Egitto. Per il rilascio di un’insegnante accusata di blasfemia

“L’insegnante copta accusata di ‘blasfemia’ deve essere immediatamente rilasciata e il procedimento a suo carico interrotto, prima che l’imputata si presenti davanti alla corte sabato prossimo”. Parola di Amnesty International.

di Amnesty International – traduzione a cura di Valentina Marconi

 

La 24enne Dimyana Obeid Al Nour è in prigione dall’8 maggio, quando si è recata nell’ufficio del procuratore di Luxor, per ‘blasfemia’.

 

La procedura giudiziaria a suo carico è stata avviata sulla base di un reclamo presentato dai genitori di tre dei suoi studenti, che l’accusano di aver insultato l’Islam e il profeta Muhammed durante una lezione.

 

Secondo la loro ricostruzione, l’incidente sarebbe avvenuto nella scuola primaria di Sheikh Sultan a Tout, nel governorato di Luxor, il giorno 8 aprile, durante l’ora di religione. Dimyana Obeid Al Nour ha insegnato in tre scuole a Luxor dall’inizio dell’anno.

 

“E’ vergognoso che un insegnante sia finita in prigione per il contenuto di una sua lezione. Se avesse commesso degli errori di natura professionale o si fosse ‘allontanata’ dal curriculum scolastico stabilito, sarebbe bastato un procedimento interno”, dichiara Hassiba Hadj Sahraoui, vice direttore del programma di Amnesty per il Medio Oriente e il Nord Africa.

 

“Le autorità devono immediatamente rilasciare Dimyana Obeid Al Nour e far decadere le accuse false sollevate contro di lei”.

 

Secondo le informazioni in possesso di Amnesty International, alcuni studenti hanno dichiarato che Dimyana Obeid Al Nour avrebbe affermato di ‘amare padre Shenouda’, il defunto patriarca della Chiesa ortodossa egiziana, e si sarebbe toccata il ginocchio o lo stomaco mentre parlava del profeta Muhammed in classe.

 

La donna ha negato le accuse, asserendo che si è attenuta al curriculum scolastico.

 

In seguito alle presunte lamentele di alcuni genitori, sembra che la scuola e il dipartimento dell’Istruzione abbiano aperto delle inchieste interne e a Dimyana Obeid Abd Al Nour è stato detto di astenersi dall’insegnare nelle scuole, fino alla conclusione delle indagini a suo carico.

 

Sino al suo arresto, ha continuato ad andare al dipartimento e a ricevere uno stipendio.

 

Negli ultimi mesi, Amnesty International ha ricevuto molte denunce da parte di persone accusate e condannate per blasfemia in Egitto. In alcuni casi, ad essere incriminati sono stati blogger e operatori del settore dell’informazione le cui idee sono state ritenute offensive.

 

Il 25 gennaio, un tribunale del Cairo ha confermato la sentenza di una corte di grado inferiore a carico di un altro copto, Alber Saber Ayad, condannandolo a 3 anni di prigione per blasfemia, per alcuni video e altro materiale postato in rete che la corte ha giudicato ‘oltraggiosi’.

 

In altri casi, soprattutto nell’Alto Egitto, le accuse di blasfemia sono state sollevate contro cittadini copti, fra cui molti insegnanti.

 

L’11 maggio, un altro copto dovrà comparire davanti ad una corte ad Assiut per rispondere dell’accusa di ‘diffamazione della religione’, presumibilmente sulla base di una conversazione avuta con un gruppo di musulmani che l’hanno in seguito incolpato di aver insultato l’Islam.

 

In molti casi, Amnesty International ha chiesto alle autorità egiziane di non perseguire penalmente gli individui sulla base delle leggi contro la blasfemia che criminalizzano le critiche o gli insulti al credo religioso.

 

“Esprimere un’opinione in relazione alla religione non è reato, sia che si tratti della propria o di quella di qualcun altro. Qualsiasi legge volta ad impedire l’espressione del proprio pensiero su questo tema, viola il principio della libertà di espressione ed è in contrapposizione agli obblighi internazionali sottoscritti dall’Egitto nel quadro della Convenzione Internazionale sui Diritti Civili e Politici”, ha dichiarato Hassiba Hadj Sahraoui.

 

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Egitto. Sinai: la spina nel fianco del Cairo

Nodo geopolitico strategico, ma area a lungo esclusa dalle politiche per lo sviluppo, il Sinai è oggi crocevia di traffici illegali di ogni tipo e forma, nonché ‘base’ di numerosi gruppi armati.

 

La presenza di gruppi armati in Sinai non è una novità e gli attacchi terroristici nella penisola erano frequenti già sotto il regime di Mubarak. Nell’ottobre del 2004, per esempio, ad essere colpite furono Taba e Nuweiba (dove una serie di esplosioni uccisero 34 persone e ne ferirono 71), mentre nel luglio dell’anno successivo finì nel mirino dei terroristi la celebre località turistica di Sharm al-Sheikh.
Gli obiettivi militari dei gruppi armati di stanza nella penisola sono molteplici: dalle stazioni di polizia ai gasdotti del sottosuolo, passando per i militari egiziani e israeliani posizionati lungo la linea del confine.
Ma secondo un rapporto di Reliefweb, mappare con precisione l’universo di guerriglieri attivi nella penisola è impossibile e, a parte qualche nome ricorrente, le informazioni relative al numero e alla loro organizzazione non sono disponibili.
Sembra tuttavia abbastanza chiaro che, dopo la rivoluzione del 25 gennaio 2011, il Sinai abbia assistito a una vera e propria proliferazione di ‘organizzazioni’, sia in virtù del parziale ritiro delle forze armate egiziane dal nord sia per il clima di anarchia e confusione che sta ormai dilagando un po’ in tutto il paese.
Va poi sottolineato che in base ad alcune ricostruzioni, non tutti i gruppi armati sarebbero egiziani e molti guerriglieri arriverebbero da altri paesi mediorientali come la Palestina, l’Iraq e lo Yemen. 
Inoltre, i contatti fra i gruppi armati e la popolazione locale parrebbero piuttosto stretti e, in base ad alcune fonti, le nuove leve proverrebbero proprio dalle fila dei membri più giovani della comunità beduina.
Per la stampa egiziana e straniera, le ‘armate del Sinai’ abbracciano un’interpretazione radicale dell’Islam, differenziandosi però dai tanti gruppi salafiti attivi nella penisola che rifiutano la violenza come arma politica e si impegnano nel sociale.
Al contrario, queste organizzazioni si addestrano in veri e propri campi e sarebbero sostenute dal continuo traffico di armi e uomini, in entrata e in uscita, da e verso la Striscia di Gaza, nonché dal presunto appoggio di gruppi o Stati stranieri.
Da un’analisi incrociata di fonti diverse, è possibile identificare un elenco di nomi attribuiti ad alcuni dei gruppi. Fra questi, Ansar bayt al maqdis (I protettori di Gerusalemme), Jaish al-Islam (l’Esercito dell’Islam), Takfir wa al-hijra (Empietà ed esodo), al-Tawhid wa al-Jihad (Monoteismo e Jihad).
L’IDENTIKIT DEI RIBELLI
Mentre alcuni gruppi sono nati nella Striscia di Gaza e penetrati in Sinai solo in un secondo momento, altri sono invece originari dell’Egitto.
Va inoltre evidenziata un’ulteriore distinzione tra chi ha una ‘carriera’ di lunga data alle spalle – come per esempio Takfir wa al-Hijra, fondato negli anni ’60 da un offshot dei Fratelli Musulmani – e chi è  comparso solo dopo la rivoluzione egiziana, ma è già molto conosciuto soprattutto in rete.
Molte di queste organizzazioni pubblicano i propri video su Youtube, spiegando al pubblico del web i principi e gli obiettivi della loro missione.
Mentre alcuni analisti minimizzano la loro pericolosità, altri sostengono che la loro presenza abbia aggravato la situazione di instabilità politica e insicurezza in cui il Sinai versava da anni.
“L’espressione ‘gruppi armati’ non descrive con precisione la situazione in Sinai, perché essere armati rientra negli usi e costumi della società locale, perciò la presenza di armamenti in questa parte del paese non deve destare preoccupazione, anche in relazione ai cosiddetti gruppi islamisti”, ha dichiarato un attivista ai microfoni di Al-masry al-youm.
Altri invece la pensano diversamente, come Samir Ghattas di al-Ahram on-line che, sottolineando l’urgenza della situazione, scrive: “Non è più possibile negare la presenza di gruppi di matrice salafita jihadista in Sinai”.
“Gruppi che dispongono di circa 1.600-2.000 membri ben armati e addestrati, e che hanno portato a termine più di 50 attacchi dall’inizio della rivoluzione del 2011, colpendo stazioni di polizia, posti di blocco dell’esercito e stazioni israeliane lungo il confine”.
Anche Tel Aviv guarda con preoccupazione alla penisola che la separa dall’Egitto, definendola un ‘santuario del terrorismo’. E nonostante le misure di sicurezza messe in campo per proteggere il proprio confine, alcuni gruppi armati sono riusciti a portare a termine diversi attacchi contro i militari israeliani.
LA RISPOSTA DI MORSI
Subito dopo l’elezione del primo islamista alla presidenza egiziana, il Sinai è tornato sulle copertine della stampa locale e internazionale per l’attacco dell’agosto scorso, in cui hanno perso la vita 15 soldati egiziani (azione poi rivendicata dal gruppo Takfir wa al-Hijra).
Evento che ha spinto Morsi a dare il via alla cosiddetta ‘Operazione Aquila’, con lo scopo di ‘fare piazza pulita delle presunte cellule terroristiche di stanza nella penisola’. 
In base alle dichiarazioni del governo centrale, nel quadro di questa iniziativa sarebbero stati distrutti molti dei tunnel di collegamento con la Striscia di Gaza e più di 30 presunti terroristi sarebbero finiti in manette.
Un’operazione che tra l’altro è ancora in corso, anche se la sua intensità è diminuita. 
Ma pensare di risolvere la questione della proliferazione di armi e gruppi armati usando ancora una volta la violenza (come ai tempi di Mubarak) sembra essere solo un’illusione, una tattica che già in passato si è dimostrata quanto meno fallimentare se non addirittura dannosa.

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Egitto. Tutti pazzi per le armi libiche

Dopo la caduta di Gheddafi, la Libia è diventata una fonte di armamenti a cui attingono illegalmente molti attori della regione. E l’Egitto è uno dei principali ‘destinatari’ di questo traffico.

 

“Armi provenienti dalla Libia sono state intercettate in Mali, Cisgiordania e Siria durante l’attuale guerra civile”, scriveva il giornalista Luiz Sanchez, in un articolo apparso sul Daily News Egypt il 10 aprile scorso.

 

Una notizia non-notizia se si considera che a fare luce sui contorni di questo traffico è stato un rapporto redatto da un gruppo di esperti del consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite a metà febbraio.

 

“La proliferazione di armi dalla Libia continua a un passo allarmante e si è diffusa in nuovi territori come l’Africa Occidentale, paesi del Mashreq e potenzialmente anche nel Corno d’Africa”, si legge nel dossier stilato dall’organizzazione internazionale.

 

Secondo il documento, dopo la caduta di Gheddafi gran parte degli armamenti sarebbe rimasta in mano a civili e gruppi di ribelli, con la conseguenza che tutt’ora il governo fatica a ripristinare il controllo sui confini nazionali.

 

Flussi illegali che avrebbero alimentato molti altri teatri di guerra nei paesi limitrofi, riempiendo gli arsenali di numerosi attori non governativi stranieri. E che nell’ultimo anno – sottolineano le Nazioni Unite – hanno raggiunto volumi più che significativi, dirigendosi in maniera preferenziale verso due aree geografiche: l’Egitto e il Sahel.

 

Per gli esperti, l’Egitto assolverebbe alla duplice funzione di paese di transito (per la Striscia di Gaza) e destinatario finale.  

 

Tuttavia, recentemente, una parte del commercio avrebbe trovato un nuovo e importante acquirente nei gruppi armati del Sinai: “Dall’inizio del 2012, la quantità di armi libiche presenti è cresciuta in maniera significativa, […] molti casi (soprattutto sequestri) hanno avuto una grande risonanza nei media locali”, si legge nel rapporto dell’Onu.

 

Ragione per cui a maggio scorso le Nazioni Unite avevano inviato una lettera al Cairo per chiedere alle autorità nazionali il rilascio di nuovi dati relativi a questo fenomeno, ottenendo che all’inizio del 2013, in un incontro fra gli esperti dell’organizzazione internazionale e e alcuni esponenti del governo egiziano, fosse stilata una lista completa (mai resa pubblica) di tutte le ‘armi di provenienza libica’ intercettate nel paese.

 

Secondo la testimonianza delle autorità competenti, gli armamenti continuano ad arrivare sia attraverso la fascia costiera settentrionale sia tramite il confine meridionale. 

 

Una ‘rotta terrestre’ a cui se ne aggiunge una di mare, che collega il porto di Bengazi alla città marittima di Marsa Matruh, da dove la merce viene trasportata su gomma in tutto il resto dell’Egitto.

 

 

Nuovi sviluppi di un vecchio fenomeno

 

Nonostante il nuovo rapporto delle Nazioni Unite monitori gli sviluppi più recenti del traffico di armi dalla Libia, i media egiziani ne parlano già da molti mesi.

 

Secondo Ashraf Abu al-Hul dell’Ahram online, fermare il contrabbando delle armi libiche è difficile per la lunghezza del confine fra i due paesi (che lo rende poco controllabile), ma anche per l’abilità dei trafficanti, che conoscono perfettamente il territorio.

 

In base alla ricostruzione del giornalista egiziano, il traffico si svolge a notte fonda, e i mezzi di trasporto variano seguendo le esigenze: dalla macchina al dorso di un animale, fino alle stesse spalle del contrabbandiere. 

 

“La maggior parte delle armi  che arrivano in Egitto finisce in ‘magazzini segreti’ situati principalmente in due regioni (Sidi Barrani e el-Negala), per poi arrivare agli acquirenti finali in Alto Egitto, a Gaza o ultimamente anche in Siria”, ha dichiarato Muhammed Khater (maggiore e ingegnere dell’esercito).

 

“Inoltre ci sono dei magazzini importanti situati anche in altre zone del paese, come a Wadi al-Natrun e a sud e nord della penisola del Sinai, in cui le armi arrivano anche dal mare”, ha concluso il militare.

 

E proprio la penisola del Sinai sembra giocare un ruolo fondamentale nel quadro del traffico di armi: sia come snodo principale verso la Striscia di Gaza che come destinazione finale.

 

Sebbene in Egitto il mercato delle armi prosperasse già sotto Mubarak, quando erano addirittura le forze di sicurezza a gestire i traffici, dopo la rivoluzione del gennaio 2011 sono stati i beduini ad assumere il controllo di questo ricco commercio.

 

Fino a poco tempo fa la maggior parte delle armi finiva infatti nelle mani di gruppi armati non meglio identificati che operavano nella Striscia di Gaza, e che avevano degli ‘agenti’ di riferimento in Sinai.

 

Di recente invece si è sviluppato un ‘canale parallelo’ dovuto alla presenza di gruppi armati di stanza nella penisola, intenzionati a costruire dei veri e propri arsenali.

 

Gruppi che in passato sono stati piuttosto marginali, ma che dopo la caduta di Mubarak hanno trovato terreno fertile, in parte anche grazie al sentimento di ostilità che molti abitanti del Sinai nutrono nei confronti del governo centrale.

 

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Egitto. Giù le mani da Magdy El-Shafee

Un arresto del tutto arbitrario a margine di una manifestazione, poi l’interrogatorio e la detenzione nel carcere di Tora per quattro giorni. E’ successo a Magdy El-Shafee, vignettista egiziano di fama internazionale e autore di ‘Metro’, graphic novel che ha raccontato al mondo la corruzione ai tempi di Mubarak.

 

“Magdy si trova nella stazione di polizia di Qasr el-Nil e sta finendo di compilare i documenti per il suo rilascio. Non sappiamo però quanto ci vorrà”, ha fatto sapere il 23 aprile alle 14:30 su Twitter il giovane scrittore egiziano Muhammed Aladdin, nel tentativo di calmare gli animi.

Ci è voluto un pomeriggio intero prima del rilascio su cauzione, e solo in serata la notizia ha cominciato a circolare in rete.

“Magdy è fuori” ha scritto Susan Harris di Words Without Borders intorno alle 20:00, postando una foto in cui si distingue il volto del vignettista che, circondato da altri, fa il segno della vittoria. 

E ancora “Magdy è libero, ma ha ancora bisogno di supporto contro le accuse false mosse contro di lui”, si legge in un altro post, pubblicato circa dieci minuti dopo.

In questi quattro giorni carichi di angoscia, molti hanno seguito la vicenda sui social network. Su Twitter è stato creato l’hashtag #freemagdy per aggiornare in tempo reale sulle condizioni del detenuto e diffondere la protesta contro il suo arresto.

Magdy El-Shafee, vignettista egiziano, è finito in manette venerdì scorso mentre passeggiava in piazza Abdel Moneim Riyad, una zona centrale del Cairo, ignaro di quello che stava per accadergli. 

Lì vicino si stava svolgendo una manifestazione organizzata dalla Fratellanza Musulmana per chiedere una “riforma radicale della magistratura” e all’improvviso sono scoppiati dei tafferugli.

Secondo varie ricostruzioni, il vignettista è intervenuto per cercare di placare gli animi degli astanti ma le forze di sicurezza non hanno fatto distinzioni, arrestando lui e altre 39 persone (inclusi due cittadini stranieri e alcuni minorenni). Magdy non avrebbe opposto alcuna resistenza, ma nonostante questo sarebbe stato malmenato dagli agenti.

Dopo l’arresto, la polizia l’ha trasferito nella centrale di Qasr al-Nil per interrogarlo e infine è stato portato nella prigione di Tora.

Contro di lui le autorità hanno costruito un impianto accusatorio particolarmente grave: partecipazione alla manifestazione, minaccia dell’uso della forza, acquisto di una pistola senza autorizzazione, detenzione di armi da fuoco e munizioni, oltre al tentato omicidio di tre poliziotti, l’assalto a pubblico ufficiale e la distruzione di strutture pubbliche e private.

“Le politiche securitarie sotto Morsi sono le stesse di quelle dell’era Mubarak, se non peggio”, ha scritto il giornalista Amr Ezz El-Din su El-Watan commentando l’arresto del vignettista.

“Dopo la rivoluzione tutto è rimasto invariato, l’unico vero cambiamento è stato il passaggio ad un regime retto dai civili, ma le forze di sicurezza sono ancora al servizio del sistema politico, preferendolo di gran lunga al popolo egiziano”, ha dichiarato in un’intervista televisiva la moglie di Magdy, chiudendo il suo intervento con un appello all’imparzialità e alla correttezza della magistratura.

All’epoca di Mubarak, nel 2008, il vignettista era già finito nella mani del sistema giudiziario con l’accusa di “oltraggio alla morale pubblica” per il suo lavoro: “Metro”, la prima graphic novel egiziana che si rivelò perfetta immagine della dilagante corruzione nel paese.

In quell’occasione venne arrestato e processato insieme al suo editore e infine condannato a pagare una multa di 5.000 sterline egiziane.

 

ABUSI DI POTERE

 

Ufficialmente Magdy El-Shafee è stato arrestato perché scambiato per un criminale dalle forze dell’ordine: in questo senso la sua storia riflette gli abusi di cui sono vittima i cittadini egiziani da parte della polizia.

Tuttavia, il suo caso rappresenta anche la storia di un uomo conosciuto all’estero che può godere dell’appoggio e della mobilitazione di tanti giornalisti, scrittori e artisti.

Il suo arresto è in parte dimostrazione di quanto poco sia cambiato il ruolo e il modus operandi delle forze dell’ordine nell’Egitto post-Mubarak, senza dimenticare come proprio la brutalità della polizia di Mubarak sia stata fra i motivi principali della rivolta del gennaio 2011.

Nel corso degli ultimi due anni, polizia e militari hanno continuato a rendersi complici di molti abusi e atti di violenza contro i cittadini, come documentato anche dall’ultimo leak pubblicato dal Guardian.

Basti pensare che la stragrande maggioranza dei responsabili della morte di almeno 846 manifestanti è ancora a piede libero, e solo 4 dei 36 processi contro agenti di basso e medio rango accusati di aver provocato vittime nei pressi delle centrali di polizia si sono conclusi con una sentenza di condanna.

“Stiamo assistendo a nuovi casi di tortura e uso eccessivo della forza (…) senza che il governo si assuma alcuna responsabilità o abbia la volontà politica per fare delle riforme serie del settore della sicurezza. (In questo modo) la speranza di porre fine agli abusi è minima” ha dichiarato Nadim Houry, direttore di Human Rights Watch Egitto.

 

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Egitto. Divide et impera, a sfondo confessionale

Dopo una serie di nuovi scontri, la tensione fra copti e musulmani è tornata a salire. E qualcuno già parla di guerra civile.

Le violenze interconfessionali sono ripartite da Khosous (piccola località a nord del Cairo) dove hanno perso la vita un musulmano e quattro copti*.
Alcuni blogger sostengono che a dare il via agli scontri sarebbe stato un banale incidente: forse una scritta oppure un disegno sul muro di un edificio religioso.
Una piccola scintilla che è bastata a far riesplodere l’odio all’interno di una comunità locale dove la tensione era già alta.
Due giorni dopo, gli scontri si sono riaccesi nella capitale (davanti alla cattedrale di San Marco), proprio dopo i funerali dei quattro cittadini copti morti a Khosous.
Questa volta, dopo la cerimonia, la gente ha intonato slogan contro il regime e soprattutto contro il presidente Morsi. Secondo alcune ricostruzioni sarebbero intervenute le forze di sicurezza, attaccando l’edificio religioso.
Tuttavia ricostruire con precisione le dinamiche dei due incidenti è quasi impossibile perché sul web dilagano numerosissime versioni dell’accaduto, versioni anche diametralmente opposte.
Due elementi sembrano finora incontrovertibili: una situazione d’instabilità politica e insicurezza ormai divenute quasi insostenibili ed un governo che non sembra riuscire a frenare il precipitarsi degli eventi.
CITTADINI DI SERIE B
Secondo il giornalista Ulf Laessing, durante la presidenza Morsi la violenza su base confessionale è aumentata e i cristiani hanno denunciato un numero crescente di attacchi contro le loro chiese.
Solo negli ultimi mesi, se ne sarebbero verificati cinque: da Shobra a Fayoum, passando per Aswan e Beni Suef.
Con la salita al potere del governo guidato dalla Fratellanza, molti membri della comunità copta hanno deciso di lasciare il paese trasferendosi soprattutto negli Stati Uniti.
Ma gli scontri interconfessionali non sono una novità dell’ultimo anno e rappresentano da sempre una costante della realtà politica egiziana già sotto Sadat e Mubarak, così come le discriminazioni contro i cristiani, sia sul piano legislativo sia nell’ambiente lavorativo.
Costruire o riparare una chiesa, per esempio, comporta enormi difficoltà in termini di permessi e autorizzazioni, mentre l’accesso ad alcune cariche pubbliche di alto profilo è, nei fatti, quasi del tutto interdetto ai membri della comunità copta.
DIVIDE ET IMPERA
Secondo la giornalista Yasmine Nagaty, Morsi – così come Mubarak – usa la violenza interconfessionale per ‘distrarre’ i cittadini egiziani dalla gravissima crisi socio-economica che sta attraversando il paese.
Seguendo quella che è ormai una consolidata strategia, lo Stato si fa promotore delle divisioni fra copti e musulmani divenendo, di conseguenza, complice della brutalità che ne scaturisce. 
A volte, come nel caso della chiesa andata in fiamme nel dicembre del 2010, le istituzioni sembrerebbero essere direttamente coinvolte nei fatti di sangue.
“Poiché Mubarak e Morsi hanno insistito su una politica economica che ha marginalizzato ampi strati della società, per questi regimi è diventato necessario tenere impegnati i cittadini in scontri di distrazione per evitare una mobilitazione sulla base dei problemi economici del paese, come quella del gennaio 2011”, ha dichiarato la giornalista.
La tattica del divide et impera dello Stato si è giocata anche sul piano legislativo: l’opinionista Mohammed Kheir spiega come nella prima Carta costituzionale egiziana l’articolo che definiva l’Islam come “religione di Stato” compariva in fondo alla lista. Poi però, con il passare degli anni, sarebbe stato progressivamente spostato verso l’alto, sino a finire in seconda posizione.
Infine, nella nuova Costituzione, la posta in gioco sarebbe aumentata ulteriormente, con l’inserimento del paragrafo n.220, che specifica l’orientamento sunnita dell’ordinamento nazionale.
In questo quadro legislativo, ogni altra identità religiosa costituisce per se un’accusa e i copti sono relegati ancora una volta al ruolo di cittadini di serie b.
A due anni dalla rivoluzione del gennaio 2011, l’establishment politico riconferma il suo rifiuto per un modello di Stato moderno e democratico, dove le gerarchie dettate dalla religione siano soppiantate da una versione liberale del concetto di cittadinanza.
Ed il ruolo che la comunità copta ricoprirà nel nuovo sistema politico rimane uno dei grandi interrogativi della ‘transizione’ attuale.
*I COPTI RAPPRESENTANO IL 10% PER CENTO DELLA POPOLAZIONE IN EGITTO E SONO LA MINORANZA CRISTIANA PIÙ NUMEROSA DI TUTTO IL MEDIO ORIENTE. SI CONCENTRANO SOPRATTUTTO AL CAIRO, ALESSANDRIA E NELLE CITTÀ DELL’EGITTO MERIDIONALE.
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Egitto. Le mille e una atrocità dell’esercito durante la ‘rivoluzione’

Da guardiani della rivoluzione a carnefici: questa la parabola dell’esercito egiziano documentata da un nuovo rapporto.

Il documento non è stato ancora divulgato tramite canali ufficiali ma – nella versione ridotta resa nota dal quotidiano inglese – ha fatto già il giro del mondo, provocando forti reazioni.

“Non si può sottovalutare l’importanza di questo rapporto […] Fino ad oggi, non c’è stato un riconoscimento ufficiale da parte dello Stato della forza eccessiva usata da polizia e militari. L’esercito ha sempre detto di essere stato dalla parte dei manifestanti e di non aver mai sparato contro i civili. Questa è la prima [..] condanna ufficiale delle sue responsabilità nei casi di tortura, sparizione forzata e uccisione”, ha dichiarato Heba Morayef, direttore di Human Rights Watch in Egitto.

 

Cronaca di una fuga di notizie

compilare questo rapporto-shock è stata una commissione nominata dal presidente Morsi nel luglio del 2012 e formata da sedici membri. Fra questi, giudici e funzionari del ministero degli Interni, ma anche avvocati per i diritti umani e parenti di persone uccise o scomparse.

L’obiettivo di questa task force era raccogliere informazioni dettagliate su uccisioni e ferimenti di manifestanti (avvenuti fra il gennaio del 2011 e il giugno del 2012), esaminando le misure prese dal governo e la cooperazione fra potere esecutivo e giudiziario.

Lo scorso gennaio, la commissione ha chiuso i battenti, presentando i risultati del proprio lavoro a Morsi, che invece di pubblicare le “mille pagine di atrocità” contenute nel rapporto, ha preferito passarle direttamente alla Procura.

Tutto è quindi rimasto a tacere sino alla settimana scorsa, quando alcuni capitoli sono finiti sulle pagine del Guardian.

Dalla lettura degli estratti pubblicati, emergono chiaramente tre questioni: la responsabilità dei militari in relazione alla tragedia di quelli che potremmo definire i desaparecidos egiziani, gli abusi commessi nell’ospedale militare di Kobri al-Qoba nel giugno del 2012 e l’uso eccessivo della forza impiegato dalla polizia contro i manifestanti a Suez.

 

Di torture, uccisioni e sparizioni forzate

In base al contenuto del rapporto, durante la rivoluzione del gennaio 2011, l’esercito ha torturato, ucciso e fatto sparire forzatamente molti cittadini egiziani.

Un numero imprecisato di civili sarebbe morto durante la detenzione nelle prigioni militari e alcuni corpi sono stati seppelliti senza essere identificati.

Durante i diciotto giorni di proteste, i militari sono accusati di aver trasformato il Museo egizio in un centro di detenzione temporanea, da cui poi trasferire i manifestanti nelle carceri militari dove molti avrebbero subito gravi forme di tortura.

Secondo la testimonianza di Mohamed Mahdi Issa, suo figlio è stato arrestato il 30 gennaio 2011 presso un checkpoint lungo la strada desertica tra Fayoum e il Cairo.

Dopo essere stato portato in una stazione di polizia e poi trasferito in una prigione militare, il giovane è scomparso nel nulla.

Durante la ‘rivoluzione’, sono spariti circa 1000 cittadini. I cadaveri di alcuni sono stati ritrovati negli obitori, spesso irriconoscibili per via delle torture subìte, mentre di molti non si sa ancora nulla a quasi due anni di distanza.

Fra le ‘raccomandazioni’ della commissione, l’avvio di un’indagine approfondita sugli abusi e le violenze perpetrate dai militari affinché vengano a galla i nomi di tutti i responsabili.

Ma il rapporto non si ferma qui, e documenta il trattamento ricevuto dai manifestanti feriti nell’ospedale militare di Kobri al-Qoba durante gli scontri davanti all’Abbassiya (il ministero della Difesa) nel maggio del 2012.

In base alle testimonianze raccolte, gli ufficiali dell’esercito avrebbero ordinato ai medici di operare i pazienti senza anestesia utilizzando strumenti non sterilizzati.

Inoltre, militari e dottori avrebbero aggredito verbalmente e fisicamente i feriti, mentre altri sarebbero stati chiusi nel seminterrato.

Un’altra parte del documenti indaga invece le dinamiche che hanno caratterizzato gli scontri di piazza, sottolineando come l’esercito abbia chiuso gli occhi davanti all’aggressione dei manifestanti da parte della baltagiya (criminalità).

Anzi. Alcuni video usati dalla commissione sembrano indicare che fra militari e delinquenti locali ci fosse un vero e proprio accordo.   

Infine, in un ultimo estratto pubblicato dal Guardian, si denuncia l’eccessivo uso della forza impiegato dalla polizia contro i manifestanti di Suez, durante i primi giorni della rivoluzione.

In questo caso gli ufficiali avrebbero ordinato ai loro sottoposti di sparare indiscriminatamente sulla folla e alcuni poliziotti in borghese si sarebbero infiltrati fra i manifestanti, diffondendo il panico a colpi di arma da fuoco.

 

La (non) risposta delle istituzioni

Giovedì scorso, Morsi ha incontrato il Consiglio supremo delle forze armate (Scaf). In questa occasione, il presidente ha ufficialmente preso le difese dei militari, assicurando che nessuna forma di attacco o insulto sarà accettata.

“Il popolo apprezza il grande ruolo di questa istituzione nel preservare la sicurezza nazionale”, ha dichiarato il capo di Stato egiziano.

L’esercito è un attore di primo piano sia nell’economia sia nella politica del paese, e riceve più di un miliardo di dollari all’anno in assistenza militare dagli Stati Uniti. Durante la rivoluzione del gennaio 2011, i militari hanno dichiarato la loro neutralità, assumendo il ruolo di garanti della sicurezza.

Ma nell’interregno che segue la caduta del regime di Mubarak, lo Scaf e l’immagine dei militari inizia a essere intaccata dai primi scandali: una serie di duri atti di repressione contro i manifestanti, gravi accuse di tortura e abusi sessuali, nonché l’uso diffuso di corti marziali per processare i civili.

Solo nel 2011 si contano almeno 12 mila cittadini processati davanti a tribunali militari, un numero così elevato da far impallidire il sistema giudiziario dell’era Mubarak.

Perciò se già da tempo la parabola dei militari egiziani era entrata in una fase discendente, il nuovo rapporto pubblicato dal Guardian potrebbe rappresentare un ulteriore passo in avanti in questa direzione: il primo riconoscimento da parte del governo delle atrocità commesse dall’esercito contro i civili dal gennaio 2011 in poi.

Tuttavia la versione integrale del documento non è stata ancora pubblicata ufficialmente dalle autorità egiziane, ma soprattutto, in base alla nuova Costituzione, l’esercito rimane l’unico ad avere il diritto di investigare sulle accuse di crimini commessi dai suoi membri.

Un duplice ruolo di controllato e controllore che con tutta probabilità non garantirà l’imparziale svolgimento delle indagini.

 

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Femen: guerra santa senza veli o neocolonialismo culturale?

Giovedì scorso il collettivo femminista Femen è tornato a far sentire la propria voce con la controversa iniziativa “Topless Jihad Day”, una mobilitazione duramente criticata anche da molte musulmane.

SE IMPAZZA LA CONTRO-PROTESTA

‘Donne Musulmane contro Femen’ è il nome della campagna online nata il 5 aprile su facebook, all’indomani della mobilitazione del collettivo ucraino.

 Nel giro di pochi giorni ha guadagnato più di 5.000 adesioni, stimolando un ampio dibattito anche su twitter, con l’hashtag #Muslimahpride.

 Le sostenitrici di questa campagna accusano Femen di ‘islamofobia e imperialismo culturale’, esprimendo un netto rifiuto per lo stereotipo della donna araba “vittima passiva” della sua cultura e religione. 

 Sofia Ahmed – fondatrice della pagina facebook – ha invitato le donne musulmane di tutto il mondo a ‘insorgere’ e in tantissime hanno raccolto il suo appello postando foto e scrivendo brevi messaggi.

 Da ‘L’Islam mi ha liberato’ a ‘Non ho bisogno di essere salvata’, questo il tono di alcune delle dichiarazioni apparse sui social network. 

 La campagna nasce per criticare il tentativo di Femen di imporre i propri valori sull’universo femminile musulmano. 

 “Stiamo prendendo una posizione per far sentire la nostra voce e reclamare il nostro diritto di scelta.  Ne abbiamo abbastanza dell’atteggiamento paternalistico e parassitario di alcune femministe occidentali”, si legge sulla pagina facebook del gruppo. 

 

LA ‘GUERRA SANTA’ DI FEMEN

‘Topless Jihad Day’ è invece l’iniziativa organizzata da Femen a sostegno dell’attivista tunisina Amina Tyler e contro l’oppressione delle donne da parte dei gruppi islamisti.

 Giovedì scorso il collettivo femminista ucraino ha organizzato delle azioni di protesta in molte capitali europee, dove le componenti hanno manifestato a seno scoperto, urlando slogan contro l’Islam.

 Tra i gesti più eclatanti, la messa a fuoco della bandiera salafita davanti alla Grande Moschea di Parigi. Poi – in una lettera aperta alle Donne Musulmane contro Femen -, la leader Inna Shevchenko ha dichiarato di accettare che ci siano donne che scelgano liberamente di indossare il velo.

 In questa occasione, l’attivista ha ribadito che il suo gruppo non è contro la religione, ma contro quelle dinamiche di violenza e oppressione che troppo spesso vengono compiute nel nome di Dio. 

 E difendendosi dalle accuse di imperialismo culturale, ha aggiunto: “La libertà non ha niente a che vedere con la nazionalità o il colore della tua pelle. Non c’è un pacchetto di diritti umani per gli europei e un altro per gli arabi o gli americani, i diritti umani sono universali”. […]

 “Puoi indossare tutti i veli che vuoi se domani sei libera di toglierli e poi rimetterli a tuo piacimento, ma non negare che ci sono milioni di donne come te che hanno paura dietro a quel velo, che subiscono violenze fisiche e sessuali perchè non rispettano le norme religiose. Noi siamo qui per gridare contro questa ingiustizia!”. 

 Femen è nato in Ucraina nel 2008 e ben presto ha acquisito una popolarità mondiale, soprattutto in virtù delle tecniche di protesta utilizzate, in primis il seno scoperto.

 Le attiviste dichiarano di lottare per i diritti delle donne e contro ogni tipo di istituzione (politica, religiosa ed economica) che riproduca il sistema del patriarcato.

 Già in passato hanno organizzato azioni dimostrative contro l’islamismo e la shari’a, mobilitandosi anche sul tema delle mutilazioni genitali femminili. La loro rete ha ormai acquisito una dimensione globale, giungendo a toccare anche alcuni paesi arabi. 

 

LE FEMEN ARABE

In Tunisia per esempio la fan page ‘locale’ del collettivo ucraino conta più di 17.000 adesioni e la cineasta Nadia al Fani, insieme alla giornalista francese Caroline Fourest, ha girato un documentario su di loro. Ed è proprio a sostegno di una Femen tunisina, la giovane Amina Tyler, che si è svolta l’iniziativa ‘Topless Jihad Day’. 

 L’attivista araba sta infatti subendo le ripercussioni del suo eclatante gesto: aver postato alcune foto su facebook in cui posava a seno scoperto.

 Sul suo corpo due scritte in nero. La prima, ‘Fuck your morals’, e la seconda: ‘Il mio corpo mi appartiene e non è la fonte dell’onore di nessuno’.

 Subito dopo la pubblicazione in rete, le foto di Amina hanno avuto una diffusione virali e la giovane si è ritrovata al centro di aspre e pericolose polemiche. 

 L’imam Adel Almi ha proposto che, in base al diritto penale islamico, la ragazza venga condannata a ricevere tra le 80 e le 90 frustrate, anche se per la gravità dell’atto commesso meriterebbe addirittura di essere lapidata. 

 “La sua azione potrebbe provocare un effetto domino e potrebbe essere contagiosa, mettendo in testa idee strane ad altre donne. Perciò è necessario fare di questo incidente un caso isolato”, ha dichiarato l’imam.

 Dopo lo scoppio dello scandalo, Amina è sparita dalla circolazione per circa due settimane per poi riapparire in una trasmissione televisiva dell’emittente francese Canal Plus, in cui ha ammesso di temere per la propria vita.

 E secondo Al-Masry Al-Youm, sempre Amina starebbe cercando di lasciare il paese, per cominciare un corso di giornalismo all’estero. 

 Ma il suo non è l’unico caso del genere. Nel 2011, a destare scandalo nel mondo arabo era stata l’egiziana Aliaa Magdi, anche lei per delle foto di nudo (integrale) apparse sul suo blog.

 Oggi anche lei è diventata una Femen, e ha lasciato l’Egitto per vivere in Europa.

 Nel dicembre del 2012 ha partecipato a una manifestazione con altre attiviste del gruppo ucraino per protestare contro l’oppressione delle donne da parte dell’Islam.

 Un  gesto – che secondo la femminista egiziana Yasmine Nagaty – va interpretato come reazione alla salita al potere dell’islam politico.

 

CHI PARLA PER CHI? 

Le critiche contro Femen si concentrano su due aspetti: l’uso del nudo come arma contro il patriarcato e la presunta retorica neocolonialista.

 Da una parte, protestare a seno nudo per attirare l’attenzione su questioni di genere è considerato da molti come un gesto contraddittorio che rischia di rinforzare quegli stessi stereotipi sessisti contro cui combatte.

 Dall’altra però le Femen si difendono da quest’accusa e spiegano che per loro il corpo è un’arma, non un oggetto sessuale.

 Le attiviste del collettivo devono sottoporsi a duri allenamenti fisici prima di poter partecipare alle proteste e devono anche imparare a muoversi in un modo che sia del tutto privo di richiami sessuali.

 Eppure, per la ricercatrice Sara Salem, molti aspetti del ‘discorso’ di Femen sono in realtà neocolonialisti’, come l’associare il velo all’oppressione e la serpeggiante convinzione che le donne musulmane non abbiano coscienza della loro oppressione. 

 “Affermano di essere contro Femen ma noi siamo qui per loro. Scrivono sui loro cartelli che non hanno bisogno di liberazione, ma i loro occhi chiedono aiuto”, ha dichiarato la leader del movimento ai microfoni di Al-Jazeera.

 Storicamente, alcuni regimi dittatoriali appoggiati dall’Occidente (come quelli di Ben Ali in Tunisia e Mubarak in Egitto) sono stati in prima linea nella promozione dei diritti delle donne, cooptando il movimento femminista all’interno delle strutture statali. E sarebbe proprio l’associazione tra regime post-coloniale e femminismo di Stato ad aver reso ambiguo il concetto di ‘liberazione’ ed ’emancipazione’ in molti paesi arabi, dove certe riforme sono state vissute come una vera e propria imposizione anti-democratica, suscitando reazioni come quella islamista.

 In questa cornice storico-politica, lo sdegno espresso dalla campagna ‘Donne Musulmane contro Femen’ acquisisce un valore ancora più profondo e legittimo.

 Ciononostante appare vero anche il contrario: questa stessa campagna non ‘rappresenta’ tutte le donne che vivono all’interno di quelle comunità in cui l’Islam è maggioritario, come Amina o Aliaa che reclamano quella libertà di scelta rivendicata dal collettivo ucraino.

 Quindi se da un lato il femminismo di Femen non è e non deve essere l’unico possibile – riconoscendo piena legittimità alle tante e variegate realtà locali sia di lotta e che di vita -, dall’altra andrebbero comunque sostenute le scelte di coloro che si pongono come outsider all’interno della propria comunità. 

This article was originally published by: Osservatorio Iraq – Medioriente e Nordafrica

Conversazione con Hadeel Azeez: il nudo femminile come luogo di sincerità

Hadeel Azeez è un’artista irachena che vive ad Alberobello, in Puglia. E’ nata nel 1981 a Baghdad e si è trasferita in Italia nel 2003. Si occupa di pittura ma anche di scultura e disegno. E con le sue opere intimiste e raffinate è in grado di emozionare e far riflettere. Osservatorio Iraq l’ha intervistata.

Come ti sei avvicinata all’arte?

In maniera graduale, sin dalla tenera età. Dopo il liceo classico ho preso la decisione di iscrivermi all’Accademia delle belle arti a Baghdad, dove ho cominciato il mio percorso artistico vero e proprio.

 

Nei tuoi quadri il corpo femminile è un soggetto ricorrente, a volte nella sua interezza, altre invece solo attraverso un dettaglio. Perché questa scelta?

Non si tratta di una scelta, ma di un modo di guardare le cose. All’inizio preferivo i corpi interi, poi ho cominciato a spingermi sempre più verso i dettagli, guardando il corpo umano da un punto di vista diverso.

Quando si è un giovane artista, si tende sempre ad arricchire le proprie opere con elementi visivi, figure e concetti per paura di non essere capiti. Con l’esperienza si impara a liberarsi delle cose superflue e concentrarsi sempre di più sull’essenza.

 

Che rapporto c’è fra le tue opere e il tuo vissuto interiore?

Per me arte e psicologia sono interconnesse. Non esiste un altro modo di creare se non partendo da se stessi, dal lato più profondo dei propri sentimenti e delle proprie sensazioni. Il percorso di vita, la memoria, l’esperienza, gli interessi e la consapevolezza di sé sono parte del processo creativo che dà vita alle mie opere.

 

Come nasce l’idea di usare la calligrafia araba nei tuoi dipinti? 

L’idea è nata dopo una discussione durante una delle mie prime mostre in Italia: un uomo era rimasto molto offeso dalle immagini del nudo femminile presenti nelle mie opere.

Poi un giorno, per caso, mi sono ritrovata a leggere una poesia di Nizar Quabbani (illustre poeta siriano del ‘900 ndr) e a riflettere su quanta libertà avesse nel descrivere il corpo femminile senza barriere o limiti.

Così ho avuto l’idea di inserire i suoi versi nei miei dipinti perché volevo contestare – con il suo approccio femminista – il modo di vedere la donna solo come un corpo o un oggetto sessuale, anche se, al contrario dei versi di Quabbani, i temi delle mie opere sono lontani da qualsiasi riferimento sessuale o erotico.

Per me la scelta del nudo femminile nasceva dall’esigenza di indagare la psicologia umana con assoluta sincerità.

 

Le frasi che inserisci nelle tue opere sono tratte da opere letterarie?

Sì, in genere si tratta di poesie d’amore o che narrano esperienze di vita. Uso versi di vari autori di quasi tutte le epoche, ma soprattutto esponenti della letteratura araba moderna.

Il senso delle poesie che scelgo è inevitabilmente connesso con quello delle opere in cui sono inserite, e queste ultime prendono il titolo dalle prime. Come accade per esempio con quella intitolata “Per Dove Scappo”, da una poesia di Nazik al-Mala’ika.

 

Come vivi le critiche che ti sono state mosse per il fatto di utilizzare il corpo – nudo – delle donne? 

Le critiche sono lecite, basta che vengano fatte con rispetto. Sarebbe assurdo pensare che tutti possano apprezzare il contenuto delle mie opere, anche perché il giudizio delle persone è sempre condizionato da molti fattori. Come il backgroun sociale, ad esempio, o la religione.

 

Ti senti parte del panorama artistico femminile iracheno? In che rapporto ti poni rispetto  a figure di spicco come Layla Al Attar? 

Il mio percorso artistico si è sviluppato in Italia perché prima di lasciare Baghdad ero ancora una studentessa all’Accademia. Di certo mi sento irachena in tutto, come persona e come artista, ma non ho idea di cosa significhi fare parte del panorama artistico femminile iracheno.

Un artista non vorrebbe mai mettersi in una scatola che delimiti i suoi orizzonti. Mi vedo solo come una persona che proviene da una cultura ricca di storia e che vuole far conoscere al mondo la proprie arte.

Quanto a Layla Al Attar, la ammiro moltissimo per il suo coraggio. Credo che sia un idolo per tutti gli artisti iracheni e non, per il suo contributo all’arte e il valore artistico ed espressivo delle sue opere.

 

Perché hai deciso di lasciare l’Iraq e trasferirti in Italia?

Questioni di cuore! A Baghdad nell’aprile del 2002 ho incontrato Michele Stallo, l’uomo che poi è diventato mio marito. Era stato invitato a partecipare al padiglione italiano all’Esposizione Internazionale di Arte del Museo nazionale di Arte moderna a Baghdad.

Nei mesi successivi Michele è tornato molte volte in Iraq, creando anche l’associazione Salaam Baghdad – Artisti contro la guerra. Abbiamo deciso di andare a vivere insieme e da allora non ci siamo più separati.

 

Che ricordo hai delle guerre nel tuo paese? 

Le guerre, senza soluzione di continuità, sono iniziate quando ero piccolissima, divenendo per me una “normalità” relativamente traumatizzante. Sicuramente mi hanno lasciato tanti ricordi che mi hanno segnata.

Ma il mio paese non è solo guerra, l’Iraq ha una lunga storia. I siti archeologici della Mesopotamia sono presenti lungo l’intero tratto dei due fiumi, Tigri ed Eufrate.

L’impero islamico ha lasciato un segno forte fino ai nostri giorni. Mi sento molto più vicina a ricordi di questo genere, piuttosto che alle guerre.

 

A dieci anni dall’invasione americana dell’Iraq, cosa pensi della situazione delle donne nel tuo paese?

Devo premettere che non sono più tornata in Iraq dal 2003, quindi non posso rispondere a questa domanda in maniera troppo precisa. La popolazione irachena ha subìto tante violenze, sia a causa delle numerose guerre sia per la situazione politica interna.

La condizione delle donne irachene non è mai stata facile.

Anche se non sono mai state emarginate a livello legale, sono state la società e spesso le famiglie stesse ad imporre regole molto rigide sulle loro vite. In alcune zone del paese, le donne non vanno oltre la scuola dell’obbligo, non lavorano e difficilmente vengono assunte. Quando gli uomini vengono a mancare all’interno del nucleo familiare, le donne diventano molto vulnerabili: questa è la condizione che tocca a chi è senza un marito, un padre o un fratello.

E una donna senza sostegno e protezione è costretta ad affrontare un destino molto duro. Le vedove poi (il cui numero è cresciuto esponenzialmente durante l’occupazione straniera, ndr) vivono la peggiore delle situazioni, e sono spesso costrette in uno stato di povertà assoluta, tanto da spingere anche i figli piccoli a lavorare o chiedere l’elemosina.

 

This article was originally published by: Osservatorio Iraq – Medioriente e Nordafrica