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Egitto. Giù le mani da Magdy El-Shafee

Un arresto del tutto arbitrario a margine di una manifestazione, poi l’interrogatorio e la detenzione nel carcere di Tora per quattro giorni. E’ successo a Magdy El-Shafee, vignettista egiziano di fama internazionale e autore di ‘Metro’, graphic novel che ha raccontato al mondo la corruzione ai tempi di Mubarak.

 

“Magdy si trova nella stazione di polizia di Qasr el-Nil e sta finendo di compilare i documenti per il suo rilascio. Non sappiamo però quanto ci vorrà”, ha fatto sapere il 23 aprile alle 14:30 su Twitter il giovane scrittore egiziano Muhammed Aladdin, nel tentativo di calmare gli animi.

Ci è voluto un pomeriggio intero prima del rilascio su cauzione, e solo in serata la notizia ha cominciato a circolare in rete.

“Magdy è fuori” ha scritto Susan Harris di Words Without Borders intorno alle 20:00, postando una foto in cui si distingue il volto del vignettista che, circondato da altri, fa il segno della vittoria. 

E ancora “Magdy è libero, ma ha ancora bisogno di supporto contro le accuse false mosse contro di lui”, si legge in un altro post, pubblicato circa dieci minuti dopo.

In questi quattro giorni carichi di angoscia, molti hanno seguito la vicenda sui social network. Su Twitter è stato creato l’hashtag #freemagdy per aggiornare in tempo reale sulle condizioni del detenuto e diffondere la protesta contro il suo arresto.

Magdy El-Shafee, vignettista egiziano, è finito in manette venerdì scorso mentre passeggiava in piazza Abdel Moneim Riyad, una zona centrale del Cairo, ignaro di quello che stava per accadergli. 

Lì vicino si stava svolgendo una manifestazione organizzata dalla Fratellanza Musulmana per chiedere una “riforma radicale della magistratura” e all’improvviso sono scoppiati dei tafferugli.

Secondo varie ricostruzioni, il vignettista è intervenuto per cercare di placare gli animi degli astanti ma le forze di sicurezza non hanno fatto distinzioni, arrestando lui e altre 39 persone (inclusi due cittadini stranieri e alcuni minorenni). Magdy non avrebbe opposto alcuna resistenza, ma nonostante questo sarebbe stato malmenato dagli agenti.

Dopo l’arresto, la polizia l’ha trasferito nella centrale di Qasr al-Nil per interrogarlo e infine è stato portato nella prigione di Tora.

Contro di lui le autorità hanno costruito un impianto accusatorio particolarmente grave: partecipazione alla manifestazione, minaccia dell’uso della forza, acquisto di una pistola senza autorizzazione, detenzione di armi da fuoco e munizioni, oltre al tentato omicidio di tre poliziotti, l’assalto a pubblico ufficiale e la distruzione di strutture pubbliche e private.

“Le politiche securitarie sotto Morsi sono le stesse di quelle dell’era Mubarak, se non peggio”, ha scritto il giornalista Amr Ezz El-Din su El-Watan commentando l’arresto del vignettista.

“Dopo la rivoluzione tutto è rimasto invariato, l’unico vero cambiamento è stato il passaggio ad un regime retto dai civili, ma le forze di sicurezza sono ancora al servizio del sistema politico, preferendolo di gran lunga al popolo egiziano”, ha dichiarato in un’intervista televisiva la moglie di Magdy, chiudendo il suo intervento con un appello all’imparzialità e alla correttezza della magistratura.

All’epoca di Mubarak, nel 2008, il vignettista era già finito nella mani del sistema giudiziario con l’accusa di “oltraggio alla morale pubblica” per il suo lavoro: “Metro”, la prima graphic novel egiziana che si rivelò perfetta immagine della dilagante corruzione nel paese.

In quell’occasione venne arrestato e processato insieme al suo editore e infine condannato a pagare una multa di 5.000 sterline egiziane.

 

ABUSI DI POTERE

 

Ufficialmente Magdy El-Shafee è stato arrestato perché scambiato per un criminale dalle forze dell’ordine: in questo senso la sua storia riflette gli abusi di cui sono vittima i cittadini egiziani da parte della polizia.

Tuttavia, il suo caso rappresenta anche la storia di un uomo conosciuto all’estero che può godere dell’appoggio e della mobilitazione di tanti giornalisti, scrittori e artisti.

Il suo arresto è in parte dimostrazione di quanto poco sia cambiato il ruolo e il modus operandi delle forze dell’ordine nell’Egitto post-Mubarak, senza dimenticare come proprio la brutalità della polizia di Mubarak sia stata fra i motivi principali della rivolta del gennaio 2011.

Nel corso degli ultimi due anni, polizia e militari hanno continuato a rendersi complici di molti abusi e atti di violenza contro i cittadini, come documentato anche dall’ultimo leak pubblicato dal Guardian.

Basti pensare che la stragrande maggioranza dei responsabili della morte di almeno 846 manifestanti è ancora a piede libero, e solo 4 dei 36 processi contro agenti di basso e medio rango accusati di aver provocato vittime nei pressi delle centrali di polizia si sono conclusi con una sentenza di condanna.

“Stiamo assistendo a nuovi casi di tortura e uso eccessivo della forza (…) senza che il governo si assuma alcuna responsabilità o abbia la volontà politica per fare delle riforme serie del settore della sicurezza. (In questo modo) la speranza di porre fine agli abusi è minima” ha dichiarato Nadim Houry, direttore di Human Rights Watch Egitto.

 

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Egitto. Divide et impera, a sfondo confessionale

Dopo una serie di nuovi scontri, la tensione fra copti e musulmani è tornata a salire. E qualcuno già parla di guerra civile.

Le violenze interconfessionali sono ripartite da Khosous (piccola località a nord del Cairo) dove hanno perso la vita un musulmano e quattro copti*.
Alcuni blogger sostengono che a dare il via agli scontri sarebbe stato un banale incidente: forse una scritta oppure un disegno sul muro di un edificio religioso.
Una piccola scintilla che è bastata a far riesplodere l’odio all’interno di una comunità locale dove la tensione era già alta.
Due giorni dopo, gli scontri si sono riaccesi nella capitale (davanti alla cattedrale di San Marco), proprio dopo i funerali dei quattro cittadini copti morti a Khosous.
Questa volta, dopo la cerimonia, la gente ha intonato slogan contro il regime e soprattutto contro il presidente Morsi. Secondo alcune ricostruzioni sarebbero intervenute le forze di sicurezza, attaccando l’edificio religioso.
Tuttavia ricostruire con precisione le dinamiche dei due incidenti è quasi impossibile perché sul web dilagano numerosissime versioni dell’accaduto, versioni anche diametralmente opposte.
Due elementi sembrano finora incontrovertibili: una situazione d’instabilità politica e insicurezza ormai divenute quasi insostenibili ed un governo che non sembra riuscire a frenare il precipitarsi degli eventi.
CITTADINI DI SERIE B
Secondo il giornalista Ulf Laessing, durante la presidenza Morsi la violenza su base confessionale è aumentata e i cristiani hanno denunciato un numero crescente di attacchi contro le loro chiese.
Solo negli ultimi mesi, se ne sarebbero verificati cinque: da Shobra a Fayoum, passando per Aswan e Beni Suef.
Con la salita al potere del governo guidato dalla Fratellanza, molti membri della comunità copta hanno deciso di lasciare il paese trasferendosi soprattutto negli Stati Uniti.
Ma gli scontri interconfessionali non sono una novità dell’ultimo anno e rappresentano da sempre una costante della realtà politica egiziana già sotto Sadat e Mubarak, così come le discriminazioni contro i cristiani, sia sul piano legislativo sia nell’ambiente lavorativo.
Costruire o riparare una chiesa, per esempio, comporta enormi difficoltà in termini di permessi e autorizzazioni, mentre l’accesso ad alcune cariche pubbliche di alto profilo è, nei fatti, quasi del tutto interdetto ai membri della comunità copta.
DIVIDE ET IMPERA
Secondo la giornalista Yasmine Nagaty, Morsi – così come Mubarak – usa la violenza interconfessionale per ‘distrarre’ i cittadini egiziani dalla gravissima crisi socio-economica che sta attraversando il paese.
Seguendo quella che è ormai una consolidata strategia, lo Stato si fa promotore delle divisioni fra copti e musulmani divenendo, di conseguenza, complice della brutalità che ne scaturisce. 
A volte, come nel caso della chiesa andata in fiamme nel dicembre del 2010, le istituzioni sembrerebbero essere direttamente coinvolte nei fatti di sangue.
“Poiché Mubarak e Morsi hanno insistito su una politica economica che ha marginalizzato ampi strati della società, per questi regimi è diventato necessario tenere impegnati i cittadini in scontri di distrazione per evitare una mobilitazione sulla base dei problemi economici del paese, come quella del gennaio 2011”, ha dichiarato la giornalista.
La tattica del divide et impera dello Stato si è giocata anche sul piano legislativo: l’opinionista Mohammed Kheir spiega come nella prima Carta costituzionale egiziana l’articolo che definiva l’Islam come “religione di Stato” compariva in fondo alla lista. Poi però, con il passare degli anni, sarebbe stato progressivamente spostato verso l’alto, sino a finire in seconda posizione.
Infine, nella nuova Costituzione, la posta in gioco sarebbe aumentata ulteriormente, con l’inserimento del paragrafo n.220, che specifica l’orientamento sunnita dell’ordinamento nazionale.
In questo quadro legislativo, ogni altra identità religiosa costituisce per se un’accusa e i copti sono relegati ancora una volta al ruolo di cittadini di serie b.
A due anni dalla rivoluzione del gennaio 2011, l’establishment politico riconferma il suo rifiuto per un modello di Stato moderno e democratico, dove le gerarchie dettate dalla religione siano soppiantate da una versione liberale del concetto di cittadinanza.
Ed il ruolo che la comunità copta ricoprirà nel nuovo sistema politico rimane uno dei grandi interrogativi della ‘transizione’ attuale.
*I COPTI RAPPRESENTANO IL 10% PER CENTO DELLA POPOLAZIONE IN EGITTO E SONO LA MINORANZA CRISTIANA PIÙ NUMEROSA DI TUTTO IL MEDIO ORIENTE. SI CONCENTRANO SOPRATTUTTO AL CAIRO, ALESSANDRIA E NELLE CITTÀ DELL’EGITTO MERIDIONALE.
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Egitto. Le mille e una atrocità dell’esercito durante la ‘rivoluzione’

Da guardiani della rivoluzione a carnefici: questa la parabola dell’esercito egiziano documentata da un nuovo rapporto.

Il documento non è stato ancora divulgato tramite canali ufficiali ma – nella versione ridotta resa nota dal quotidiano inglese – ha fatto già il giro del mondo, provocando forti reazioni.

“Non si può sottovalutare l’importanza di questo rapporto […] Fino ad oggi, non c’è stato un riconoscimento ufficiale da parte dello Stato della forza eccessiva usata da polizia e militari. L’esercito ha sempre detto di essere stato dalla parte dei manifestanti e di non aver mai sparato contro i civili. Questa è la prima [..] condanna ufficiale delle sue responsabilità nei casi di tortura, sparizione forzata e uccisione”, ha dichiarato Heba Morayef, direttore di Human Rights Watch in Egitto.

 

Cronaca di una fuga di notizie

compilare questo rapporto-shock è stata una commissione nominata dal presidente Morsi nel luglio del 2012 e formata da sedici membri. Fra questi, giudici e funzionari del ministero degli Interni, ma anche avvocati per i diritti umani e parenti di persone uccise o scomparse.

L’obiettivo di questa task force era raccogliere informazioni dettagliate su uccisioni e ferimenti di manifestanti (avvenuti fra il gennaio del 2011 e il giugno del 2012), esaminando le misure prese dal governo e la cooperazione fra potere esecutivo e giudiziario.

Lo scorso gennaio, la commissione ha chiuso i battenti, presentando i risultati del proprio lavoro a Morsi, che invece di pubblicare le “mille pagine di atrocità” contenute nel rapporto, ha preferito passarle direttamente alla Procura.

Tutto è quindi rimasto a tacere sino alla settimana scorsa, quando alcuni capitoli sono finiti sulle pagine del Guardian.

Dalla lettura degli estratti pubblicati, emergono chiaramente tre questioni: la responsabilità dei militari in relazione alla tragedia di quelli che potremmo definire i desaparecidos egiziani, gli abusi commessi nell’ospedale militare di Kobri al-Qoba nel giugno del 2012 e l’uso eccessivo della forza impiegato dalla polizia contro i manifestanti a Suez.

 

Di torture, uccisioni e sparizioni forzate

In base al contenuto del rapporto, durante la rivoluzione del gennaio 2011, l’esercito ha torturato, ucciso e fatto sparire forzatamente molti cittadini egiziani.

Un numero imprecisato di civili sarebbe morto durante la detenzione nelle prigioni militari e alcuni corpi sono stati seppelliti senza essere identificati.

Durante i diciotto giorni di proteste, i militari sono accusati di aver trasformato il Museo egizio in un centro di detenzione temporanea, da cui poi trasferire i manifestanti nelle carceri militari dove molti avrebbero subito gravi forme di tortura.

Secondo la testimonianza di Mohamed Mahdi Issa, suo figlio è stato arrestato il 30 gennaio 2011 presso un checkpoint lungo la strada desertica tra Fayoum e il Cairo.

Dopo essere stato portato in una stazione di polizia e poi trasferito in una prigione militare, il giovane è scomparso nel nulla.

Durante la ‘rivoluzione’, sono spariti circa 1000 cittadini. I cadaveri di alcuni sono stati ritrovati negli obitori, spesso irriconoscibili per via delle torture subìte, mentre di molti non si sa ancora nulla a quasi due anni di distanza.

Fra le ‘raccomandazioni’ della commissione, l’avvio di un’indagine approfondita sugli abusi e le violenze perpetrate dai militari affinché vengano a galla i nomi di tutti i responsabili.

Ma il rapporto non si ferma qui, e documenta il trattamento ricevuto dai manifestanti feriti nell’ospedale militare di Kobri al-Qoba durante gli scontri davanti all’Abbassiya (il ministero della Difesa) nel maggio del 2012.

In base alle testimonianze raccolte, gli ufficiali dell’esercito avrebbero ordinato ai medici di operare i pazienti senza anestesia utilizzando strumenti non sterilizzati.

Inoltre, militari e dottori avrebbero aggredito verbalmente e fisicamente i feriti, mentre altri sarebbero stati chiusi nel seminterrato.

Un’altra parte del documenti indaga invece le dinamiche che hanno caratterizzato gli scontri di piazza, sottolineando come l’esercito abbia chiuso gli occhi davanti all’aggressione dei manifestanti da parte della baltagiya (criminalità).

Anzi. Alcuni video usati dalla commissione sembrano indicare che fra militari e delinquenti locali ci fosse un vero e proprio accordo.   

Infine, in un ultimo estratto pubblicato dal Guardian, si denuncia l’eccessivo uso della forza impiegato dalla polizia contro i manifestanti di Suez, durante i primi giorni della rivoluzione.

In questo caso gli ufficiali avrebbero ordinato ai loro sottoposti di sparare indiscriminatamente sulla folla e alcuni poliziotti in borghese si sarebbero infiltrati fra i manifestanti, diffondendo il panico a colpi di arma da fuoco.

 

La (non) risposta delle istituzioni

Giovedì scorso, Morsi ha incontrato il Consiglio supremo delle forze armate (Scaf). In questa occasione, il presidente ha ufficialmente preso le difese dei militari, assicurando che nessuna forma di attacco o insulto sarà accettata.

“Il popolo apprezza il grande ruolo di questa istituzione nel preservare la sicurezza nazionale”, ha dichiarato il capo di Stato egiziano.

L’esercito è un attore di primo piano sia nell’economia sia nella politica del paese, e riceve più di un miliardo di dollari all’anno in assistenza militare dagli Stati Uniti. Durante la rivoluzione del gennaio 2011, i militari hanno dichiarato la loro neutralità, assumendo il ruolo di garanti della sicurezza.

Ma nell’interregno che segue la caduta del regime di Mubarak, lo Scaf e l’immagine dei militari inizia a essere intaccata dai primi scandali: una serie di duri atti di repressione contro i manifestanti, gravi accuse di tortura e abusi sessuali, nonché l’uso diffuso di corti marziali per processare i civili.

Solo nel 2011 si contano almeno 12 mila cittadini processati davanti a tribunali militari, un numero così elevato da far impallidire il sistema giudiziario dell’era Mubarak.

Perciò se già da tempo la parabola dei militari egiziani era entrata in una fase discendente, il nuovo rapporto pubblicato dal Guardian potrebbe rappresentare un ulteriore passo in avanti in questa direzione: il primo riconoscimento da parte del governo delle atrocità commesse dall’esercito contro i civili dal gennaio 2011 in poi.

Tuttavia la versione integrale del documento non è stata ancora pubblicata ufficialmente dalle autorità egiziane, ma soprattutto, in base alla nuova Costituzione, l’esercito rimane l’unico ad avere il diritto di investigare sulle accuse di crimini commessi dai suoi membri.

Un duplice ruolo di controllato e controllore che con tutta probabilità non garantirà l’imparziale svolgimento delle indagini.

 

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Femen: guerra santa senza veli o neocolonialismo culturale?

Giovedì scorso il collettivo femminista Femen è tornato a far sentire la propria voce con la controversa iniziativa “Topless Jihad Day”, una mobilitazione duramente criticata anche da molte musulmane.

SE IMPAZZA LA CONTRO-PROTESTA

‘Donne Musulmane contro Femen’ è il nome della campagna online nata il 5 aprile su facebook, all’indomani della mobilitazione del collettivo ucraino.

 Nel giro di pochi giorni ha guadagnato più di 5.000 adesioni, stimolando un ampio dibattito anche su twitter, con l’hashtag #Muslimahpride.

 Le sostenitrici di questa campagna accusano Femen di ‘islamofobia e imperialismo culturale’, esprimendo un netto rifiuto per lo stereotipo della donna araba “vittima passiva” della sua cultura e religione. 

 Sofia Ahmed – fondatrice della pagina facebook – ha invitato le donne musulmane di tutto il mondo a ‘insorgere’ e in tantissime hanno raccolto il suo appello postando foto e scrivendo brevi messaggi.

 Da ‘L’Islam mi ha liberato’ a ‘Non ho bisogno di essere salvata’, questo il tono di alcune delle dichiarazioni apparse sui social network. 

 La campagna nasce per criticare il tentativo di Femen di imporre i propri valori sull’universo femminile musulmano. 

 “Stiamo prendendo una posizione per far sentire la nostra voce e reclamare il nostro diritto di scelta.  Ne abbiamo abbastanza dell’atteggiamento paternalistico e parassitario di alcune femministe occidentali”, si legge sulla pagina facebook del gruppo. 

 

LA ‘GUERRA SANTA’ DI FEMEN

‘Topless Jihad Day’ è invece l’iniziativa organizzata da Femen a sostegno dell’attivista tunisina Amina Tyler e contro l’oppressione delle donne da parte dei gruppi islamisti.

 Giovedì scorso il collettivo femminista ucraino ha organizzato delle azioni di protesta in molte capitali europee, dove le componenti hanno manifestato a seno scoperto, urlando slogan contro l’Islam.

 Tra i gesti più eclatanti, la messa a fuoco della bandiera salafita davanti alla Grande Moschea di Parigi. Poi – in una lettera aperta alle Donne Musulmane contro Femen -, la leader Inna Shevchenko ha dichiarato di accettare che ci siano donne che scelgano liberamente di indossare il velo.

 In questa occasione, l’attivista ha ribadito che il suo gruppo non è contro la religione, ma contro quelle dinamiche di violenza e oppressione che troppo spesso vengono compiute nel nome di Dio. 

 E difendendosi dalle accuse di imperialismo culturale, ha aggiunto: “La libertà non ha niente a che vedere con la nazionalità o il colore della tua pelle. Non c’è un pacchetto di diritti umani per gli europei e un altro per gli arabi o gli americani, i diritti umani sono universali”. […]

 “Puoi indossare tutti i veli che vuoi se domani sei libera di toglierli e poi rimetterli a tuo piacimento, ma non negare che ci sono milioni di donne come te che hanno paura dietro a quel velo, che subiscono violenze fisiche e sessuali perchè non rispettano le norme religiose. Noi siamo qui per gridare contro questa ingiustizia!”. 

 Femen è nato in Ucraina nel 2008 e ben presto ha acquisito una popolarità mondiale, soprattutto in virtù delle tecniche di protesta utilizzate, in primis il seno scoperto.

 Le attiviste dichiarano di lottare per i diritti delle donne e contro ogni tipo di istituzione (politica, religiosa ed economica) che riproduca il sistema del patriarcato.

 Già in passato hanno organizzato azioni dimostrative contro l’islamismo e la shari’a, mobilitandosi anche sul tema delle mutilazioni genitali femminili. La loro rete ha ormai acquisito una dimensione globale, giungendo a toccare anche alcuni paesi arabi. 

 

LE FEMEN ARABE

In Tunisia per esempio la fan page ‘locale’ del collettivo ucraino conta più di 17.000 adesioni e la cineasta Nadia al Fani, insieme alla giornalista francese Caroline Fourest, ha girato un documentario su di loro. Ed è proprio a sostegno di una Femen tunisina, la giovane Amina Tyler, che si è svolta l’iniziativa ‘Topless Jihad Day’. 

 L’attivista araba sta infatti subendo le ripercussioni del suo eclatante gesto: aver postato alcune foto su facebook in cui posava a seno scoperto.

 Sul suo corpo due scritte in nero. La prima, ‘Fuck your morals’, e la seconda: ‘Il mio corpo mi appartiene e non è la fonte dell’onore di nessuno’.

 Subito dopo la pubblicazione in rete, le foto di Amina hanno avuto una diffusione virali e la giovane si è ritrovata al centro di aspre e pericolose polemiche. 

 L’imam Adel Almi ha proposto che, in base al diritto penale islamico, la ragazza venga condannata a ricevere tra le 80 e le 90 frustrate, anche se per la gravità dell’atto commesso meriterebbe addirittura di essere lapidata. 

 “La sua azione potrebbe provocare un effetto domino e potrebbe essere contagiosa, mettendo in testa idee strane ad altre donne. Perciò è necessario fare di questo incidente un caso isolato”, ha dichiarato l’imam.

 Dopo lo scoppio dello scandalo, Amina è sparita dalla circolazione per circa due settimane per poi riapparire in una trasmissione televisiva dell’emittente francese Canal Plus, in cui ha ammesso di temere per la propria vita.

 E secondo Al-Masry Al-Youm, sempre Amina starebbe cercando di lasciare il paese, per cominciare un corso di giornalismo all’estero. 

 Ma il suo non è l’unico caso del genere. Nel 2011, a destare scandalo nel mondo arabo era stata l’egiziana Aliaa Magdi, anche lei per delle foto di nudo (integrale) apparse sul suo blog.

 Oggi anche lei è diventata una Femen, e ha lasciato l’Egitto per vivere in Europa.

 Nel dicembre del 2012 ha partecipato a una manifestazione con altre attiviste del gruppo ucraino per protestare contro l’oppressione delle donne da parte dell’Islam.

 Un  gesto – che secondo la femminista egiziana Yasmine Nagaty – va interpretato come reazione alla salita al potere dell’islam politico.

 

CHI PARLA PER CHI? 

Le critiche contro Femen si concentrano su due aspetti: l’uso del nudo come arma contro il patriarcato e la presunta retorica neocolonialista.

 Da una parte, protestare a seno nudo per attirare l’attenzione su questioni di genere è considerato da molti come un gesto contraddittorio che rischia di rinforzare quegli stessi stereotipi sessisti contro cui combatte.

 Dall’altra però le Femen si difendono da quest’accusa e spiegano che per loro il corpo è un’arma, non un oggetto sessuale.

 Le attiviste del collettivo devono sottoporsi a duri allenamenti fisici prima di poter partecipare alle proteste e devono anche imparare a muoversi in un modo che sia del tutto privo di richiami sessuali.

 Eppure, per la ricercatrice Sara Salem, molti aspetti del ‘discorso’ di Femen sono in realtà neocolonialisti’, come l’associare il velo all’oppressione e la serpeggiante convinzione che le donne musulmane non abbiano coscienza della loro oppressione. 

 “Affermano di essere contro Femen ma noi siamo qui per loro. Scrivono sui loro cartelli che non hanno bisogno di liberazione, ma i loro occhi chiedono aiuto”, ha dichiarato la leader del movimento ai microfoni di Al-Jazeera.

 Storicamente, alcuni regimi dittatoriali appoggiati dall’Occidente (come quelli di Ben Ali in Tunisia e Mubarak in Egitto) sono stati in prima linea nella promozione dei diritti delle donne, cooptando il movimento femminista all’interno delle strutture statali. E sarebbe proprio l’associazione tra regime post-coloniale e femminismo di Stato ad aver reso ambiguo il concetto di ‘liberazione’ ed ’emancipazione’ in molti paesi arabi, dove certe riforme sono state vissute come una vera e propria imposizione anti-democratica, suscitando reazioni come quella islamista.

 In questa cornice storico-politica, lo sdegno espresso dalla campagna ‘Donne Musulmane contro Femen’ acquisisce un valore ancora più profondo e legittimo.

 Ciononostante appare vero anche il contrario: questa stessa campagna non ‘rappresenta’ tutte le donne che vivono all’interno di quelle comunità in cui l’Islam è maggioritario, come Amina o Aliaa che reclamano quella libertà di scelta rivendicata dal collettivo ucraino.

 Quindi se da un lato il femminismo di Femen non è e non deve essere l’unico possibile – riconoscendo piena legittimità alle tante e variegate realtà locali sia di lotta e che di vita -, dall’altra andrebbero comunque sostenute le scelte di coloro che si pongono come outsider all’interno della propria comunità. 

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Egitto. Come un comico finisce in Procura

Col suo programma satirico El-Barnameg, il comico egiziano Bassem Youssef è diventato una celebrità in tutto il Medio Oriente. Attivo nel mondo della satira dal 2011, da allora non si è più fermato. Ma la sua parodia dell’attuale establishment politico gli è valsa un mandato d’arresto.

“Qui in Procura, poliziotti e avvocati vogliono farsi fotografare con me. Sarà per questo che hanno ordinato il mio arresto?”, si legge nell’ironico tweet di Bassem, postato domenica scorsa dall’ufficio del procuratore generale.

Ventiquattro ore prima era stato emesso un mandato d’arresto nei suoi confronti, con l’accusa di aver insultato il presidente Morsi e l’Islam, e il comico aveva deciso di consegnarsi spontaneamente alle autorità giudiziarie.

Una volta in tribunale, ha dovuto rispondere a una lunga lista di domande su battute, ironie e dichiarazioni pronunciate durante il suo show televisivo, mentre una folla di fan e attivisti si è radunata davanti all’edificio per esprimere il proprio sostegno al comico.

Cinque ore di interrogatorio, al termine delle quali è stato rilasciato su cauzione, dopo il pagamento di 15.000 sterline egiziane (equivalenti a 2.200 dollari). Tuttavia, l’indagine contro di lui continua e Bassem potrebbe essere convocato di nuovo e costretto a comparire davanti a una corte. 

Intanto il suo caso ha suscitato forti polemiche all’interno della società civile egiziana. 

“Gli sforzi patetici volti a strangolare il dissenso e a seminare il panico fra i media sono chiare indicazioni dell’instabilità del regime e della sua mentalità oppressiva”, ha dichiarato su Twitter Mohammed Al-Baradei, leader della principale coalizione di opposizione.

D’altra parte, il presidente Morsi ha ufficialmente preso le distanze dall’operato della Procura, ricordando all’elettorato che “questo organo agisce in maniera indipendente rispetto alla presidenza”.

Ma le sue parole non hanno placato gli animi di una popolazione sempre più delusa e scontenta della direzione che il processo di transizione sta prendendo. 

“Il governo attacca i media perché parlano dei problemi del paese, ma gli egiziani non resteranno in silenzio e continueranno a protestare (…).I toni del mio show non si smorzeranno, al contrario continueranno a crescere”, ha dichiarato il comico ai microfoni della Cnn. 

 

CHI È BASSEM YOUSSEF?

 

Il suo programma, El-Barnameg, è diventato famoso nel 2011, subito dopo lo scoppio della rivoluzione. All’inizio è esploso su Youtube, dove il primo video postato ha ricevuto tre milioni di visualizzazioni. 

Ispirato al Daily Show del comico americano Jon Stewart, è presto divenuto ‘virale’ in rete e nel 2012 il canale privato OnTv  l’ha acquistato, inserendolo nel proprio palinsesto del venerdì sera.

E’ un programma satirico unico nel suo genere, soprattutto nel panorama televisivo egiziano. In trasmissione, Bassem siede tutto il tempo dietro ad una scrivania e da lì commenta con ironia i principali eventi politici nazionali, prendendo come ‘bersaglio’ i personaggi pubblici, e prima di tutto il presidente Morsi e il clero. 

Durante lo show, il comico salta da un video all’altro trasmettendo brevi clip di dichiarazioni rilasciate da figure note e facendo della satira sul loro contenuto.

“I politici che amano il mio show quando critico i loro avversari, poi mi chiamano per lamentarsi quando ad essere presi di mira sono proprio loro”, ha dichiarato Bassem con un certo sconforto.

In passato El-Barnameg è stato più volte al centro delle polemiche e alcuni lo hanno addirittura accusato di blasfemia.

“La società egiziana è di vedute ristrette. La gente non sa distinguere che differenza c’è fra criticare qualche personaggio ‘barbuto’ e insultare l’Islam come religione”, ha commentato difendendosi. 

Chirurgo di professione, medico volontario a piazza Tahrir durante i diciotto giorni di proteste che hanno abbattuto il regime di Mubarak, Bassem si definisce un musulmano praticante e si rifiuta di interpretare l’attuale caos politico egiziano come lotta fra uomini di fede e secolarizzati.

A suo parere infatti il problema è come l’Islam politico – dai Fratelli Musulamani ai Salafiti – stia gestendo il potere e usando la religione in modo distorto.

 

LIBERI, MA NON TROPPO

 

L’attacco che lo riguarda e la vicenda che lo vede protagonista non rappresentano un caso isolato, ma solo l’ultimo di una serie di atti giudiziari volti a colpire l’opposizione politica in Egitto.

Venerdì scorso era stata la volta di nove attivisti e quattro avvocati di Alessandria, finiti nel mirino della magistratura e chiamati a presentarsi davanti alla giustizia.

Dieci giorni fa, dopo gli scontri davanti alla sede della Fratellanza, la Procura aveva ordinato l’arresto di cinque prominenti esponenti del movimento egiziano pro-democrazia.

Nonostante Morsi avesse promesso di rompere con il passato autoritario e garantire la libertà di stampa e di espressione, sotto la sua presidenza la repressione del dissenso è proseguita, con metodi aggressivi che ricordano l’epoca di Mubarak e dell’interregno militare dello SCAF.

Attualmente, le linee rosse che i media non possono oltrepassare sono tre: la figura del Presidente, il movimento dei Fratelli Musulmani e i valori religiosi.

E la serie di indagini aperte è lunga, così come l’elenco di giornalisti, blogger e conduttori televisivi finiti sotto inchiesta.

A due anni dalla rivoluzione del 25 gennaio, la Freedom House ha classificato l’informazione in Egitto come “parzialmente libera”, evidenziando come il settore mediatico sia l’ennesimo in cui la transizione non sembra ancora andare nella direzione sperata.

This article was originally published by: Osservatorio Iraq – Medioriente e Nordafrica

Iraq. James Steele, l’uomo del mistero e il ‘mago’ della counterinsurgency

‘Dieci anni dopo’, un’inchiesta firmata da Guardian e BBC Arabic fa luce sul ruolo dell’ex-colonello statunitense James Steele in Iraq. La storia dell’esperto di counterinsurgency è ‘ambientata’ durante uno dei capitoli più oscuri dell’occupazione americana e arriva sino in Vietnam.

 

IL ‘MAGO’ DELLA COUNTERINSURGENCY

Steele è considerato un veterano delle cosiddette guerre sporche ed è diventato ‘famoso’ soprattutto per il suo impegno in Vietnam ed El Salvador.

“Intelligente, duro e attento osservatore”, così lo descriveva Donald Rumsfeld (allora ministro della Difesa), in una nota inviata al presidente Bush e al suo vice Cheney.

“E’ un individuo privo di umanità: il gran numero di guerre in cui ha combattutto e i vari tipi di tortura commessi, sia in Iraq che in altre parti del mondo, lo hanno privato di qualsiasi emozione”, ha detto di lui il generale iracheno Muntadher al-Samari.

In Vietnam, James Steele ha ‘familiarizzato’ con le tecniche ‘antiguerriglia’, combattendo nel reggimento dei Cavalli neri. In El Salvador, invece, ha ‘capeggiato’ l’MilGroup, un corpo di consiglieri speciali inviati dagli americani per ‘istruire’ il governo locale su come reprimere la ribellione di sinistra scoppiata nel paese.

“E’ un vero militare, di grande disciplina, sono davvero rimasto molto colpito da lui. (…) Senza il suo consenso, non si muoveva nulla”, ha dichiarato Celerino Castillo, agente speciale dell’esercito regolare di El Salvador.

James Steele è arrivato a Baghdad nel 2003, con l’incarico di consulente del settore energetico per l’amministrazione americana e è rimasto nel paese fino al 2005. Del suo ruolo durante l’occupazione si sapeva poco, almeno fino alla pubblicazione dell’inchiesta di Guardian e BBC Arabic. A documentarne la sua presenza del paese c’era solo un breve filmato youtube e qualche foto.

 

GLI IRACHENI LO FANNO MEGLIO, MA SOTTO LA SUPERVISIONE AMERICANA

Appena dopo l’invasione, gli Stati Uniti iniziano ad addestrare la polizia irachena per quella che pensavano sarebbe stata una transizione pacifica. Ma con l’escalation dell’insurrezione di matrice sunnita, il numero di soldati americani uccisi cresce esponenzialmente, la guerra diviene impopolare e la crisi irachena minaccia la rielezione di Bush.

Fino alla primavera del 2004, la repressione degli insorti era stata principalmente affidata ai militari americani ma con scarso successo.

Perciò, l’amministrazione, messa alle strette, si vede costretta a un cambio di strategia: la creazione di forze ‘speciali’ di polizia composte esclusivamente da iracheni, sotto la supervisione di esperti americani in ‘counterinsurgency’.

La decisione di creare questi ‘commandos‘ viene materialmente presa da Falah al-Naqib, ministro degli Interni iracheno durante il governo di Allawy che, insieme agli americani, decide di ‘abbandonare’ parzialmente il principio di de-baathificazione, mettendo a capo di queste nuove forze di sicurezza degli ufficiali che avevano ‘lavorato’ durante il regime di Saddam, in primis il sunnita Adnan Thabit, che ne diviene il leader.

Secondo l’inchiesta di Guardian e BBC Arabic, più tardi i ranghi di questi commandos speciali vengono integrati anche da milizie sciite, desiderose di ‘dare una lezione’ agli insorti.

L’organizzazione e l’addestramento di queste forze speciali viene affidata a un circolo molto ristretto di ‘esperti americani’ che svolgono principalmente un ruolo di consulenza. James Steele (da civile) ne diventa il capo indiscusso, con il compito di supervisionare le forze locali anti-guerriglia e dirigere la caccia agli insorti.

Sempre l’inchiesta sottolinea come l’ex-colonnello statunitense abbia collaborato quotidianamente con i commandos speciali iracheni, fornendogli liste di individui da catturare e provvedendo ad organizzare il trasferimento dei prigionieri in centri per gli interrogatori gestiti dagli americani.

 

LE PRIGIONI SEGRETE

Per ottenere informazioni sull’insurrezione, vengono istituiti dei centri di detenzione segreti dove le forze speciali di polizia portano gli individui arrestati durante i raid. Secondo il generale al-Samari, le prigioni segrete sarebbe state quattordici o quindici in tutto, sparse in tutto il paese e sotto il controllo del ministero degli Interni.

Gli americani erano a conoscenza di tutto quello che succedeva al loro interno, uccisioni e torture comprese. Il generale (attualmente residente in Giordania) racconta anche di come lo stesso Steele abbia visitato uno di questi centri a Baghdad in sua presenza.

Ottenere informazioni dai detenuti era un’operazione di routine per i commandos speciali iracheni e i loro supervisori americani. I sopravvissuti agli interrogatori hanno rivelato di essere stati sottoposti ai più svariati tipi di abusi come percosse, stupri, minacce con armi da fuoco ed elettroshock.

La città di Samarra, a nord di Baghdad, è stata uno dei più importanti banchi di prova per la nuova strategia di ‘counterinsurgency’ adottata dall’amministrazione americana.

Qui, i commandos e i militari americani hanno istituito un centro di detenzione all’interno della biblioteca principale della città. Il giornalista Peter Maass, che ha avuto l’occasione di visitarlo nel 2004 (mentre alloggiava a casa dello stesso Steele, ndr), scrive: “C’erano circa 100 detenuti accucciati sul pavimento con le mani legate dietro la schiena e la maggior parte di loro erano bendati”.

“Alla mia destra, un ufficiale […] stava picchiando e dando calci ad un prigioniero che giaceva a terra. Sono entrato in una stanza adiacente al corridoio principale, e, al momento del mio ingresso, è uscito un detenuto con il naso sanguinante [..] poi a pochi minuti dall’inizio dell’intervista, un uomo ha cominciato a gridare nel corridoio principale Allah Allah Allah, [..] , e non erano grida di estasi ma urla disperate di una persona impazzita”.

 

L’EPILOGO

Secondo Todd Greetree (ambasciatore americano in El Salvador) esiste un filo rosso che collega le strategie di repressione delle insurrezioni messe in atto dal Vietnam in poi.

Perciò, non deve sorprendere che individui come Steele, associati a quel tipo di guerra e profondi conoscitori di tutti i suoi segreti, ricompaiano in momenti diversi della storia, per mettere la propria ‘expertise‘ a servizo dello Stato.

Steele ha lasciato l’Iraq nel settembre del 2005 e, dopo la sua partenza, i commandos hanno continuato ad operare ed ingrandirsi, arrivando a contare 17.000 membri.

Il Guardian e la BBC Arabic hanno cercato di intervistarlo, ma si è rifiutato. Al microfono del giornalista Peter Maass, avrebbe però dichiarato di essere contrario alle violazioni dei diritti umani.

E sebbene il suo operato in Iraq dimostri il contrario, sarà davvero difficile che quest’uomo diventi oggetto di un’inchiesta giudiziaria. Attualmente, l’ex-colonnello vive in Texas e di tanto in tanto, tiene lezioni universitarie sulle tattiche di counterinsurgency.

 

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Egitto. Giù le mani da Port Said: le Green Eagles a difesa della città

Da due mesi le proteste a Port Said si sono riaccese. Al centro delle agitazioni le Green Eagles, il gruppo ultras che sostiene il club calcistico locale al-Masry. Legati alla città e molto strutturati a livello organizzativo, sono ormai un attore centrale delle rivendicazioni e delle lotte locali.

 

La stampa internazionale ha cominciato a parlare di questo gruppo nel febbraio del 2012 quando, in seguito al massacro dello stadio di Port Said, la tifoseria locale è stata accusata di essere la principale responsabile delle violenze.

Tuttavia, le Green Eagles si sono sempre difese, puntando a loro volta il dito contro il regime e dichiarando che, dopo gli scontri nello stadio, molti dei loro leader sono stati arrestati in maniera arbitraria dalle autorità.

Con una sentenza dello scorso 26 gennaio, 21 membri di questo gruppo sono stati condannati a morte proprio per i fatti dello stadio. In seguito all’emanazione del verdetto, i loro compagni hanno guidato le proteste esplose davanti al carcere della città. 

Poi, durante il mese di febbraio, gli ultras di al-Masry hanno detenuto la leadership del movimento di disobbedienza civile che ha interessato Port Said, ricevendo anche il sostegno dei lavoratori.

In un comunicato del 17 febbraio scorso, il gruppo ultras ha dichiarato: “La campagna di disobbedienza civile mira a fare giustizia per i martiri di Port Said, portare davanti al giudice i poliziotti che hanno aperto il fuoco contro i manifestanti inermi, far includere i morti della nostra città  fra i martiri della rivoluzione egiziana ed evitare la politicizzazione del processo in corso”.

Lo scorso 9 marzo, la vicenda giudiziaria relativa al massacro dello stadio si è conclusa con un secondo round di sentenze e la conferma delle 21 condanne a morte per gli ultras di al-Masry.

 

LA REAZIONE

 

In un comunicato riportato da al-Watan, le Green Eagles hanno attaccato i giudici e dichiarato che si tratta di una sentenza “politicizzata”, volta a placare gli animi della tifoseria dell’Ahly, molto temuta dal regime per il suo ruolo nella rivoluzione.

Per la tifoseria di al-Masry, la sentenza è ingiusta e rappresenta uno strumento di ‘oppressione’ nei confronti della loro città e della sua popolazione.

“Noi difendiamo chiunque sia vittima di un’ingiustizia – sia egli ahlawy o masrawy – l’ingiustizia per noi non ha colore (calcistico) e come difendiamo i nostri saremo pronti a difendere gli altri”, hanno scritto le Green Eagles in un post sulla loro pagina Facebook, esprimendo il proprio risentimento per la gioia di parte della tifoseria avversaria alla notizia delle condanne a morte dei loro compagni.

Inoltre, hanno aggiunto, “il regime deve sapere che non può abusare di Port Said o farne un capro espiatorio”.

Gli ultras pretendono il ripristino dei diritti economici per le famiglie dei martiri – i morti durante le manifestazioni e gli scontri di piazza che, se dichiarati ‘martiri della rivoluzione’, hanno diritto ad un sussidio economico per le famiglie – sia per le vittime di una sentenza considerata “ingiusta” (le condanne a morte).

Nei loro comunicati, denunciano la corruzione del regime di Morsi e si scagliano violentemente contro le forze dell’ordine che apostrofano con epiteti poco lusinghieri, come “cani” o “delinquenti”. 

Scendi, partecipa, resisti al sistema”, così si concludono gran parte dei comunicati con cui il gruppo esorta sia i propri membri sia i cittadini di Port Said ad unirsi alle proteste di piazza.

 

PORT SAID: TRA CALCIO E POLITICA

 

Il gruppo ultras Green Eagles, anche conosciuto con l’acronimo UGE,  nasce nel 2009 a Port Said. Conta oltre 2000 membri, tutti supporter del club calcistico locale, l’al-Masry, fondato a sua volta nel 1919.

Questa squadra, il cui nome in italiano significa ‘l’egiziano‘, fu fondata come “espressione del nazionalismo, in seguito al movimento contro l’occupazione britannica guidato da Saad Zaghloul”. 

Fu il primo club egiziano attivo nella città perché il panorama calcistico, fino a quel momento, era stato dominato dai team delle comunità straniere residenti intorno al Canale di Suez. A dare vita ad al-Masry furono i lavoratori egiziani, sotto la guida del sindacalista Moussa Effendi.

Secondo al-Masry al-Youm, il supporto delle Green Eagles non è confinato al club calcistico locale, ma si estenderebbe a tutta la città di Port Said, con cui il legame emotivo e politico è fortissimo.

Non a caso il motto principale di questo gruppo è “Eredi del 56”, che richiama il ruolo eroico svolto dalla città in quell’anno contro l’aggressione tripartita di Francia, Regno Unito ed Israele in seguito alla nazionalizzazione del Canale di Suez da parte dell’ex-presidente Nasser.

Gli Ultras non solo partecipano a tutte le partite del club calcistico locale (sia in casa che in trasferta) ma organizzano anche una festa ogni anno per celebrare gli eventi del ’56 con fuochi d’artificio, graffiti, canti e slogan che fanno parte del loro repertorio. 

Anche se sicuramente il più importante per dimensione e organizzazione, non è il solo gruppo ultras operante nella città: nel 2010 infatti si è costituita un’altra corrente, i Masrawy, che sostengono sempre al-Masry e siedono nel ‘elmodarragh elgharbi‘ (traducibile nella nostra espressione “curva nord”) con le Green Eagles.

 

L’ATTIVISMO ON-LINE E IN PIAZZA

 

Gli ultras di al-Masry sono molto attivi in rete, soprattutto sui social network. La loro pagina Facebook principale è seguita da quasi 60 mila persone, e oltre ad essere aggiornata frequentemente è corredata da tantissime foto di manifestazioni. Il gruppo ha anche un suo canale Youtube.

Analizzando i post pubblicati, ci si accorge della sua importanza a livello organizzativo, con comunicati che segnalano l’ora e il luogo di tutte le assemblee e manifestazioni degli ultimi mesi.

L’identificazione del gruppo ultras con la città di Port Said è molto radicata e, come nota il quotidiano al-Masry al-Youm, la ‘rivoluzione’ di cui parlano è focalizzata sui problemi locali piuttosto che avere un respiro nazionale.

Un membro del gruppo che ha chiesto di rimanere anonimo avrebbe dichiarato: “La nostra rivoluzione è contro l’oppressione che il regime pratica verso Port Said in maniera particolare (…). La sentenza di morte emessa dal giudice non è solo contro il nostro gruppo ultras ma contro tutta la città (…), tutti i componenti delle ‘Aquile Verdi’ sono Saidi, non c’è nessuno fra i membri che provenga da altre parti dell’Egitto”.

Il caso giudiziario dello stadio di Port Said ha creato un baratro fra questa città e la capitale. I cittadini si sentono non solo marginalizzati ma addirittura presi di mira dal regime. E gli ultras locali sono i veri portavoce di questo sentimento che è però profondamente diffuso in tutta la società.

Le Green Eagles sono diventate un attore politico fondamentale a livello locale, molto sensibile alle rivendicazioni e alla sete di giustizia della cittadinanza. Svolgono un ruolo centrale nell’organizzazione delle manifestazioni e sono sempre in prima linea negli scontri e nelle marce.

Tuttavia, son ben lontani dall’aver articolato un’agenda politica strutturata e, secondo alcuni analisti, durante la campagna di disobbedienza civile, il coordinamento con le altre forze politiche (come i sindacati e le istituzioni economiche) è stato debole. 

Inoltre, fare dei martiri il tema principale delle proteste senza dare spazio ad altre questioni sociali importanti è stato forse roppo restrittivo.

 

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Egitto. Violenze sui bambini: la rivoluzione non arriva nelle carceri

In prima linea nelle proteste di piazza, adolescenti e bambini continuano a pagare a caro prezzo il loro ‘impegno’ nella rivoluzione. In un Egitto sempre più in balìa dell’instabilità politica e della violenza, gli abusi delle forze dell’ordine e dei militari non hanno risparmiato neanche i minori.

 

“Cosa ti fa più paura?” chiede la voce fuori campo. “I blindati della polizia”, risponde Zeyd Taysin Mohammed, dodici anni, mentre si tocca nervosamente il viso e racconta la sua storia in un video postato su internet dal collettivo Mosireen.

Zeyd stava camminando in una via centrale del Cairo quando la gente intorno a lui ha cominciato a correre. E’ allora che i poliziotti l’hanno preso e buttato di peso nel loro furgone. “Se non ci dici chi ti paga per protestare, ti tagliamo la gola e gettiamo il tuo corpo in mare”, gli hanno urlato.

“Dentro il blindato eravamo in sei e due di noi hanno subìto violenze sessuali – spiega Zeyd –. C’era anche un ragazzo copto, Kirollos e quando gli agenti gli hanno trovato un crocifisso addosso, volevano farlo a pezzi”.

Una volta in carcere, Zeyd è stato messo in una cella con altre 179 persone (adulte). L’hanno accusato di appartenere ai Black Block e di aver lanciato Molotov contro gli agenti durante una manifestazione.

 

I DIRITTI NEGATI

Secondo il collettivo Mosireen, in occasione del secondo anniversario della rivoluzione, le forze dell’ordine egiziane hanno condotto la più grande campagna di arresti a carico di minori dell’era post-Mubarak: 250 ragazzi sono stati portati in prigione e sottoposti a torture corporali, psicologiche e sessuali.

Nel settembre dello scorso anno invece, durante le manifestazioni davanti all’ambasciata americana, sono stati arrestati 136 minori, mentre sono 300 in tutto quelli finiti in carcere fra la fine del 2011 e novembre 2012.

Secondo Human Rights Watch, in Egitto i minori vengono arrestati e reclusi illegalmente in centri di detenzione per gli adulti, senza poter parlare con uno psicologo o vedere la famiglia (spesso neanche avvertita dell’arresto).

I bambini intervistati dalla ong hanno testimoniato di aver subito maltrattamenti fisici.  “Poliziotti e militari ci hanno preso a calci, percossi con l’impugnatura di fucili e bastoni e sottoposti all’elettroshock”, si legge nel rapporto.

Morsi ha promesso di porre fine alle violenze sui minori ma, secondo il ricercatore Priyanka Motaparthy, se è davvero intenzionato a farlo, deve dare massima priorità alle indagini sugli abusi e impegnarsi a perseguire penalmente i responsabili.

Sally Toma, psichiatra e fondatrice della campagna Kazeboon, ha dichiarato: “Gli abusi delle forze dell’ordine sono un fenomeno radicato nella quotidianità egiziana. Dopo la rivoluzione però gli attivisti ne sono diventati le vittime principali e, fra loro, vi sono molti bambini che stanno ancora combattendo in prima linea contro il regime. [..] I più piccoli sono arrestati durante le proteste, portati nelle stazioni di polizia o nei campi militari e sottoposti ad abusi, anche sessuali”.

“Una volta liberati – continua – tornano in piazza a protestare e lì il ciclo ricomincia con nuovi arresti e nuove violenze. [..] In un certo senso, il regime sta ‘plasmando’ una generazione pronta a tutto pur di eliminarlo, e carica di odio contro le autorità”.

Purtroppo, le leggi in vigore non sono rispettate e i diritti garantiti dal sistema giuridico rimangono solamente sulla ‘carta’.

Infatti, l’Egitto ha ratificato la Convenzione sui Diritti del Fanciullo il cui articolo 37 prevede che l’arresto e la detenzione dei minori siano ‘misure di ultima istanza’, usate solo per periodi di tempo brevi e in conformità con la legislazione nazionale.

Inoltre, la legge egiziana dispone che i bambini sotto i dodici anni non siano penalmente perseguibili mentre la custodia cautelare non può essere applicata ai minori di quindici anni. Le autorità sono quindi incoraggiate a non privare i più piccoli dell’ambiente famigliare salvo che in casi eccezionali e per periodi molto circoscritti.

Infine, in base alla legge n.126 del 2008, spetta al tribunale minorile giudicare questi casi e i pubblici ufficiali che permettono la detenzione di minorenni insieme ad adulti sono perseguibili penalmente.

“Non è chiaro perché le autorità giudiziarie continuino ad ignorare la legislazione in materia – ha dichiarato Motaparthy –. I giudici non dovrebbero decidere in modo arbitrario delle vite dei più piccoli, anche se è quello che stanno facendo”.

 

LA RIVOLUZIONE DEI “PICCOLI”

Prima della rivoluzione, i bambini di strada si affidavano a dei centri di aiuto per ricevere cibo, medicinali e altri beni di prima necessità. Con l’inizio delle proteste e dell’instabilità politica, molti di questi centri hanno chiuso e i bambini si sono ritrovati ancora più soli di prima.

Secondo il ricercatore Andrew Wander, molti sono stati attratti dal ‘festival di Tahrir’ e hanno preso parte alle manifestazioni.

Ma l’euforia iniziale ha presto lasciato spazio alla paura e, quando la violenza è esplosa, questi bambini sono diventati bersaglio di maltrattamenti e violazioni da parte delle forze dell’ordine.

Per loro, Tahrir è stata un’opportunità per ‘vendicarsi’ degli abusi subìti sotto Mubarak e la prima vera occasione per sentirsi parte della comunità egiziana. Tuttavia, dopo la rivoluzione, l’intolleranza nei loro confronti è cresciuta notevolmente.

Secondo Frida Alim, i media hanno giocato un ruolo centrale a questo riguardo, dipingendoli come criminali.

“In realtà – spiega la ricercatrice – molti di loro scappano da famiglie ‘violente’ e sono stati vittime di maltrattamenti anche fra le mura domestiche”.

La maggior parte di questi bambini vive al Cairo e ad Alessandria: secondo le fonti governative sarebbero circa 50.000, ma le statistiche delle ong sono molto più alte (dai 250.000 ai 2 milioni).

Le loro storie fanno luce su una ‘piaga sociale’ enorme, tanto più preoccupante e difficile da gestire perché circondata da una profonda omertà.

“E’ sorprendente come in Egitto il prezzo dei pomodori faccia arrabbiare la gente molto più degli abusi sui minori”, ha scritto su Twitter la ricercatrice Nelly Ali, la settimana scorsa.

Il fatto che molti di loro non abbiano documenti identificativi costituisce un altro grande problema.

Primo, perché senza carta di identità non possono accedere ad alcuni servizi di base come l’educazione e la sanità. Secondo, perché la polizia li arresta proprio con questa scusa, facendoli diventare due volte vittime del sistema politico e giudiziario egiziano.

In un Egitto in transizione, la morsa del regime sui ‘rivoluzionari’ si fa sempre più stretta. E la violenza delle forze dell’ordine è lo ‘strumento principe’ con cui eliminare gli attivisti dalle piazze: anche i più piccoli.

 

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