia dell’esperto di counterinsurgency è ‘ambientata’ durante uno dei capitoli più oscuri dell’occupazione americana e arriva sino in Vietnam.

 

IL ‘MAGO’ DELLA COUNTERINSURGENCY

Steele è considerato un veterano delle cosiddette guerre sporche ed è diventato ‘famoso’ soprattutto per il suo impegno in Vietnam ed El Salvador.

“Intelligente, duro e attento osservatore”, così lo descriveva Donald Rumsfeld (allora ministro della Difesa), in una nota inviata al presidente Bush e al suo vice Cheney.

“E’ un individuo privo di umanità: il gran numero di guerre in cui ha combattutto e i vari tipi di tortura commessi, sia in Iraq che in altre parti del mondo, lo hanno privato di qualsiasi emozione”, ha detto di lui il generale iracheno Muntadher al-Samari.

In Vietnam, James Steele ha ‘familiarizzato’ con le tecniche ‘antiguerriglia’, combattendo nel reggimento dei Cavalli neri. In El Salvador, invece, ha ‘capeggiato’ l’MilGroup, un corpo di consiglieri speciali inviati dagli americani per ‘istruire’ il governo locale su come reprimere la ribellione di sinistra scoppiata nel paese.

“E’ un vero militare, di grande disciplina, sono davvero rimasto molto colpito da lui. (…) Senza il suo consenso, non si muoveva nulla”, ha dichiarato Celerino Castillo, agente speciale dell’esercito regolare di El Salvador.

James Steele è arrivato a Baghdad nel 2003, con l’incarico di consulente del settore energetico per l’amministrazione americana e è rimasto nel paese fino al 2005. Del suo ruolo durante l’occupazione si sapeva poco, almeno fino alla pubblicazione dell’inchiesta di Guardian e BBC Arabic. A documentarne la sua presenza del paese c’era solo un breve filmato youtube e qualche foto.

 

GLI IRACHENI LO FANNO MEGLIO, MA SOTTO LA SUPERVISIONE AMERICANA

Appena dopo l’invasione, gli Stati Uniti iniziano ad addestrare la polizia irachena per quella che pensavano sarebbe stata una transizione pacifica. Ma con l’escalation dell’insurrezione di matrice sunnita, il numero di soldati americani uccisi cresce esponenzialmente, la guerra diviene impopolare e la crisi irachena minaccia la rielezione di Bush.

Fino alla primavera del 2004, la repressione degli insorti era stata principalmente affidata ai militari americani ma con scarso successo.

Perciò, l’amministrazione, messa alle strette, si vede costretta a un cambio di strategia: la creazione di forze ‘speciali’ di polizia composte esclusivamente da iracheni, sotto la supervisione di esperti americani in ‘counterinsurgency’.

La decisione di creare questi ‘commandos‘ viene materialmente presa da Falah al-Naqib, ministro degli Interni iracheno durante il governo di Allawy che, insieme agli americani, decide di ‘abbandonare’ parzialmente il principio di de-baathificazione, mettendo a capo di queste nuove forze di sicurezza degli ufficiali che avevano ‘lavorato’ durante il regime di Saddam, in primis il sunnita Adnan Thabit, che ne diviene il leader.

Secondo l’inchiesta di Guardian e BBC Arabic, più tardi i ranghi di questi commandos speciali vengono integrati anche da milizie sciite, desiderose di ‘dare una lezione’ agli insorti.

L’organizzazione e l’addestramento di queste forze speciali viene affidata a un circolo molto ristretto di ‘esperti americani’ che svolgono principalmente un ruolo di consulenza. James Steele (da civile) ne diventa il capo indiscusso, con il compito di supervisionare le forze locali anti-guerriglia e dirigere la caccia agli insorti.

Sempre l’inchiesta sottolinea come l’ex-colonnello statunitense abbia collaborato quotidianamente con i commandos speciali iracheni, fornendogli liste di individui da catturare e provvedendo ad organizzare il trasferimento dei prigionieri in centri per gli interrogatori gestiti dagli americani.

 

LE PRIGIONI SEGRETE

Per ottenere informazioni sull’insurrezione, vengono istituiti dei centri di detenzione segreti dove le forze speciali di polizia portano gli individui arrestati durante i raid. Secondo il generale al-Samari, le prigioni segrete sarebbe state quattordici o quindici in tutto, sparse in tutto il paese e sotto il controllo del ministero degli Interni.

Gli americani erano a conoscenza di tutto quello che succedeva al loro interno, uccisioni e torture comprese. Il generale (attualmente residente in Giordania) racconta anche di come lo stesso Steele abbia visitato uno di questi centri a Baghdad in sua presenza.

Ottenere informazioni dai detenuti era un’operazione di routine per i commandos speciali iracheni e i loro supervisori americani. I sopravvissuti agli interrogatori hanno rivelato di essere stati sottoposti ai più svariati tipi di abusi come percosse, stupri, minacce con armi da fuoco ed elettroshock.

La città di Samarra, a nord di Baghdad, è stata uno dei più importanti banchi di prova per la nuova strategia di ‘counterinsurgency’ adottata dall’amministrazione americana.

Qui, i commandos e i militari americani hanno istituito un centro di detenzione all’interno della biblioteca principale della città. Il giornalista Peter Maass, che ha avuto l’occasione di visitarlo nel 2004 (mentre alloggiava a casa dello stesso Steele, ndr), scrive: “C’erano circa 100 detenuti accucciati sul pavimento con le mani legate dietro la schiena e la maggior parte di loro erano bendati”.

“Alla mia destra, un ufficiale […] stava picchiando e dando calci ad un prigioniero che giaceva a terra. Sono entrato in una stanza adiacente al corridoio principale, e, al momento del mio ingresso, è uscito un detenuto con il naso sanguinante [..] poi a pochi minuti dall’inizio dell’intervista, un uomo ha cominciato a gridare nel corridoio principale Allah Allah Allah, [..] , e non erano grida di estasi ma urla disperate di una persona impazzita”.

 

L’EPILOGO

Secondo Todd Greetree (ambasciatore americano in El Salvador) esiste un filo rosso che collega le strategie di repressione delle insurrezioni messe in atto dal Vietnam in poi.

Perciò, non deve sorprendere che individui come Steele, associati a quel tipo di guerra e profondi conoscitori di tutti i suoi segreti, ricompaiano in momenti diversi della storia, per mettere la propria ‘expertise‘ a servizo dello Stato.

Steele ha lasciato l’Iraq nel settembre del 2005 e, dopo la sua partenza, i commandos hanno continuato ad operare ed ingrandirsi, arrivando a contare 17.000 membri.

Il Guardian e la BBC Arabic hanno cercato di intervistarlo, ma si è rifiutato. Al microfono del giornalista Peter Maass, avrebbe però dichiarato di essere contrario alle violazioni dei diritti umani.

E sebbene il suo operato in Iraq dimostri il contrario, sarà davvero difficile che quest’uomo diventi oggetto di un’inchiesta giudiziaria. Attualmente, l’ex-colonnello vive in Texas e di tanto in tanto, tiene lezioni universitarie sulle tattiche di counterinsurgency.

 

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Egitto. Giù le mani da Port Said: le Green Eagles a difesa della città

Da due mesi le proteste a Port Said si sono riaccese. Al centro delle agitazioni le Green Eagles, il gruppo ultras che sostiene il club calcistico locale al-Masry. Legati alla città e molto strutturati a livello organizzativo, sono ormai un attore centrale delle rivendicazioni e delle lotte locali.

 

La stampa internazionale ha cominciato a parlare di questo gruppo nel febbraio del 2012 quando, in seguito al massacro dello stadio di Port Said, la tifoseria locale è stata accusata di essere la principale responsabile delle violenze.

Tuttavia, le Green Eagles si sono sempre difese, puntando a loro volta il dito contro il regime e dichiarando che, dopo gli scontri nello stadio, molti dei loro leader sono stati arrestati in maniera arbitraria dalle autorità.

Con una sentenza dello scorso 26 gennaio, 21 membri di questo gruppo sono stati condannati a morte proprio per i fatti dello stadio. In seguito all’emanazione del verdetto, i loro compagni hanno guidato le proteste esplose davanti al carcere della città. 

Poi, durante il mese di febbraio, gli ultras di al-Masry hanno detenuto la leadership del movimento di disobbedienza civile che ha interessato Port Said, ricevendo anche il sostegno dei lavoratori.

In un comunicato del 17 febbraio scorso, il gruppo ultras ha dichiarato: “La campagna di disobbedienza civile mira a fare giustizia per i martiri di Port Said, portare davanti al giudice i poliziotti che hanno aperto il fuoco contro i manifestanti inermi, far includere i morti della nostra città  fra i martiri della rivoluzione egiziana ed evitare la politicizzazione del processo in corso”.

Lo scorso 9 marzo, la vicenda giudiziaria relativa al massacro dello stadio si è conclusa con un secondo round di sentenze e la conferma delle 21 condanne a morte per gli ultras di al-Masry.

 

LA REAZIONE

 

In un comunicato riportato da al-Watan, le Green Eagles hanno attaccato i giudici e dichiarato che si tratta di una sentenza “politicizzata”, volta a placare gli animi della tifoseria dell’Ahly, molto temuta dal regime per il suo ruolo nella rivoluzione.

Per la tifoseria di al-Masry, la sentenza è ingiusta e rappresenta uno strumento di ‘oppressione’ nei confronti della loro città e della sua popolazione.

“Noi difendiamo chiunque sia vittima di un’ingiustizia – sia egli ahlawy o masrawy – l’ingiustizia per noi non ha colore (calcistico) e come difendiamo i nostri saremo pronti a difendere gli altri”, hanno scritto le Green Eagles in un post sulla loro pagina Facebook, esprimendo il proprio risentimento per la gioia di parte della tifoseria avversaria alla notizia delle condanne a morte dei loro compagni.

Inoltre, hanno aggiunto, “il regime deve sapere che non può abusare di Port Said o farne un capro espiatorio”.

Gli ultras pretendono il ripristino dei diritti economici per le famiglie dei martiri – i morti durante le manifestazioni e gli scontri di piazza che, se dichiarati ‘martiri della rivoluzione’, hanno diritto ad un sussidio economico per le famiglie – sia per le vittime di una sentenza considerata “ingiusta” (le condanne a morte).

Nei loro comunicati, denunciano la corruzione del regime di Morsi e si scagliano violentemente contro le forze dell’ordine che apostrofano con epiteti poco lusinghieri, come “cani” o “delinquenti”. 

Scendi, partecipa, resisti al sistema”, così si concludono gran parte dei comunicati con cui il gruppo esorta sia i propri membri sia i cittadini di Port Said ad unirsi alle proteste di piazza.

 

PORT SAID: TRA CALCIO E POLITICA

 

Il gruppo ultras Green Eagles, anche conosciuto con l’acronimo UGE,  nasce nel 2009 a Port Said. Conta oltre 2000 membri, tutti supporter del club calcistico locale, l’al-Masry, fondato a sua volta nel 1919.

Questa squadra, il cui nome in italiano significa ‘l’egiziano‘, fu fondata come “espressione del nazionalismo, in seguito al movimento contro l’occupazione britannica guidato da Saad Zaghloul”. 

Fu il primo club egiziano attivo nella città perché il panorama calcistico, fino a quel momento, era stato dominato dai team delle comunità straniere residenti intorno al Canale di Suez. A dare vita ad al-Masry furono i lavoratori egiziani, sotto la guida del sindacalista Moussa Effendi.

Secondo al-Masry al-Youm, il supporto delle Green Eagles non è confinato al club calcistico locale, ma si estenderebbe a tutta la città di Port Said, con cui il legame emotivo e politico è fortissimo.

Non a caso il motto principale di questo gruppo è “Eredi del 56”, che richiama il ruolo eroico svolto dalla città in quell’anno contro l’aggressione tripartita di Francia, Regno Unito ed Israele in seguito alla nazionalizzazione del Canale di Suez da parte dell’ex-presidente Nasser.

Gli Ultras non solo partecipano a tutte le partite del club calcistico locale (sia in casa che in trasferta) ma organizzano anche una festa ogni anno per celebrare gli eventi del ’56 con fuochi d’artificio, graffiti, canti e slogan che fanno parte del loro repertorio. 

Anche se sicuramente il più importante per dimensione e organizzazione, non è il solo gruppo ultras operante nella città: nel 2010 infatti si è costituita un’altra corrente, i Masrawy, che sostengono sempre al-Masry e siedono nel ‘elmodarragh elgharbi‘ (traducibile nella nostra espressione “curva nord”) con le Green Eagles.

 

L’ATTIVISMO ON-LINE E IN PIAZZA

 

Gli ultras di al-Masry sono molto attivi in rete, soprattutto sui social network. La loro pagina Facebook principale è seguita da quasi 60 mila persone, e oltre ad essere aggiornata frequentemente è corredata da tantissime foto di manifestazioni. Il gruppo ha anche un suo canale Youtube.

Analizzando i post pubblicati, ci si accorge della sua importanza a livello organizzativo, con comunicati che segnalano l’ora e il luogo di tutte le assemblee e manifestazioni degli ultimi mesi.

L’identificazione del gruppo ultras con la città di Port Said è molto radicata e, come nota il quotidiano al-Masry al-Youm, la ‘rivoluzione’ di cui parlano è focalizzata sui problemi locali piuttosto che avere un respiro nazionale.

Un membro del gruppo che ha chiesto di rimanere anonimo avrebbe dichiarato: “La nostra rivoluzione è contro l’oppressione che il regime pratica verso Port Said in maniera particolare (…). La sentenza di morte emessa dal giudice non è solo contro il nostro gruppo ultras ma contro tutta la città (…), tutti i componenti delle ‘Aquile Verdi’ sono Saidi, non c’è nessuno fra i membri che provenga da altre parti dell’Egitto”.

Il caso giudiziario dello stadio di Port Said ha creato un baratro fra questa città e la capitale. I cittadini si sentono non solo marginalizzati ma addirittura presi di mira dal regime. E gli ultras locali sono i veri portavoce di questo sentimento che è però profondamente diffuso in tutta la società.

Le Green Eagles sono diventate un attore politico fondamentale a livello locale, molto sensibile alle rivendicazioni e alla sete di giustizia della cittadinanza. Svolgono un ruolo centrale nell’organizzazione delle manifestazioni e sono sempre in prima linea negli scontri e nelle marce.

Tuttavia, son ben lontani dall’aver articolato un’agenda politica strutturata e, secondo alcuni analisti, durante la campagna di disobbedienza civile, il coordinamento con le altre forze politiche (come i sindacati e le istituzioni economiche) è stato debole. 

Inoltre, fare dei martiri il tema principale delle proteste senza dare spazio ad altre questioni sociali importanti è stato forse roppo restrittivo.

 

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Egitto. Violenze sui bambini: la rivoluzione non arriva nelle carceri

In prima linea nelle proteste di piazza, adolescenti e bambini continuano a pagare a caro prezzo il loro ‘impegno’ nella rivoluzione. In un Egitto sempre più in balìa dell’instabilità politica e della violenza, gli abusi delle forze dell’ordine e dei militari non hanno risparmiato neanche i minori.

 

“Cosa ti fa più paura?” chiede la voce fuori campo. “I blindati della polizia”, risponde Zeyd Taysin Mohammed, dodici anni, mentre si tocca nervosamente il viso e racconta la sua storia in un video postato su internet dal collettivo Mosireen.

Zeyd stava camminando in una via centrale del Cairo quando la gente intorno a lui ha cominciato a correre. E’ allora che i poliziotti l’hanno preso e buttato di peso nel loro furgone. “Se non ci dici chi ti paga per protestare, ti tagliamo la gola e gettiamo il tuo corpo in mare”, gli hanno urlato.

“Dentro il blindato eravamo in sei e due di noi hanno subìto violenze sessuali – spiega Zeyd –. C’era anche un ragazzo copto, Kirollos e quando gli agenti gli hanno trovato un crocifisso addosso, volevano farlo a pezzi”.

Una volta in carcere, Zeyd è stato messo in una cella con altre 179 persone (adulte). L’hanno accusato di appartenere ai Black Block e di aver lanciato Molotov contro gli agenti durante una manifestazione.

 

I DIRITTI NEGATI

Secondo il collettivo Mosireen, in occasione del secondo anniversario della rivoluzione, le forze dell’ordine egiziane hanno condotto la più grande campagna di arresti a carico di minori dell’era post-Mubarak: 250 ragazzi sono stati portati in prigione e sottoposti a torture corporali, psicologiche e sessuali.

Nel settembre dello scorso anno invece, durante le manifestazioni davanti all’ambasciata americana, sono stati arrestati 136 minori, mentre sono 300 in tutto quelli finiti in carcere fra la fine del 2011 e novembre 2012.

Secondo Human Rights Watch, in Egitto i minori vengono arrestati e reclusi illegalmente in centri di detenzione per gli adulti, senza poter parlare con uno psicologo o vedere la famiglia (spesso neanche avvertita dell’arresto).

I bambini intervistati dalla ong hanno testimoniato di aver subito maltrattamenti fisici.  “Poliziotti e militari ci hanno preso a calci, percossi con l’impugnatura di fucili e bastoni e sottoposti all’elettroshock”, si legge nel rapporto.

Morsi ha promesso di porre fine alle violenze sui minori ma, secondo il ricercatore Priyanka Motaparthy, se è davvero intenzionato a farlo, deve dare massima priorità alle indagini sugli abusi e impegnarsi a perseguire penalmente i responsabili.

Sally Toma, psichiatra e fondatrice della campagna Kazeboon, ha dichiarato: “Gli abusi delle forze dell’ordine sono un fenomeno radicato nella quotidianità egiziana. Dopo la rivoluzione però gli attivisti ne sono diventati le vittime principali e, fra loro, vi sono molti bambini che stanno ancora combattendo in prima linea contro il regime. [..] I più piccoli sono arrestati durante le proteste, portati nelle stazioni di polizia o nei campi militari e sottoposti ad abusi, anche sessuali”.

“Una volta liberati – continua – tornano in piazza a protestare e lì il ciclo ricomincia con nuovi arresti e nuove violenze. [..] In un certo senso, il regime sta ‘plasmando’ una generazione pronta a tutto pur di eliminarlo, e carica di odio contro le autorità”.

Purtroppo, le leggi in vigore non sono rispettate e i diritti garantiti dal sistema giuridico rimangono solamente sulla ‘carta’.

Infatti, l’Egitto ha ratificato la Convenzione sui Diritti del Fanciullo il cui articolo 37 prevede che l’arresto e la detenzione dei minori siano ‘misure di ultima istanza’, usate solo per periodi di tempo brevi e in conformità con la legislazione nazionale.

Inoltre, la legge egiziana dispone che i bambini sotto i dodici anni non siano penalmente perseguibili mentre la custodia cautelare non può essere applicata ai minori di quindici anni. Le autorità sono quindi incoraggiate a non privare i più piccoli dell’ambiente famigliare salvo che in casi eccezionali e per periodi molto circoscritti.

Infine, in base alla legge n.126 del 2008, spetta al tribunale minorile giudicare questi casi e i pubblici ufficiali che permettono la detenzione di minorenni insieme ad adulti sono perseguibili penalmente.

“Non è chiaro perché le autorità giudiziarie continuino ad ignorare la legislazione in materia – ha dichiarato Motaparthy –. I giudici non dovrebbero decidere in modo arbitrario delle vite dei più piccoli, anche se è quello che stanno facendo”.

 

LA RIVOLUZIONE DEI “PICCOLI”

Prima della rivoluzione, i bambini di strada si affidavano a dei centri di aiuto per ricevere cibo, medicinali e altri beni di prima necessità. Con l’inizio delle proteste e dell’instabilità politica, molti di questi centri hanno chiuso e i bambini si sono ritrovati ancora più soli di prima.

Secondo il ricercatore Andrew Wander, molti sono stati attratti dal ‘festival di Tahrir’ e hanno preso parte alle manifestazioni.

Ma l’euforia iniziale ha presto lasciato spazio alla paura e, quando la violenza è esplosa, questi bambini sono diventati bersaglio di maltrattamenti e violazioni da parte delle forze dell’ordine.

Per loro, Tahrir è stata un’opportunità per ‘vendicarsi’ degli abusi subìti sotto Mubarak e la prima vera occasione per sentirsi parte della comunità egiziana. Tuttavia, dopo la rivoluzione, l’intolleranza nei loro confronti è cresciuta notevolmente.

Secondo Frida Alim, i media hanno giocato un ruolo centrale a questo riguardo, dipingendoli come criminali.

“In realtà – spiega la ricercatrice – molti di loro scappano da famiglie ‘violente’ e sono stati vittime di maltrattamenti anche fra le mura domestiche”.

La maggior parte di questi bambini vive al Cairo e ad Alessandria: secondo le fonti governative sarebbero circa 50.000, ma le statistiche delle ong sono molto più alte (dai 250.000 ai 2 milioni).

Le loro storie fanno luce su una ‘piaga sociale’ enorme, tanto più preoccupante e difficile da gestire perché circondata da una profonda omertà.

“E’ sorprendente come in Egitto il prezzo dei pomodori faccia arrabbiare la gente molto più degli abusi sui minori”, ha scritto su Twitter la ricercatrice Nelly Ali, la settimana scorsa.

Il fatto che molti di loro non abbiano documenti identificativi costituisce un altro grande problema.

Primo, perché senza carta di identità non possono accedere ad alcuni servizi di base come l’educazione e la sanità. Secondo, perché la polizia li arresta proprio con questa scusa, facendoli diventare due volte vittime del sistema politico e giudiziario egiziano.

In un Egitto in transizione, la morsa del regime sui ‘rivoluzionari’ si fa sempre più stretta. E la violenza delle forze dell’ordine è lo ‘strumento principe’ con cui eliminare gli attivisti dalle piazze: anche i più piccoli.

 

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Egitto. Quando la violenza sulle donne diventa un atto politico

“Sono copta e donna: orgogliosa di entrambe le cose. Ma non mi sono mai sentita ‘chiusa’ dentro queste due categorie. Sin da piccola, mi hanno insegnato che l’unica cosa che dovevo essere è una cittadina sempre pronta a rivendicare i propri diritti”. Così si presenta Sally Toma*. Psichiatra, attivista e fondatrice della campagna Kazeboon.

 

Nel tuo lavoro di attivista hai fondato la campagna Kazeboon (‘bugiardi’).

La campagna è nata dal lavoro di quattro donne e due uomini e ha avuto molto successo. Si occupa di fare informazione attraverso media alternativi perché, secondo noi, la televisione in Egitto è un mezzo di comunicazione obsoleto, una fabbrica di bugie.

L’obiettivo era di mostrare quartiere per quartiere le violazioni commesse dal regime attraverso la proiezione di documentari.

All’inizio eravamo in solo sei, ma nel giro di un mese abbiamo realizzato 500 proiezioni e gli attivisti sono saliti a quota 60.000 in tutto il paese. Dopo che Morsi ha preso il potere, la campagna ha cambiato nome diventando ‘kazeboon nel nome della religione’.

Come nasce l’idea?

Forse ricorderete la storia della ragazza malmenata in piazza Tahrir e apparsa sulle copertine di mezzo mondo con indosso solo un reggiseno blu. Lei è la ragione per cui abbiamo dato il via al nostro progetto: la sua storia spiega bene come le donne vengono trattate durante gli scontri.

Io sono stata aggredita a pochi metri di distanza da lei, mi ha ‘salvata’ solo l’intervento di una guardia dell’ambasciata americana che non voleva problemi davanti al palazzo. Mi ha preso per i capelli e mi ha trascinata via. Invece quella ragazza non ha avuto la stessa fortuna.

Quando le sue foto sono state pubblicate, la gente in Egitto ha cominciato a chiedersi come mai si trovasse lì, perché sotto i vestiti portasse solo un reggiseno, e come mai fosse proprio blu. Un abbigliamento intimo di quel colore desta sospetti nel mio paese (ride).

In Egitto negli ultimi mesi la vita delle attiviste è stata molto dura e il fenomeno delle violenze di gruppo nelle piazze comincia a fare paura. Tu cosa ne pensi?

Le molestie sessuali sono, purtroppo, un fenomeno presente da molto tempo nelle strade del paese. Ma i casi di violenza e aggressione di gruppo in mezzo alla folla non possono essere assimilati alle molestie ordinarie con cui le donne egiziane hanno purtroppo a che fare ogni giorno.

Sono un atto politico, un modo per uccidere la rivoluzione eliminando la presenza femminile dalle piazze. I media hanno cominciato a parlarne nel 2005, e, da allora, abbiamo spinto per ottenere una legislazione in merito.

Alcune persone sono finite in prigione e hanno subito condanne lievi: non è molto, ma almeno è un inizio. Il fatto positivo è adesso in piazza Tahrir si sono costituiti gruppi di difesa delle manifestanti che lavorano perché le donne continuino a protestare sentendosi al sicuro.

La difesa dei diritti di genere passa anche attraverso la legislazione. A questo riguardo, la nuova Costituzione come tutela le cittadine egiziane?

In primo luogo, non ritengo che si tratti di una vera Costituzione. E’ il frutto del lavoro di un’assemblea formata al 90% da uomini, islamisti: non rappresenta nessuno se non i Fratelli Musulmani. Nel testo non c’è spazio per le donne, i copti, le popolazioni del Sinai e quelle del Nuba. L’articolo 36 – contro cui abbiamo protestato durante la sua stesura – è orribile. Impone la shari’a come fonte del diritto e limita i diritti di genere.

Ma, in fin dei conti, questa è una Costituzione che non durerà a lungo. Non fornisco molta importanza a questo testo, non sono neanche andata a votare al referendum perché quella egiziana, oggi, non è una democrazia reale. L’intero sistema deve essere abbattuto, poi potremo ricominciare a costruire qualcosa di nuovo dalle sue ceneri. Ma abbiamo bisogno di un periodo di transizione che ci lasci vedere i Fratelli in azione. Così il loro fallimento sarà chiaro a tutti gli egiziani.

L’Egitto ha avuto le quote di genere in passato, poi invece le ha abbandonate. Potrebbero essere uno strumento utile a promuovere gli interessi delle donne?

Bisogna fare attenzione. Il vero problema non sono le quote di genere ma come vengono ‘costruite’ le liste elettorali. Se la legge sulle quote impone di inserire una donna nella lista senza menzionare in quale posizione, i leader dei partiti politici la metteranno probabilmente in fondo e ad entrare in Parlamento saranno solo gli uomini, i quali non hanno interesse ad avere le donne nelle prime posizioni.

Questo è un problema non solo dei partiti islamisti, ma anche delle formazioni di sinistra e dei liberali. Un esempio di “quote rosa” molto riuscito – perché prevedeva la regola dell’alternanza di genere fra i candidati – è invece quello tunisino.

Credi che le quote bastino a promuovere una legislazione più rispettosa dei diritti delle donne?

Di solito sono contraria a misure di ‘discriminazione positiva’. Penso che le donne debbano candidarsi e competere con i colleghi maschi sulla base delle loro capacità. Ma in paesi come l’Egitto – dove non siamo prese sul serio – c’è bisogno di una spinta iniziale che può essere data dalle quote. Più tardi poi, quando le donne avranno consolidato la loro posizione all’interno delle istituzioni, potranno essere rimosse.

In generale, sono contraria alle divisioni di genere: credo che le donne non debbano essere isolate, ma partecipare alla vita sociale nel suo insieme. E gli uomini dovrebbero vederle: non protette, ma comunque sul campo di battaglia che lottano e che guidano l’azione.

Durante la rivoluzione Internet ha favorito la mobilitazione degli attivisti. Potrebbe avere un ruolo analogo in relazione ai diritti di genere?

Internet è uno strumento, proprio come il telefono. Certamente è molto utile quando c’è bisogno di ‘mappare’ la realtà e far sentire la propria voce, ma di per sé non è risolutivo. E’ un mezzo, non un fine.

Se sono in pericolo durante uno scontro con la polizia non sarà Internet a salvarmi: a fare la differenza sarà la strada e quello che c’è in strada. Sono le donne che scendono in piazza, che si aiutano reciprocamente e si danno forza l’un l’altra, consapevoli di appartenere alla strada proprio come gli uomini: il loro spazio personale deve essere rispettato.

Da psichiatra ed esperta di violenze, quali consigli ti senti di dare alle attiviste?

Quando scrivo le linee guida per ‘preparare’ le donne a scendere in piazza, tendo a dare molta importanza al comportamento. L’abbigliamento non è determinante: in realtà se evitano di coprirsi eccessivamente è meglio, perché in questo modo dimostrano sicurezza.

Il comportamento invece è fondamentale: guardare le persone negli occhi quando si cammina, specialmente gli uomini e dare l’impressione di  essere una di cui è difficile prendersi gioco. Sono accortezze che possono proteggere in parte dalle molestie ‘normali’. Quelle di gruppo, tra la folla, sono una storia completamente diversa perché sono dirette dal regime e il loro scopo dichiarato è porre fine alla tua presenza in piazza.

Credi che la crisi economica e il protagonismo femminile abbiano in qualche modo messo in crisi il concetto di mascolinità dell’uomo egiziano, portando a un aumento della violenza contro le donne?

In Egitto nel 65% delle famiglie più povere le sole persone a lavorare sono le donne, anche se ricevono una retribuzione inferiore rispetto agli uomini. Il forte tasso di disoccupazione della popolazione maschile ha fatto indubbiamente peggiorare i problemi legati alla violenza di genere.

A questo riguardo, c’è bisogno di un grande cambiamento culturale a partire dall’istruzione. La cultura del machismo è ovunque, non solo nei partiti islamisti.

I leader politici, in generale, preferiscono che le donne non occupino posizioni di rilievo né desiderano davvero dare loro potere. Sono ancora molto arretrati, anche quando sono convinti di essere progressisti. Possono arrivare a difendere i diritti dei gay, ma è molto difficile che difendano quelli delle donne.

 

* Lo scorso 7 marzo Sally Toma è stata relatrice della conferenza promossa dalla europarlamentare Silvia Costa (Pd) e dall’Institute of European Democrats (IED) a Roma.

 

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Egitto: la stretta (finale) sulle Ong

A scatenare le paure degli operatori del settore sono stati due provvedimenti: un nuovo disegno di legge – proposto da un consiglio della Shura a maggioranza islamista – e una lettera firmata da Morsi. Nell’Egitto post-Mubarak, anche la libertà di associazione è costantemente in pericolo.

 

LE INIZIATIVE DI MORSI

Il disegno di legge per la riforma del settore relativo alla gestione delle Ong è attualmente in discussione presso la Camera alta del Parlamento egiziano. Ma la stampa internazionale e quella locale l’hanno già fortemente criticato, giudicandolo troppo ‘severo’, soprattutto in materia di finanziamenti esteri, con un linguaggio fin troppo ‘vago’ che lascerebbe spazio a interpretazioni restrittive del suo contenuto.

La bozza in questione permette alle organizzazioni di operare solo in due settori: sviluppo e welfare, mentre vieta esplicitamente tutte le attività politiche e sindacali o che in qualche modo siano suscettibili di minacciare l’unità nazionale, l’ordine pubblico e la morale.

In base al testo, la cooperazione con gli enti stranieri è ammessa esclusivamente sotto lo stretto controllo del governo.

I finanziamenti provenienti dall’estero sono invece proibiti (sia nel caso in cui arrivino da enti egiziani che stranieri), salvo previa approvazione di un comitato di coordinamento composto da rappresentanti di alcuni ministeri, della banca centrale e dell’agenzia per la sicurezza nazionale che agiranno in coordinamento con il premier e con gli altri soggetti competenti.

Secondo il presidente del comitato giuridico del partito di Libertà e Giustizia, tali restrizioni sarebbero volte ad impedire che le organizzazioni non governative “agiscano contro gli interessi nazionali (dietro finanziamento estero) o siano usate per il riciclaggio di denaro sporco”.

La legislazione attualmente in vigore prevede infatti che il nullaosta per ricevere soldi dall’estero debba arrivare solo dal ministero per gli Affari sociali. Invece, con l’approvazione della nuova bozza, questo ‘processo’ si complicherebbe sia per l’entrata in gioco di attori non governativi sia per il controllo del flusso di denaro secondo dei ‘principi di sicurezza”.

Mohammed al-Ansari, avvocato presso l’Istituto del Cairo per gli studi sui diritti umani, sottolinea come le clausole relative ai fondi esteri mirino a far chiudere molte delle Ong attualmente operative nel paese: “E’ risaputo che la maggior parte di queste riceve denaro estero”, ha dichiarato ad al-Misr al-Youm.

Un’altra criticità di questa proposta di legge è legata alla forte interferenza governativa nelle attività delle organizzazioni. E’ previsto, per esempio, che il governo (attraverso un organo ad hoc) ‘ispezioni’ a suo piacimento i locali delle associazioni e ne controlli i registri, per assicurarsi della legalità delle loro attività.

Inoltre, un commercialista iscritto all’albo sarà incaricato di preparare un report annuale sulle attività finanziarie delle organizzazioni per sottoporlo al controllo del ministero per gli Affari sociali.

Infine, i soldi delle Ong andranno depositati esclusivamente in banche egiziane e il testo della bozza stabilisce delle procedure molto restrittive per il loro ritiro e le finalità del loro uso.

Dunque, se la proposta di legge dovesse essere davvero approvata, le organizzazioni straniere dovranno prima siglare un accordo con il ministero degli Esteri, e poi sperare che il collega che siederà agli Affari sociali non gli revochi la licenza.

A un primo esame del testo, il consiglio della Shura l’ha giudicato conforme alla nuova Costituzione e il governo ha messo in chiaro che il contenuto sarà ‘perfezionato’ con la consultazione di alcuni rappresentanti del settore nongovernativo.

 

LA REAZIONE DELLA SOCIETÀ CIVILE

Secondo una stima della stampa egiziana, se il provvedimento dovesse essere approvato, saranno circa 40 mila le Ong che dovranno sottoporsi a una ‘ristrutturazione’ interna per allinearsi a quanto previsto dalla nuova legge.

Questo problema toccherà per esempio le organizzazioni non governative con lo status giuridico di ‘fondazioni’ che, in base al nuovo testo, dovranno disporre di un capitale di almeno 250 mila sterline egiziane.

Rispettare questo requisito sarà molto difficile sia per la criticità dell’attuale momento economico sia per le recenti restrizioni sui finanziamenti esteri. Ed è per questo che in molti hanno fatto sentire la propria voce: sul sito dell’Istituto del Cairo per i diritti umani, 22 Ong hanno sottoscritto una petizione contro “le tendenze autoritarie di Morsi e il suo governo”.

Così come anche Amnesty International si è schierata dalla loro parte e, in un comunicato della scorsa settimana, ha dichiarato: “Esortiamo le autorità egiziane a garantire che ogni nuova legge in materia […] sia conforme al diritto internazionale, rispetti le tutele alla libertà di espressione e di associazione e sia fondata su consultazioni trasparenti con le organizzazioni per i diritti umani”.

Sempre Amnesty, ancora la settimana scorsa, aveva lanciato l’allarme sulla lettera inviata dal governo Morsi all’Organizzazione egiziana per i diritti umani, denunciandone il contenuto.  

Nella missiva, il presidente spiegava come tutti i contatti tra le Ong locali e le ‘entità internazionali’ sarebbero stati proibiti in assenza dell’autorizzazione degli organismi di sicurezza, laddove quel generico ‘entità internazionali’ potrebbe riguardare anche le agenzie delle Nazioni Unite e non solo.

Alcuni hanno addirttura ipotizzato che questo ‘divieto di comunicazione’ con l’esterno sia volto a controllare in modo più serrato la società civile durante il periodo pre-elettorale (le elezioni per la Camera bassa del Parlamento si  terranno il prossimo aprile).

 

MUBARAK, LO SCAF E LA LIBERTÀ DI ASSOCIAZIONE

A due anni di distanza dalla rivoluzione del 25 gennaio, la libertà di associazione è ancora disciplinata da una legislazione approvata durante il regime di Mubarak. Difatti, visto che il Parlamento eletto nel 2011 è stato sciolto proprio poco prima di riuscire a cambiare la normativa, attualmente restano in vigore la legge n. 84 del 2002 sulla libertà di associazione e il regolamento n. 178 che ne chiarifica il contenuto nei dettagli.

Questa legislazione conferisce ampi poteri discrezionali al ministero degli Affari Sociali. Per esempio, ogni organizzazione che desideri aprire i battenti deve preventivamente chiedergli una sorta di ‘permesso’.

Ma spesso accade che il ministero si rifiuti di concederlo o addirittura non risponda affatto.

Sotto Mubarak, il lavoro delle ong era tollerato nella misura in cui il loro operato non avesse una valenza politica e rispettasse le ‘linee rosse’ stabilite dal regime. Era imperativo, dunque, lavorare su dei ‘temi circoscritti’ come l’ambiente o il welfare, stando attenti a non parlare in maniera diretta di riforme.

Con la caduta del regime, la situazione di questo settore non è migliorata e, a partire dal luglio 2011, le organizzazioni non governative sono state prese di mira dal governo militare dello SCAF.

Dapprima al centro di ‘indagini’ sulla provenienza dei fondi e poi, nel mese di dicembre, oggetto di veri e propri raid delle forze dell’ordine, a cui sono seguiti 43 arresti (di dipendenti delle ong).

Nel febbraio 2012, 16 egiziani e 27 stranieri (fra cui il figlio di un ex-ministro statunitense) sono finiti davanti al giudice, con l’accusa di aver usato fondi stranieri illegali per ‘fomentare’ il caos nel paese.

La ‘mossa’ del governo militare ha suscitato le critiche della comunità internazionale e gli Stati Uniti hanno addirittura minacciato di ‘rivedere’ gli aiuti economici (che ammontano a circa 2 miliardi di dollari ogni anno).

Secondo Human Rights Watch, da allora molti finanziamenti sono stati bloccati, provocando sia il congelamento di progetti già in programma che il licenziamento di molti dipendenti.

Per esempio, l’organizzazione ‘New Women Foundation’ ha fatto causa al governo perché, a causa dei ‘tagli’, non è stata in grado di portare avanti alcune delle sue attività.

Da Mubarak a Morsi, la tutela della libertà di associazione non sembra essere una priorità per il governo egiziano. Al contrario, il controllo del settore non governativo rimane indispensabile al mantenimento della ‘stabilità’ del sistema politico.

Se la proposta di legge attualmente in discussione verrà approvata, molte ong rischieranno di chiudere i battenti per insufficienza di fondi e la morsa del controllo governativo sulla società civile diventerà ancora più serrata.

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Egitto. Non solo calcio: gli Ultras da tifoseria ad attore politico

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La scorsa settimana Port Said è tornata ad essere l’epicentro di nuove proteste. Nonostante lo stato di emergenza imposto da Morsi, i cittadini sono scesi in piazza, sfidando il coprifuoco. Al centro della mobilitazione, gli ultras del club calcistico locale, il Masry.

 

I manifestanti contestano all’attuale governo non solo di aver marginalizzato la città ma anche di averne fatto un ‘capro espiatorio’. Dopo essersi uniti ai lavoratori, hanno bloccato le attività di molte fabbriche intorno al Canale di Suez, snodo economico di estrema importanza per l’economia egiziana.

 

GLI ULTRAS E L’IMPEGNO POLITICO

Circa un mese fa, gli ultras sono scesi in piazza in tutte le principali città egiziane per commemorare il secondo anniversario della caduta del regime. In questa occasione, la Fratellanza ha chiarito che il governo Morsi è molto preoccupato dalla ‘politicizzazione’ delle tifoserie e incoraggia i media e i partiti politici a non incitarli verso “comportamenti sovversivi e all’uso della violenza”.

Tuttavia la loro centralità nelle manifestazioni di piazza è un fatto noto. 

Sin dall’inizio della ‘Primavera araba’, gli ultras hanno giocato un ruolo fondamentale negli scontri come per esempio nella famosa ‘battaglia dei cammelli’. Anche dopo i fatidici diciotto giorni che hanno preceduto la caduta del regime, hanno continuato a stare a fianco dei manifestanti durante tutto l’interregno militare dello SCAF. Per esempio, si sono distinti in episodi piuttosto sanguinosi come la battaglia di Mohammed Mahmud Street.

Il 2 febbraio 2012, in seguito alla partita di calcio Ahly contro Masry, le due tifoserie si sono scontrate causando incidenti che hanno ucciso settantaquattro persone, per la maggior parte ultras dell’Ahly (detti anche Ahlawy). 

Secondo alcuni testimoni oculari, le forze dell’ordine non sono intervenute e, per di più, durante i tafferugli le luci dello stadio sono state ‘misteriosamente’ spente e le porte sbarrate.

In virtù del ruolo giocato dagli ultras dell’Ahly nelle proteste contro il regime di Mubarak, molti hanno ipotizzato che, dietro alla violenza, vi fosse la mano del governo e la volontà di punire chi era stato in prima linea durante le manifestazioni. La storia del movimento Ultras

Il movimento degli ‘ultras’ nasce on-line nel 2005 ed inizialmente, prende vita intorno ai due principali club calcistici cairoti: Ahly e Zamalek. I giovani egiziani delle periferie (molto spesso intorno ai vent’anni) ne sono protagonisti assoluti, con una partecipazione femminile praticamente inesistente.

All’interno di questo “movimento”, non ci sono correnti di stampo ideologico (sul modello degli ultras europei) ma a fare da collante è l’opposizione alla repressione delle forze dell’ordine ed alla corruzione del sistema giudiziario.

Assolutamente ‘indipendenti’ rispetto alla dirigenza dei club calcistici, gli ultras si identificano con una vera e propria sub-cultura che, a livello musicale, trova espressione in un genere ibrido, nato dalla contaminazione fra hip hop e melodie arabe.

Gli scontri fra ‘tifoseria’ e polizia egiziana hanno inizio nel 2009 con l’arresto di alcuni ultras per aver tentato di aprire uno striscione pro-Palestina che condannava l’invasione israeliana di Gaza.

Da allora le forze dell’ordine hanno cercato di mettere a tacere questo movimento in tutti i modi, spesso ricorrendo all’intimidazione e alla violenza. Non di rado decine di ultras sono stati arrestati alla vigilia di un’importante evento calcistico per poi essere rilasciati il giorno successivo al match.

L’esperienza maturata in anni di scontri con le forze dell’ordine è stata una delle ‘risorse’ che ha reso gli ultras protagonisti della ‘Primavera egiziana’, ponendoli sempre in prima linea durante le proteste con un gran numero di vittime e feriti gravi.

Secondo Carlo Rommel (dottorando alla SOAS), mentre alcuni attivisti li idealizzano per il ruolo avuto durante i 18 giorni precedenti alla caduta del regime, altri li guardano con diffidenza, giudicandoli privi di una coscienza politica.

Ciononostante è innegabile che siano una parte estremamente significativa del ‘fronte rivoluzionario’ nazionale.

Secondo il blogger James Dorsey, gli ultras sono stati la prima ‘organizzazione’ che ha osato sfidare la polizia egiziana sotto Mubarak e questo ha permesso ad un gran numero di giovani poveri, arrabbiati e senza troppa speranza nel futuro di aderire al loro progetto. Come il movimento dei lavoratori ha opposto resistenza al governo Mubarak nelle fabbriche, gli ultras lo hanno fatto negli stadi, entrambi nel tentativo di strappare lo spazio pubblico alla repressione e al controllo del regime.

Oggi, gli ultras sono presenti in tutte le principali piattaforme virtuali e le loro pagine Facebook e Twitter sono seguite da migliaia di fan.

“La nostra battaglia per ottenere giustizia è in atto e continuerà finché tutti i poliziotti e militari che hanno commesso degli abusi contro di noi saranno  processati”, ha dichiarato in un’intervista ad al-Ahram Said, uno dei capi degli ultras Ahlawy.

Per ora i ‘tifosi’ continuano a ‘difendere’ la rivoluzione sul campo a colpi di molotov, ma fare previsioni sull’esito della ‘transizione’ egiziana è difficile, così come è difficile immaginare il posto che gli ultras prenderanno nel futuro sistema politico del paese.

Inoltre, secondo Mohamed Gamal Basheer (autore di ‘gli ultras e la rivoluzione egiziana’), il fenomeno delle tifoserie politicizzate non è una prerogativa solo egiziana. In base alla sua ricostruzione, l’idea della tifoseria calcistica organizzata compare nel mondo arabo negli anni settanta.

All’inizio i gruppi erano molto legati alla dirigenza dei club ma gradualmente si sono resi indipendenti. Il primo ‘nucleo’ ultras del mondo arabo nasce in Libia nel 1989 ma viene sciolto da Gheddafi solo dopo due settimane.

Nel 1990 gli ultras fanno una breve apparizione in Tunisia, per poi prendere piede in Marocco (nel 2005) e in Algeria (nel 2007).

E come dimostra il caso egiziano, non di solo calcio si tratta. Gli ultras infatti, anche se privi di un programma dettagliato, sono ormai diventati a tutti gli effetti un attore politico di primo piano.

Piuttosto che incarnare un’ideologia definita, esprimono il ‘malessere diffuso’ di una generazione e hanno un ruolo importante nella transizione verso la democrazia.

 

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