Bachelor’s degrees to last 3 years instead of 4: new university reform stirs Catalan students’ anger

Barcelona (CNA).- In times of shrinking public funding, increasing university fees and stricter requirements for obtaining a scholarship, a controversial new university reform has been approved by the Spanish Government. On 30 January 2015, the so-called “flexibilisation” of Bachelor’s degrees or the “3+2” system was introduced, provoking a wave of protests and criticism across the university community. The new reform allows universities to choose an undergraduate programme length that ranges from 3 to 4 years, abandoning the 4-year duration scheme adopted comprehensively in 2010. Then, a one- or two-year Master’s will follow. Many fear that it will devaluate undergraduate degrees, obliging students to undertake a Master’s in order to find a decent job. Moreover, as postgraduate tuition fees are substantially higher, some think that the overall price of university education for students’ families is likely to rise, pushing the Spanish university system towards the US model. Among other popular arguments against the reform are: the alleged lack of democratic discussion on the new text, the temporal proximity of the previous reform and the potential increase in disorder within the system. However, the reform’s supporters claim that it will favour students’ international mobility and mutual diploma recognition, bringing Catalonia closer to Europe.

About 300 students took to the streets of downtown Barcelona

On 24 March, anti-capitalist students’ union Sindicat d’Estudiants (SE) and pro-free public education students’ association Front Estudiantil Unitari (FEU) organised a protest rally against the recently-approved university reform. However, it did not have the support of all the Catalan student organisations. Left-wing pro-Catalan independence students’ group Sindicat d’Estudiants dels Països Catalans (SEPC) and progressive Catalonia-based students’ union Associació de Joves Estudiants de Catalunya (AJEC) chose not to participate. The former did so out of criticism for the SE for having unilaterally announced the protest and the latter chose not to participate on the grounds that the protest came so close after the recent student strike. The protest took place in the Catalan cities of Barcelona, Girona and Tarragona. Adrià Junyent, the FEU spokesperson, declared that it aimed at bringing together students and professors willing to fight for a public, high-quality university education system.

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Egitto. La paura bussa alla porta

Dopo la deposizione di Morsi, una nuova ondata di violenza a sfondo confessionale ha travolto l’Egitto. A lanciare l’allarme è l’organizzazione internazionale Human Rights Watch.

Con un rapporto pubblicato martedì scorso, la Ong ha fatto luce sulla catena di violenti attacchi subìti dalla comunità copta a partire dal 3 luglio 2013.

Con l’uscita di scena dell’ex-presidente, le aggressioni contro i cristiani si sono moltiplicate in tutto il paese, colpendo sei governorati, fra cui Luxor, Marsa Matrouh, Minya, il Sinai settentrionale, Port Said e Qena.

Il bilancio complessivo è di sette morti e undici feriti, tre chiese attaccate (di cui due bruciate) e ventiquattro proprietà private distrutte.

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Egitto. La violenza di genere, tra mito e realtà

La violenza di genere continua ad essere una pratica socialmente accettata che rappresenta un filo rosso capace di attraversare epoche, culture e Stati. E’ così in Egitto, dove le cose stanno cambiando grazie al lavoro dei gruppi volontari nati in questi anni, che insistono: la Storia appartiene anche alle donne.

Lo scorso settembre, la sedicenne Eman Mustafa stava camminando con un’amica nel villaggio di Arab Al Kablat ad Assiut, quando un uomo le ha palpeggiato il seno. La ragazza si è girata verso di lui e gli ha sputato in faccia. Lui l’ha uccisa con un colpo di fucile, facendole pagare a caro prezzo il suo coraggio.

La morte di Eman Mustafa ha aperto gli occhi a tutti quelli che affermano che la violenza sessuale è un problema confinato alle città. Grazie al lavoro delle organizzazioni per i diritti umani e ai gruppi di attivisti, l’assassino della giovane è stato condannato all’ergastolo lo scorso giugno.

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Tunisia. La giovane blogger che controlla i politici

Ventotto anni, una storia di attivismo alle spalle e una grande passione per il suo paese. E’ Amira Yahiauoi, cofondatrice e presidente di al-Bawsala, un’ organizzazione no-profit che si occupa di promozione della democrazia. Nel 2012, Arabian Business l’ha eletta la tunisina più influente nel mondo arabo e il barometro e-diplomacy di AFP (Agence France Press) l’ha inscritta fra le cinque personalità più influenti in rete.

Figlia del giudice ribelle Mokhtar Yahiaoui, è nata e cresciuta in una famiglia di oppositori alla dittatura di Ben Ali. Suo un cugino – Zuhair –  fu tra i primi cyber-dissidenti del paese, arrestato nel 2005 e  morto in carcere a causa delle torture subite.

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Egitto. La ‘transizione’ secondo Twitter

Dal 30 giugno scorso, i riflettori dei media internazionali sono tutti puntati sul Cairo. Ma cosa dicono davvero i blogger e i giornalisti egiziani?

 

Il 4 luglio, il giorno dopo la deposizione dell’ex presidente Morsi, il giornalista Hossam Al-Hamalawi twittava: “Nei prossimi giorni sarà necessario camminare in punta dei piedi. Ci troviamo nella stessa situazione in cui ci trovammo nel febbraio del 2011, ma siamo meno euforici, appesantiti dalle preoccupazioni per il futuro”.

Il giorno successivo, quando ormai la violenza fra sostenitori e oppositori di Morsi deflagrava in tutto il paese, l’attivista Rawah Badrawi scriveva: “Tutti devono andare a casa, qualsiasi cosa succeda stanotte è una trappola”.

Poco prima invece, la blogger Zeinobia chiosava: “In conclusione, è finita egiziani contro egiziani, grazie Morsi!”.

Con soli 140 caratteri a disposizione, giovani operatori dell’informazione o semplici attivisti continuano a raccontare la transizione politica minuto per minuto, a colpi di cinguettii, video e foto. Un flusso di notizie ininterrotto che però resta difficile da verificare perché, come ha scritto la stessa blogger Gigi Ibrahim due giorni fa,: “Nessuno sa cosa sta succedendo…troppe voci di corridoio e troppi report non confermati”.

Non a caso a questo proprosito, Quinta Smith ed Eline Kasanwidjojo (ricercatrici dell’Arab West Report) affermano: “Oggi seguire i media ci ha fatto impazzire. Troppi rumors che vengono presentati come fatti. La televisione statale non sta mostrando le proteste pro-Morsi e […] chi fa informazione cerca di polarizzare ulteriormente il paese. […] nell’attuale lotta per il potere, il peso dei media non deve essere sottovalutato. Sono loro a controllare e influenzare l’operato di milioni di persone”.

Ma non è solo la cronaca a trovare spazio in rete. Sul web si aprono vere e proprie discussioni come quelle sulla natura dell’attuale transizione e sul fenomeno degli stupri di gruppo.

 

INQILAB AU IRADAT AL-SHAAB? COLPO DI STATO O VOLONTÀ POPOLARE?

“Certamente si è trattato di un colpo di Stato militare, ma non solo di quello. E’ stato un colpo di Stato accompagnato da una rivolta popolare”, ha twittato Rawya Rageh, giornalista di Al-Jazeera al Cairo, lanciando in rete la prima, nonché fondamentale, questione che ha animato molti dibattiti del post-Morsi.

E se sulla stessa linea Hossam al-Hamalawi spiega: “L’esercito non avrebbe osato intervenire se 30 milioni di egiziani non fossero scesi in piazza a protestare per chiedere la deposizione di Morsi”, d’altro canto Jamal Elshayyal ricorda le ragioni dello schieramento pro-Morsi, sottolineando che “in Egitto, i supporter dei Fratelli Musulmani continuano a tenere in alto gli striscioni con la scritta ‘Dov’è il mio voto?'”.

 

Anche tra i blogger egiziani più famosi non sembra esserci accordo sulla natura e direzione dell’attuale transizione politica. Mentre Zeinobia parla infatti di “colpo di Stato legittimo”, una ‘firma’ del web come Wael Abbas mostra molta meno fiducia nei confronti dell’operato dell’esercito, con Khaled Shaalan che su Jadiliyya accusa invece i media occidentali di fornire una lettura distorta degli avvenimenti egiziani, calcando la mano sull’idea di una polarizzazione della società civile ed etichettando la deposizione di Morsi come un colpo di Stato tout court.

 

Una polemica che è rimbalzata anche su Twitter dove, in un post indirizzato alla CNN, la blogger Gigi Ibrahim sentenzia: “Questo non è un coup, è la nostra rivoluzione”.

 

SE DALLE VIOLENZE SESSUALI CI SI DIFENDE CON UN TWEET

Il web non sembra ignorare neanche l’esplosione del fenomeno delle violenze sessuali contro le manifestanti: in un tweet datato 5 luglio l’attivista Mariam Kirollos dichiarava: “Sapete cos’è ancora più doloroso della violenza di genere e degli stupri di Tahrir? Il fatto che ci siano persone che neghino che questi fatti siano avvenuti”.

 

Ieri invece, in un post genericamente indirizzato ai manifestanti anti-Morsi, la giornalista Amira Salah-Ahmed scriveva: “Sapete di cos’altro ha bisogno la vostra rabbia? Degli attacchi sessuali di gruppo e degli incidenti di stupro che avvengono mentre voi guardate i bei fuochi di artificio di Tahrir. Svegliatevi!”.

 

Molte critiche degli attivisti sono indirizzate contro i partiti politici che hanno organizzato le proteste. In un post di domenica, il ricercatore H.A. Heller accusava: “Vergogna per tutte quelle forze politiche che hanno ispirato le manifestazioni ma non hanno fornito un supporto totale all’Operation Anti-Sexual Harassment per proteggere le donne dalla violenza sessuale”.

 

Tante anche le associazioni nate proprio per combattere questo fenomeno e che usano la rete per coordinare le loro attività, avvertire di potenziali pericoli e diramare comunicati importanti sulla situazione di Piazza Tahrir.

 

In conclusione, anche se spesso appare più che difficile verificare le informazioni che circolano sul web, i social media si confermano uno specchio importante per leggere l’attuale società civile egiziana: plurale, frammentata ma soprattutto in perenne fermento e sempre pronta al dibattito. E in una transizione fluida come questa, la rete e la diffusione del citizen journalism sembrano davvero essenziali per poter osservare quanto accade al di là della riva sud del Mediterraneo.

 

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Egitto, l’intolleranza salafita contro la minoranza sciita

Lo spettro della violenza su base confessionale torna a serpeggiare in Egitto. Questa volta però a finire nel mirino non sono i copti, ma gli sciiti. In quattro hanno perso la vita domenica scorsa vicino al Cairo, vittime di un feroce linciaggio.

 

Scenario delle violenze, il villaggio di Zawyat Abu Musalam (governorato di Giza), dove una folla di uomini, accecati dalla rabbia, ha assediato la casa di un abitante sciita in cui si stava celebrando la caduta della metà dello Sha’ban, la festa religiosa che precede il Ramadan.

All’interno dell’abitazione, circa ventiquattro persone, tra cui il leader spirituale Sheikh Hassan Shehata. E proprio lui sembrava essere l’obiettivo degli assalitori che, dopo aver circondato l’edificio, lo hanno attaccato lanciando pietre e bottiglie molotov.

Secondo diversi testimoni oculari, sul luogo erano presenti sei ufficiali di polizia che si sono mantenuti a debita distanza dall’incidente senza intervenire. In base alla ricostruzione dell’Egyptian Initiative for Personal Rights, a incitare al linciaggio sarebbero stati alcuni leader salafiti presenti al momento dell’attacco.

Dopo alcune ore di assedio, gli aggressori sono riusciti a far crollare alcune parti dell’abitazione, costringendo tutti a uscire. A quel punto alcuni si sono accaniti sullo Sheikh Hassan Shehata, malmenandolo e lasciando a terra privo di vita. Nel tentativo di salvarlo, sono morti anche due dei suoi figli e uno studente.

 

LA REALTÀ LOCALE E IL PANORAMA NAZIONALE

Nel villaggio di Zawyat Abu Musalam, da alcuni mesi la popolazione sciita è vittima di molestie e attacchi. A fomentare la violenza sarebbero soprattutto i leader salafiti locali che definiscono gli sciiti degli “infedeli portatori di dissolutezza”. Numerosi testimoni hanno raccontato che da circa tre settimane la tensione è molto alta e l’incitamento allo scontro si è fatto più pressante, soprattutto nei sermoni della moschea locale.

Secondo Amnesty International, il presidente Morsi ha il dovere di aprire un’indagine per accertare il ruolo svolto dalle forze dell’ordine e dai gruppi ultra-conservatori.

Tuttavia la “questione sciita” in Egitto non può essere ridotta a una diatriba di carattere locale. Episodi di violenza e discriminazione contro questa “minoranza musulmana” si sono verificati negli ultimi anni in tutto il paese.

Come nel novembre del 2012, quando in seguito a una petizione promossa dai movimenti salafiti, ad alcuni sciiti è stato proibito di entrare nella moschea di al-Hussein al Cairo per celebrare l’Ashoura. Ancora prima, nell’ottobre del 2011, le autorità egiziane avevano vietato la registrazione di un partito politico sciita e lo scorso aprile 2013, una studentessa di Assiut avrebbe rischiato l’espulsione dal collegio femminile di al-Azhar dopo essere stata accusata di ‘sciismo’.

 

LE STATISTICHE

In Egitto, le tensioni fra sunniti e sciiti appartengono a un capitolo piuttosto recente della storia del paese, determinato anche dalla presenza di alcuni sheykh salafiti che spingono verso un irrigidimento della comunità locale.

Sebbene non esistano fonti ufficiali, dall’analisi di diversi dati è possibile affermare che gli sciiti costituiscono tra l’1 e il 2% della popolazione egiziana. E se per lungo tempo le due comunità hanno convissuto in armonia (anche perché il sunnismo egiziano ha assorbito alcune influenze sciite), le divisioni confessionali si sono politicizzate sotto Mubarak che descrisse gli sciiti come “più fedeli all’Iran che a qualunque altro Stato di appartenenza”.

 

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La crisi del Sinai: di ostaggi, armi e (presunti) terroristi

L’ultimo capitolo della “saga del Sinai” si è concluso il 22 maggio scorso con il rilascio di sette ufficiali delle forze di sicurezza egiziane. La “crisi degli ostaggi” è dunque rientrata dopo una settimana di intenso braccio di ferro fra il governo centrale e un gruppo ribelle attivo nella penisola.

 

Il 16 maggio scorso sei poliziotti e un soldato sono stati rapiti nei pressi di al-Arish, città nel nord del Sinai, da un gruppo armato jihadista che, in cambio del loro rilascio, ha richiesto la liberazione di sei prigionieri – membri di Tawhid wa al-Jihad – condannati a morte per un attacco contro la polizia del 2011.

Secondo la ricostruzione ufficiale, alcuni leader tribali avrebbero partecipato alle operazioni di mediazione con i rapitori, che mercoledì scorso hanno liberato gli ostaggi a sud di Rafah (al confine con la Striscia di Gaza), senza che le loro richieste fossero accolte e sotto la minaccia di un attacco da parte dell’esercito egiziano.

La “crisi” si è dunque conclusa nel giro di poco meno di una settimana in cui Morsi è stato sottoposto a forti pressioni da parte delle forze armate e dell’opinione pubblica nazionale.

Durante la conferenza stampa che ha seguito la cerimonia di ricevimento degli ostaggi liberati, il presidente ha tessuto le lodi delle forze di sicurezza, sottolineando l’importanza della cooperazione fra militari, polizia e civili.

Inoltre, nel tentativo di “inquadrare” la crisi in un contesto più ampio ha dichiarato: “Questa operazione rappresenta un importante punto di partenza per garantire alla popolazione del Sinai i diritti politici, economici e sociali che gli spettano, e mettere a punto un piano di sviluppo organico per questa regione”, invitando gli abitanti della penisola a deporre le armi.

 

VOCI FUORI DAL CORO

 

Ma l’operato del governo è stato criticato su più fronti, e sulla stampa si è accesa la polemica sull’identità dei rapitori. 

Secondo al-Arabiya, gruppi salafiti jihadisti avrebbero dichiarato a sorpresa (in un comunicato del 21 maggio scorso) la loro estraneità al rapimento, accusando a loro volta la presidenza, il ministero dell’Interno e le forze armate di “inventare accuse” nel tentativo di screditare l’immagine dei ribelli attivi nella penisola.

Inoltre, nello stesso comunicato, hanno messo in guardia l’esercito dall’avviare una “battaglia” contro di loro, precisando che il loro unico bersaglio è Israele, non i soldati egiziani, e sottolineando l’esigenza di fare giustizia per gli abitanti del Sinai finiti in carcere. 

Anche il Fronte di Salvezza Nazionale ha fatto sentire la propria voce sulla questione accusando Morsi e il suo governo di inefficienza in relazione all’amministrazione del Sinai e dichiarando il proprio sostegno a una campagna contro i “terroristi” presenti nella penisola. 

“Il presidente deve considerare con estrema serietà il diritto dell’opinione pubblica a conoscere dettagliatamente la situazione sul campo e lo stato delle cellule terroristiche e criminali attive all’interno dei confini egiziani”, hanno dichiarato i partiti di opposizione.

Infine, su al-Fagr, il maggiore generale Abdul Rafaa Darwish (fra i fondatori del  partito Volontà e Costruzione) ha puntato il dito contro Hamas, evidenziando le responsabilità dell’organizzazione palestinese in relazione al rapimento dei sette ufficiali egiziani, attraverso i suoi “tentacoli” nella penisola. 

In questo clima di confusione e incertezza, un dato sembra però emergere piuttosto chiaramente: la crisi degli ostaggi della scorsa settimana rappresenta solo la punta dell’iceberg. 

La presenza di numerosi gruppi armati nella penisola, il continuo traffico illegale di armi da Libia e Sudan, e l’odio radicato della popolazione locale per il governo centrale: sono questi i veri nodi che il presidente Morsi dovrà sciogliere, per “prevenire” la riapertura di nuovi fronti di crisi nazionale.

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Egitto. Il ritorno dei militari?

A due anni dalla rivoluzione del 25 gennaio 2011, un gruppo di veterani dell’esercito ha fondato “volontà e costruzione”, un nuovo partito politico. Deliberatamente schierato contro Morsi, si propone di risanare radicalmente il paese strizzando l’occhio ad un potenziale intervento dei militari.

 

‘Siamo scesi in campo per cercare di arrestare il declino a cui l’Egitto sta andando incontro […] perché abbiamo capito che le manifestazioni, le apparizioni televisive e le dichiarazioni sui giornali non sono sufficienti a salvare il paese’, ha dichiarato il generale Muhammed Okasha.

Il partito è nato ufficialmente lo scorso marzo dall’idea di cinque ufficiali dell’esercito in pensione, stanchi – a loro dire – di assistere al continuo deterioramento della situazione politica ed economica.
Già eroi della guerra dello Yom Kippur e supporter attivi delle manifestazioni contro Mubarak, hanno deciso da più di un anno di dare vita a una loro formazione politica con l’obiettivo di farla diventare la prima del paese.
Infatti, ‘dopo la rivoluzione non è cambiato nulla: i poveri continuano a mangiare spazzatura e il ceto medio è privo di diritti. Da quando i Fratelli Musulmani sono saliti al potere, la situazione è peggiorata in modo pericoloso’, ha dichiarato uno dei fondatori, il generale Abdul Rafa’a Darwish, ai microfoni di al-masry al-youm.
Sul piano teorico, i membri di ‘volontà e costruzione’ si propongono di creare un partito fortemente inclusivo che lotti per i diritti delle fasce più deboli della società, come i giovani, le donne e i copti.
Su quello pratico invece hanno un piano piuttosto elaborato che prevede la rimozione di Morsi attraverso l’intervento dell’esercito e la temporanea consegna del potere dapprima (per sessanta giorni) al vertice dell’Alta corte costituzionale e in seguito a un comitato presidenziale composto da cinque membri (due economisti, un rappresentate dell’università islamica al-Azhar, uno della chiesa copta e un militare).
Secondo il loro ‘progetto di salvataggio del paese’, la Costituzione andrebbe riscritta sulla base dei principi della carta del 1971 e della dichiarazione costituzionale del marzo 2011, mentre la transizione servirebbe ad organizzare nuove elezioni presidenziali e parlamentari.
“Daremo il nostro supporto a un’iniziativa militare (per rimuovere Morsi) […] esclusivamente volta a proteggere il paese, non a governarlo di nuovo”, ha messo in chiaro il generale Muhammad Okasha.
Ma non tutti i membri sembrano completamente d’accordo su questo punto, e alcuni sottolineano che nella fase attuale un ‘colpo di Stato’ dei generali sarebbe percepito in maniera negativa dalla comunità internazionale e potrebbe addirittura aprire la porta all’intervento occidentale nel paese.
“Nessuno rimuoverà nessuno” ha dichiarato il capo delle forze armate Abdul Fatah Al-Sisi sabato scorso, sottolineando che la risposta all’attuale crisi politica non sta nelle armi ma nelle urne.
Secondo al-Monitor, lo scarso consenso di cui gode attualmente la presidenza Morsi rappresenterebbe un’occasione imperdibile per ‘volontà e costruzione’ a livello elettorale, soprattutto se il partito sarà in grado di ‘capitalizzare’ sulla popolarità e la fama delle forze armate con cui il legame è molto forte.
“La nostra relazione con l’esercito è cristallina, noi siamo ‘figli’ di questa istituzione che è fra le più importanti del paese. Ma questo non significa che i militari ci supportino direttamente perché noi siamo un partito politico ‘civile’ al servizio della società, anche se rispettiamo in pieno il ruolo e la storia delle forze armate”, ha dichiarato uno dei fondatori.
MORSI E L’ESERCITO
In un paese dove il primo presidente civile è stato eletto dopo più di mezzo secolo di storia repubblicana, l’esercito conserva un peso enorme nella vita economica e politica.
Per chiunque si appresti a guidare la transizione (e a fare delle riforme), lo scontro con quest’istituzione è inevitabile.  
Dopo la salita al potere, Morsi ha cercato in ogni modo di ‘accontentare’ le forze armate,  promuovendo una nuova costituzione che ne garantisse l’autonomia e i privilegi.
Per esempio, ha assegnato la carica di ministro della difesa a un militare, stabilendo che il budget dell’esercito non passi più per il parlamento ma venga approvato direttamente dal Consiglio nazionale della difesa (supervisore, tra l’altro, di tutti i rapporti finanziari fra forze armate e gli Stati Uniti).
Ma nonostante questa politica di compensazione e compromesso, non tutti nell’esercito sembrano ‘soddisfatti’ dalle politiche del nuovo presidente.
E la nascita di un partito come “volontà e costruzione” potrebbe essere un segnale del malcontento che serpeggia in questi ambienti.

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