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Turchia. I “Mitili rotti” di Istanbul

“Mitili Rotti” è il primo lungometraggio del regista turco Seyfettin Tokmak. Il film è stato proiettato a Roma, nella V edizione del Festival dedicato al cinema curdo.  di Valentina Marconi    In “Mitili Rotti”, Tokmak racconta la vita nelle periferie di Istanbul attraverso la storia di due cugini – Hakim e Feisal -, curdi originari di Mardin, una città al confine con la Siria.

 

In “Mitili Rotti”, Tokmak racconta la vita nelle periferie di Istanbul attraverso la storia di due cugini – Hakim e Feisal -, curdi originari di Mardin, una città al confine con la Siria.

I due bambini approdano nella metropoli in cerca di fortuna, e puntano a guadagnare il denaro sufficiente per emigrare in Germania.

Trascorrono le loro giornate cercando di sbarcare il lunario, con lavoretti illegali.

Hakim, ribelle e aggressivo, vuole avviare un piccolo business e vendere i mitili (cozze) per strada. Feisal, più pacato e con i piedi per terra, inizia come lavapiatti ma si lascia trascinare dall’amico in mille avventure.

L’unità narrativa attorno alla quale si snoda la storia è un ostello decrepito in cui (con)vive un gruppo multiculturale di inquilini.

Qui, Hakim e Feisal fanno amicizia con dei giovani migranti congolesi diretti in Grecia e due rifugiate bosniache, Medina e sua figlia Elma. La madre scompare in cerca di denaro e la piccola resta sola. E saranno proprio Hakim e Feisal a doversene prendere cura.

IL MESSAGGIO

La storia dei due giovanissimi protagonisti rispecchia le difficoltà di vita di due bambini costretti a vivere la strada e una quotidianità fatta di violenza, povertà e incertezza, in un mondo ostile e pericoloso.

Ciononostante, il loro agire è sempre carico di speranza e tutte le avventure, per quanto rischiose, conservano, in fondo, il sapore del gioco.

Il tema dell’emigrazione è il filo rosso che lega le storie di tutti personaggi: se Hakim e Feisal sognano di andare in Germania, il gruppo di congolesi è in partenza per la Grecia mentre Medina ed Elma sono giunte ad Istanbul dalla Bosnia in cerca di cure mediche.

Ma soprattutto si parla di Turchia.

“Questo è un film che vuole mostrare come l’Europa rappresenti ancora il paradiso nell’immaginario dei bambini curdi”, spiega il regista, sottolineando che il titolo del film – “Mitili rotti” – fa riferimento ad un’attività tipica della gente di Mardin emigrata a Istanbul, legata a un’antica tradizione armena che i curdi hanno appreso e fatto propria.

Tokmak racconta di averlo scoperto in una freddissima giornata invernale, quando insieme a Kenan Kavut, autore della sceneggiatura, ha notato dei ragazzi che facevano il bagno nelle acque del Bosforo per pescare i mitili e poi rivenderli.

 

IL FILM

“Militi Rotti” è stato interamente girato ad Istanbul. L’obiettivo del regista era mostrare “la parte oscura di quella città, dei suoi sobborghi spesso lontani dagli occhi dei turisti”.

Il film s’ispira al neorealismo italiano: Hakim e Feisal non sono attori professionisti, così come la maggioranza dei personaggi.

Entrambi vengono da città situate nel sud-est del paese, dove vivevano “per strada”: “Non sapevano niente di cinema prima di partecipare a questo lungometraggio”, conferma Tokmak.

Nonostante la storia si svolga nelle periferie della metropoli, la pellicola è ricca di elementi di respiro internazionale. Le diverse nazionalità dei protagonisti, il multilinguismo – con dialoghi in curdo, turco, bosniaco e congolese – e infine la musica, che è opera di un gruppo svedese.

Il film è uscito in diverse città della Turchia nel 2012, suscitando scalpore visto che il regista (di origini turche) ha deciso di dedicare il proprio debutto alla storia di due bambini curdi.

 

LA REALTÀ

Poco dopo l’uscita della pellicola nelle sale cinematografiche, il ragazzino curdo che interpreta Hakim è finito in prigione per aver tirato delle pietre contro la polizia durante una manifestazione.

E’ rimasto in carcere per ben quattro mesi.

Il regista afferma di essersi personalmente impegnato per il suo rilascio: “Penso che il giudice l’abbia liberato in virtù della sua carriera di attore”, ha dichiarato Tokmak. Due mesi fa ha vinto il premio come miglior attore in Turchia.

 

IL FESTIVAL DI ROMA

Il Festival di cinema curdo di Roma, inaugurato il 16 gennaio scorso, è giunto alla sua quinta edizione.  Organizzato dall’associazione Europa Levante, l’evento prende il nome di Heviya Azadiyé, “Speranza di libertà”.

Nella cinque giorni di kermesse si sono alternate sullo schermo venti pellicole, tra documentari, film e e cortometraggi.

L’anteprima dell’evento si è tenuta il 14 gennaio al Teatro Valle occupato di Roma, con la proiezione di un film storico, “Zare”. Quest’anno il festival era dedicato a Mirella Galletti, illustre esperta di curdologia scomparsa nel 2012.

 

This article has been originally published by: Osservatorio Iraq – Medioriente e Nordafrica

Focus Egitto/ Amnesty chiede giustizia per i giovani di Piazza Tahrir

A due anni dalla rivoluzione del 25 gennaio un nuovo rapporto di Amnesty International denuncia l’impunità delle forze dell’ordine per le violazioni compiute nel 2011. Violazioni che continuano anche dopo la caduta di Mubarak.

 

“Nessun alto funzionario o agente delle forze di sicurezza è stato condannato o punito adeguatamente per aver ucciso o ferito i manifestanti”, si legge nel rapporto, che mostra le immagini dei tanti giovani caduti nel corso degli scontri e che ancora non hanno giustizia.

 

MORSI, E L’ASSENZA DI CAMBIAMENTO

Durante la sua campagna elettorale, Morsi avea promesso che avrebbe punito i colpevoli. Più volte, nei suoi discorsi, ha ribadito la volontà di onorare la memoria dei martiri della Primavera egiziana.

All’inizio del mandato, l’attuale presidente ha istituito una commissione investigativa con l’obiettivo di indagare la violenza perpetrata dalle forze dell’ordine durante i 18 giorni di scontri che hanno portato alla caduta del regime di Mubarak.

Il rapporto della commissione gli è stato consegnato lo scorso 8 gennaio, ma il contenuto non è ancora stato reso pubblico né condiviso nella sua interezza con i familiari delle vittime.

Per Amnesty, cosi facendo, il leader della Fratellanza sta violando il diritto internazionale, celando ai cittadini egiziani la verità su quanto è accaduto ai loro cari.

Inoltre, il 13 gennaio scorso un verdetto della Corte di cassazione ha annullato la sentenza di condanna dell’ex presidente Hosni Mubarak e del suo ministro degli interni, Habib El Adly.

I due erano accusati di complicità negli omicidi eseguiti dalle forze dell’ordine durante le proteste del 2011.

Per questo a giugno del 2012 erano stati condannati all’ergastolo. La recente decisione della Corte di cassazione ha però riaperto il procedimento a loro carico.

Da quando Morsi è salito al potere, si sono registrate altre dodici morti durante manifestazioni di piazza. Gli scontri sono cominciati alla fine di novembre, dopo che il presidente ha emanato un decreto per assicurarsi ampi poteri.

Ma è stato soprattutto l’annuncio dell’approvazione della una nuova bozza di Costituzione e del relativo referendum a far riesplodere la violenza in tutta la sua forza.

Fra il 5 e 6 dicembre, dieci persone hanno perso la vita durante gli scontri tra gli oppositori e i sostenitori di Morsi. Secondo la ricostruzione di Amnesty, i fedelissimi del presidente hanno attaccato i manifestanti che si erano riuniti per un sit-in pacifico davanti al palazzo presidenziale.

Le forze dell’ordine, presenti nella zona a intermittenza, non sarebbero però prontamente intervenute per arginare la violenza e contrapporsi ai due gruppi.

Gli osservatori dell’Ong denunciano l’uso di molotov e fucili da parte di entrambi i blocchi, sottolineando inoltre che la maggior parte dei sostenitori del presidente Morsi sarebbero stati condotti al Cairo con dei pulmann.

 

AMNESTY E LE VIOLAZIONI DEI DIRITTI UMANI

Nel corso degli scontri del 2011, Amnesty ha istituito una commissione d’inchiesta con l’obiettivo di esaminare le violazioni dei diritti umani perpetrate dalle forze di sicurezza contro i manifestanti.

Il bilancio dei 18 giorni (25 gennaio – 13 febbraio) è ormai noto e conta 840 vittime e 6.600 feriti. 

Le forze dell’ordine avrebbero utilizzato gas lacrimogeni, cannoni ad acqua, fucili da caccia e proiettili di gomma contro i manifestanti.

L’uso di queste armi sarebbe spesso avvenuto in situazioni in cui le proteste si stavano svolgendo in maniera pacifica, senza che vi fosse un serio pericolo per nessuno.

I familiari delle vittime puntano il dito contro il sistema giudiziario egiziano e, soprattutto, la Procura che, in base alle loro dichiarazioni, non avrebbero assolto ai loro doveri.

I colpevoli delle brutali violazioni dei diritti umani – verificatesi in piazza Tahrir come nel resto del paese – non sono sarebbero stati adeguatamente puniti.

Il sistema giuridico egiziano prevede che i procuratori godano di un forte potere discrezionale, soprattutto quando si tratta di casi relativi a pubblici ufficiali: oltre a svolgere le indagini, possono decidere se portare un determinato caso davanti ad una Corte.

La vittima di un reato o i suoi familiari non possono fare appello contro la decisione del procuratore.

Inoltre, sia la polizia che alcuni membri del ministero dell’Interno hanno la facoltà di partecipare alle indagini, con la conseguenza che nel caso di crimini in cui siano coinvolti pubblici ufficiali si potrebbe verificare una sorta di “conflitto d’interessi”.

“La polizia non fornirà le prove che sono necessarie ad incolparla. Com’è possibile che l’istituzione accusata di aver ucciso i manifestanti sia la stessa a portare avanti le indagini sulle uccisioni?”, dichiara la madre di Muhamed Rashid, morto il 28 gennaio 2011, mentre prendeva parte alle manifestazioni anti-Mubarak.

Appena dieci giorni fa, la storia si ripete. Una corte di Beni Suef decide di rilasciare 14 pubblici ufficiali accusati di aver ucciso e ferito i manifestanti di Piazza Tahrir.

Durante ‘l’interregno militare’ che ha preceduto l’elezione di Morsi, i cittadini hanno continuato a scendere in piazza. In 120 hanno perso la vita nel giro di un anno.

Tuttavia – denuncia Amnesty – sarebbero solo tre gli ufficiali di basso rango condannati per uso improprio o eccessivo della forza ai danni dei manifestanti. Il resto dei militari continua a svolgere le proprie mansioni di “addetto alla sicurezza dello Stato”.

 

LE RICHIESTE DI AMNESTY

In base al diritto internazionale, gli stati hanno l’obbligo di indagare e punire le violazioni dei diritti umani che si verificano sul loro territorio.

Per fare questo, devono innanzitutto predisporre indagini efficaci volte ad accertare se un certo crimine sia stato commesso o meno. In seguito, in presenza di prove, è possibile procedere ad un processo e, eventualmente, sanzionare i responsabili di una determinata violazione.

Secondo Amnesty, fare giustizia e rivelare la verità sui crimini delle forze dell’ordine è indispensabile.

L’Ong chiede al governo egiziano di far luce sulle violazioni dei diritti umani perpetrate dai pubblici ufficiali per ridare credibilità alle istituzioni politiche del paese.

Nella parte conclusiva del documento, Amnesty avanza una lunga serie di richieste a Morsi. Partendo dalla necessità di rendere pubblico il rapporto della commissione che il presidente ha istituito all’inizio del suo mandato.

Nell’elenco compaiono anche la creazione di un nuovo organo indipendente per il proseguimento delle indagini e la garanzia della cooperazione di ministero della Difesa e degli Interni.

Amnesty ribadisce inoltre che i responsabili delle violazioni dei diritti umani devono essere portati davanti ad un tribunale e processati mentre le vittime e i familiari delle vittime devono essere protetti da ogni tipo di intimidazione.

In Egitto – prosegue l’organizzazione – servono riforme importanti, come quella dei poteri riconosciuti alla Procura e l’organizzazione delle forze dell’ordine: leggi e pratiche dei pubblici ufficiali devono essere riallineati con gli standard del diritto internazionale.

 

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Guantanamo e le promesse tradite di Obama

Appello di Amnesty International ad Obama. L’organizzazione internazionale chiede al presidente americano di mantenere le promesse fatte in campagna elettorale e di chiudere Guantanamo. Ma a pochi giorni dall’inaugurazione del nuovo mandato, questa ipotesi appare poco probabile, almeno per il 2013.

 

Il 2 gennaio scorso Obama firmava il National Defence Authorization Act, una legge federale relativa alle spese militari e di difesa, che proibisce almeno per tutto il 2013 il trasferimento dei detenuti di Guantanamo sul suolo statunitense, riconfermando la legalità della detenzione senza limiti di tempo, e in assenza di un processo o di un’accusa.

“Il fatto che firmi questa legge non significa che appoggi totalmente il suo contenuto” ha spiegato il presidente, imputando la responsabilità del suo gesto alle continue pressioni esercitate del Congresso.

La ratifica è avvenuta prima della cerimonia di inizio mandato e, secondo Anthony Romero – a capo della American Civil Liberties Union – grazie a questa legge, Guantanamo resterà aperta almeno per un altro anno.

Inoltre, secondo le dichiarazioni dell’avvocato David Navin, nel 2012 l’amministrazione americana avrebbe speso ben 730.000 dollari per costruire un campo di calcetto all’interno della struttura carceraria, migliorare la qualità della connessione internet e aumentare il numero delle abitazioni.

Spese che rendono la chiusura del carcere ancora più improbabile, quantomeno nel breve periodo.

Qualche giorno dopo, l’8 gennaio, Obama nominava John Brennan direttore della CIA. Lo stesso Brennan che era stato tra i candidati favoriti già nel 2009, quando però fu costretto a ritirarsi a causa delle polemiche scatenate dal suo presunto appoggio alla pratica degli “interrogatori rinforzati” praticati sotto l’amministrazione Bush.

E se durante il suo primo mandato, il leader democratico si è limitato ad affidargli l’incarico di consigliere nella lotta al terrorismo (una posizione che non richiede alcuna conferma politica da parte del Congresso), oggi, a quattro anni di distanza, ne ha riproposto la candidatura, a dispetto dell’opposizione dell’American Civil Liberties Union.

Organizzazione che con un appello al Senato ha sostenuto la necessità di indagare sul ruolo ricoperto dall’ex-agente rispetto a torture, abusi, prigioni segrete ed extraordanary rendition. Brennan che è anche uno dei massimi sostenitori dell’utilizzo dei droni.

 

OBAMA E GUANTANAMO: UNA PROMESSA TRADITA

Nel 2008, Obama aveva fatto della chiusura di questa struttura detentiva uno dei punti di forza della sua campagna elettorale. In realtà, anche il presidente uscente Bush e l’allora candidato repubblicano McCain avevano usato questa stessa promessa per riscuotere il consenso dei loro elettori.

E all’inizio del suo primo mandato il presidente ha effettivamente emanato un executive order che autorizzava la chiusura del carcere, con l’obiettivo di chiudere definitivamente “uno dei capitoli più tristi della storia americana”.

Obiettivo che doveva essere raggiunto – secondo i piani del leader democratico – attraverso l’istituzione di una task force incaricata di giudicare i detenuti caso per caso, in modo da decidere se rimpatriarli, sottoporli al giudizio di una corte civile statunitense o tenerli in carcere senza stabilire un limite preciso di tempo per il loro rilascio.

In base al lavoro della commissione, l’amministrazione americana ha poi rilasciato 84 dei 250 prigionieri rinchiusi a Guantanamo, stabilendo però che 48 di loro, pur non potendo essere processati, sarebbero dovuti rimanere dietro le sbarre per un periodo di tempo imprecisato – e comunque sino alla fine delle ostilità – perché “troppo pericolosi per venir rimpatriati o trasferiti”.

L’opposizione del Congresso ha però giocato un ruolo cruciale. Attraverso l’approvazione di emendamenti a leggi sulla difesa, Camera e Senato sono riusciti a contrastare il trasferimento dei detenuti sul suolo statunitense. E la prigione è rimasta aperta.

Ciononostante, nel 2010 il suo iniziale impegno a favore della chiusura del carcere gli è valso un Nobel (preventivo) per la Pace, accolto dall’inquilino della Casa Bianca con un discorso incentrato nuovamente sul ruolo-guida degli Stati Uniti nel rispetto dei diritti umani su scala globale, perché – ha sostenuto Obama – è proprio “questo che ci contraddistingue dai nostri avversari”.

 

GUANTANAMO 2013

Secondo i calcoli della giornalista Carol Rosenberg, Guantanamo è una delle prigioni più costose al mondo: ogni anno e per ogni prigioniero i contribuenti americani pagano fino 800.000 dollari. Una cifra che supera di ben 30 volte il costo di un detenuto di un qualsiasi altro carcere situato sul suolo statunitense.

Oggi Guantanamo ospita 166 persone, di cui solo 36 accusate di terrorismo.

Durante gli undici anni di attività, Guantanamo ha però ‘accolto’ almeno 779 individui, la maggior parte dei quali ha trascorso all’interno della struttura diversi anni, senza garanzie di un processo equo e, in molti casi, senza una vera e propria accusa.

Tanti i tipi di tortura praticati durante gli interrogatori: tra il waterboarding e l’impiego di cani, dal 2002 (anno di apertura) sono nove i detenuti che hanno perso la vita, sette quelli suicidi.

Attualmente sono ancora sei le persone che attendono di essere giudicate per gli attacchi dell’11 settembre 2001 da una commissione militare che deciderà delle loro vite e che, soprattutto, ha ancora il potere di condannarli a morte nonostante le loro dichiarazioni siano state rilasciate sotto tortura.

Sebbene Obama abbia sempre dichiarato di aver “ereditato” la guerra al terrorismo dall’amministrazione Bush (ricordiamo che la parola chiave della sua prima campagna elettorale è stata “cambiamento” e che il presidente aveva promesso, fra le altre cose, di riportare la lotta contro al-Qaeda nel quadro del diritto internazionale), nella realtà il presidente non ha fatto nulla per abbandonare alcune delle politiche più controverse adottate dal suo predecessore, come la detenzione senza limiti di tempo e l’utilizzo delle commissioni militari.

Inoltre, sempre sotto la sua (prima) presidenza, si è registrata un’escalation di omicidi mirati, condotti per mezzo di droni. In questi ultimi cinque anni, l’amministrazione americana ha inaugurato une vera e propria ‘caccia’ ai terroristi o presunti tali, colpendo direttamente paesi come Pakistan, Afghanistan, Sudan e Yemen.

Secondo i dati di al-Jazeera, solo in Pakistan si conterebbero oltre 1500 vittime di attacchi, fra cui molti civili. Dati che gettano più di un’ombra sulle reali intenzioni di Obama, soprattutto dal punto di vista morale.

Spesso le circostanze di questi omicidi sono ignote e la fondatezza delle accuse non dimostrata attraverso un processo.

Non è chiaro dunque come l’impegno del presidente per la chiusura di Guantanamo sia conciliabile con quanto sancito dal diritto internazionale, dal momento che l’attuale amministrazione sembra incline ad uccidere direttamente i presunti terroristi piuttosto che accollarsi l’onere di catturarli, mantenerli ed eventualmente processarli davanti ad una commissione militare.

Ma Obama e il suo circolo di consiglieri rifiutano questa interpretazione e spiegano la scelta di affidarsi agli aerei senza piloti con l’impossibilità di catturare gli affiliati ad al-Qaeda in luoghi remoti e tribali.

 

OBAMA COME BUSH?

Guantanamo è diventato un simbolo di portata globale della violazione dei diritti umani in nome della sicurezza nazionale. Un simbolo che sembra duro a morire: secondo Jennifer Daskal, consulente nella lotta al terrorismo di Human Rights Watch, per Obama “la chiusura di questo carcere rappresenta tutt’altro che una priorità, almeno nel breve periodo”.

Due invece i passi in avanti che vanno assolutamente fatti: primo, trovare un luogo sicuro dove i detenuti che sono stati giudicati innocenti possano essere trasferiti. Secondo, stimolare un serio dibattito politico sulla fine della ‘guerra al terrore’.

Serve la definizione di un obiettivo che, una volta raggiunto, permetta alla Casa Bianca di dichiarare finite le ostilità e tutte quelle violazioni dei diritti umani e delle libertà civili compiute proprio in nome della loro difesa.

In conclusione, sebbene la chiusura del carcere sembri poco probabile (almeno per quest’anno), da sola non basterebbe comunque a riabilitare gli Stati Uniti e, più specificamente, l’amministrazione Obama nel ruolo di paladina dei diritti umani. Sotto la sua presidenza la guerra al terrorismo ha cambiato pelle, ma le violazioni del diritto internazionale continuano a essere sotto gli occhi di tutti.

 

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