Femen: guerra santa senza veli o neocolonialismo culturale?

Giovedì scorso il collettivo femminista Femen è tornato a far sentire la propria voce con la controversa iniziativa “Topless Jihad Day”, una mobilitazione duramente criticata anche da molte musulmane.

SE IMPAZZA LA CONTRO-PROTESTA

‘Donne Musulmane contro Femen’ è il nome della campagna online nata il 5 aprile su facebook, all’indomani della mobilitazione del collettivo ucraino.

 Nel giro di pochi giorni ha guadagnato più di 5.000 adesioni, stimolando un ampio dibattito anche su twitter, con l’hashtag #Muslimahpride.

 Le sostenitrici di questa campagna accusano Femen di ‘islamofobia e imperialismo culturale’, esprimendo un netto rifiuto per lo stereotipo della donna araba “vittima passiva” della sua cultura e religione. 

 Sofia Ahmed – fondatrice della pagina facebook – ha invitato le donne musulmane di tutto il mondo a ‘insorgere’ e in tantissime hanno raccolto il suo appello postando foto e scrivendo brevi messaggi.

 Da ‘L’Islam mi ha liberato’ a ‘Non ho bisogno di essere salvata’, questo il tono di alcune delle dichiarazioni apparse sui social network. 

 La campagna nasce per criticare il tentativo di Femen di imporre i propri valori sull’universo femminile musulmano. 

 “Stiamo prendendo una posizione per far sentire la nostra voce e reclamare il nostro diritto di scelta.  Ne abbiamo abbastanza dell’atteggiamento paternalistico e parassitario di alcune femministe occidentali”, si legge sulla pagina facebook del gruppo. 

 

LA ‘GUERRA SANTA’ DI FEMEN

‘Topless Jihad Day’ è invece l’iniziativa organizzata da Femen a sostegno dell’attivista tunisina Amina Tyler e contro l’oppressione delle donne da parte dei gruppi islamisti.

 Giovedì scorso il collettivo femminista ucraino ha organizzato delle azioni di protesta in molte capitali europee, dove le componenti hanno manifestato a seno scoperto, urlando slogan contro l’Islam.

 Tra i gesti più eclatanti, la messa a fuoco della bandiera salafita davanti alla Grande Moschea di Parigi. Poi – in una lettera aperta alle Donne Musulmane contro Femen -, la leader Inna Shevchenko ha dichiarato di accettare che ci siano donne che scelgano liberamente di indossare il velo.

 In questa occasione, l’attivista ha ribadito che il suo gruppo non è contro la religione, ma contro quelle dinamiche di violenza e oppressione che troppo spesso vengono compiute nel nome di Dio. 

 E difendendosi dalle accuse di imperialismo culturale, ha aggiunto: “La libertà non ha niente a che vedere con la nazionalità o il colore della tua pelle. Non c’è un pacchetto di diritti umani per gli europei e un altro per gli arabi o gli americani, i diritti umani sono universali”. […]

 “Puoi indossare tutti i veli che vuoi se domani sei libera di toglierli e poi rimetterli a tuo piacimento, ma non negare che ci sono milioni di donne come te che hanno paura dietro a quel velo, che subiscono violenze fisiche e sessuali perchè non rispettano le norme religiose. Noi siamo qui per gridare contro questa ingiustizia!”. 

 Femen è nato in Ucraina nel 2008 e ben presto ha acquisito una popolarità mondiale, soprattutto in virtù delle tecniche di protesta utilizzate, in primis il seno scoperto.

 Le attiviste dichiarano di lottare per i diritti delle donne e contro ogni tipo di istituzione (politica, religiosa ed economica) che riproduca il sistema del patriarcato.

 Già in passato hanno organizzato azioni dimostrative contro l’islamismo e la shari’a, mobilitandosi anche sul tema delle mutilazioni genitali femminili. La loro rete ha ormai acquisito una dimensione globale, giungendo a toccare anche alcuni paesi arabi. 

 

LE FEMEN ARABE

In Tunisia per esempio la fan page ‘locale’ del collettivo ucraino conta più di 17.000 adesioni e la cineasta Nadia al Fani, insieme alla giornalista francese Caroline Fourest, ha girato un documentario su di loro. Ed è proprio a sostegno di una Femen tunisina, la giovane Amina Tyler, che si è svolta l’iniziativa ‘Topless Jihad Day’. 

 L’attivista araba sta infatti subendo le ripercussioni del suo eclatante gesto: aver postato alcune foto su facebook in cui posava a seno scoperto.

 Sul suo corpo due scritte in nero. La prima, ‘Fuck your morals’, e la seconda: ‘Il mio corpo mi appartiene e non è la fonte dell’onore di nessuno’.

 Subito dopo la pubblicazione in rete, le foto di Amina hanno avuto una diffusione virali e la giovane si è ritrovata al centro di aspre e pericolose polemiche. 

 L’imam Adel Almi ha proposto che, in base al diritto penale islamico, la ragazza venga condannata a ricevere tra le 80 e le 90 frustrate, anche se per la gravità dell’atto commesso meriterebbe addirittura di essere lapidata. 

 “La sua azione potrebbe provocare un effetto domino e potrebbe essere contagiosa, mettendo in testa idee strane ad altre donne. Perciò è necessario fare di questo incidente un caso isolato”, ha dichiarato l’imam.

 Dopo lo scoppio dello scandalo, Amina è sparita dalla circolazione per circa due settimane per poi riapparire in una trasmissione televisiva dell’emittente francese Canal Plus, in cui ha ammesso di temere per la propria vita.

 E secondo Al-Masry Al-Youm, sempre Amina starebbe cercando di lasciare il paese, per cominciare un corso di giornalismo all’estero. 

 Ma il suo non è l’unico caso del genere. Nel 2011, a destare scandalo nel mondo arabo era stata l’egiziana Aliaa Magdi, anche lei per delle foto di nudo (integrale) apparse sul suo blog.

 Oggi anche lei è diventata una Femen, e ha lasciato l’Egitto per vivere in Europa.

 Nel dicembre del 2012 ha partecipato a una manifestazione con altre attiviste del gruppo ucraino per protestare contro l’oppressione delle donne da parte dell’Islam.

 Un  gesto – che secondo la femminista egiziana Yasmine Nagaty – va interpretato come reazione alla salita al potere dell’islam politico.

 

CHI PARLA PER CHI? 

Le critiche contro Femen si concentrano su due aspetti: l’uso del nudo come arma contro il patriarcato e la presunta retorica neocolonialista.

 Da una parte, protestare a seno nudo per attirare l’attenzione su questioni di genere è considerato da molti come un gesto contraddittorio che rischia di rinforzare quegli stessi stereotipi sessisti contro cui combatte.

 Dall’altra però le Femen si difendono da quest’accusa e spiegano che per loro il corpo è un’arma, non un oggetto sessuale.

 Le attiviste del collettivo devono sottoporsi a duri allenamenti fisici prima di poter partecipare alle proteste e devono anche imparare a muoversi in un modo che sia del tutto privo di richiami sessuali.

 Eppure, per la ricercatrice Sara Salem, molti aspetti del ‘discorso’ di Femen sono in realtà neocolonialisti’, come l’associare il velo all’oppressione e la serpeggiante convinzione che le donne musulmane non abbiano coscienza della loro oppressione. 

 “Affermano di essere contro Femen ma noi siamo qui per loro. Scrivono sui loro cartelli che non hanno bisogno di liberazione, ma i loro occhi chiedono aiuto”, ha dichiarato la leader del movimento ai microfoni di Al-Jazeera.

 Storicamente, alcuni regimi dittatoriali appoggiati dall’Occidente (come quelli di Ben Ali in Tunisia e Mubarak in Egitto) sono stati in prima linea nella promozione dei diritti delle donne, cooptando il movimento femminista all’interno delle strutture statali. E sarebbe proprio l’associazione tra regime post-coloniale e femminismo di Stato ad aver reso ambiguo il concetto di ‘liberazione’ ed ’emancipazione’ in molti paesi arabi, dove certe riforme sono state vissute come una vera e propria imposizione anti-democratica, suscitando reazioni come quella islamista.

 In questa cornice storico-politica, lo sdegno espresso dalla campagna ‘Donne Musulmane contro Femen’ acquisisce un valore ancora più profondo e legittimo.

 Ciononostante appare vero anche il contrario: questa stessa campagna non ‘rappresenta’ tutte le donne che vivono all’interno di quelle comunità in cui l’Islam è maggioritario, come Amina o Aliaa che reclamano quella libertà di scelta rivendicata dal collettivo ucraino.

 Quindi se da un lato il femminismo di Femen non è e non deve essere l’unico possibile – riconoscendo piena legittimità alle tante e variegate realtà locali sia di lotta e che di vita -, dall’altra andrebbero comunque sostenute le scelte di coloro che si pongono come outsider all’interno della propria comunità. 

This article was originally published by: Osservatorio Iraq – Medioriente e Nordafrica

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